Tra sogno e realtà


Prima di leggere "L'interpretazione dei sogni" di Freud, pur avendo un'attività onirica fuori dal comune, per la quantità e la nitidezza del ricordo che di essi ho al risveglio, non ero solita analizzare i miei sogni. L'esigenza di farlo è nata quando, con la rivelazione che gran parte dei miei sogni sono premonitori ,mi sono chiesta se non fosse il caso di tenere sotto controllo la mia attività creativa.

Per questo motivo ho preso l'abitudine , al risveglio, di schizzare su di un foglio la scenetta, un po' come accade nell'arte pittorica, quando, per avere modelli da riprendere, si cerca di mettere su cartoncino le prime idee del mattino. Ricordo ancora quando pasticciavo nel mio lettino con i carboncini dando vita alle mie belle navi con lunghe scie, o ai miei fiori di campo e ancora ai miei amici animali, a tutto quello che mi veniva in mente.


Poi riempivo le mie tele sviluppando le idee degli stessi schizzi. In mio aiuto è giunto anche Lucrezio, autore di un'opera mastodontica:"De rerum natura", dove, tra le altre cose, parla anche dei sogni degli uomini. Forse mi sono innamorata dei miei sogni studiando Lucrezio, il quale mi ha indicato, più di Freud, la poeticità dei pensieri degli uomini anche quando stanno a riposo. Dagli ultimi studi svolti, si é scoperto che un cervello a riposo ha un'attività maggiore, carbura di più, pensa di più, crea di più, e ci sarà una correlazione tra l'attività a riposo del cervello e la produzione dei nostri sogni. Ricordo i miei sogni come tante tele appese nel mio cervello e per ciascuno di essi vi è stato un fatto realmente accaduto, per questo parlo di sogni premonitori. Uno di questi mi lasciò molto perplessa al risveglio e, pur avendone fatto lo schizzo, lo riposi quasi subito, a volermene disfare, perchè era alquanto raccapricciante. Il suo contenuto mi è stato chiaro solo a esperienza fatta.


Due giorni dopo il sogno andai a sostenere l'esame di Storia Romana. Ero preparatissima e ben predisposta, sebbene si trattasse di un esame lungo, pesante, con uno studio di quattro mesi alle spalle, studiato da un testo di seicento pagine. Subito fui chiamata a conferire e alla fine di un esame brillante, l'assistente mi rimandò dalla professoressa di cattedra per il corso monografico col mio bel ventotto sul foglio.Il corso monografico, come mi era stato detto da alcune ragazze, non era da farsi e la mia fu una leggerezza, ma lungi da me voler evitare un altro libro da studiare. La professoressa non credette alla mia versione e mi dipinse come una che si trovava lì per tentare l'esame, ma poi il discorso non le tornava vedendo la mia media alta sul libretto. Mi tuonò dall'alto della cattedra che la Federico II è un'università di fama mondiale e non ci si poteva perdere in queste quisquiglie. Poi, su un piccolo pezzetto di carta, strappato da un foglio, mi scrisse il nome del libro da studiare,e che non pensassi che fosse un pizzino, mi tuonò di nuovo e mi rimandò a casa, malgrado il mio ventotto lì in bella vista. Ebbi un moto di stizza irrefrenabile e partii con la mia arringa:"Lei non mi può trattare così perchè studiare mi costa troppo in tutti i sensi; perchè insegno e devo chiedere giorni di permesso e poi giustificarli; perchè sono solo otto i giorni per esami durante l'anno; perchè non sono la ragazza che di mattina va all'università mentre a casa mammà pensa a tutto; perchè il mio tempo è contato e tra poco nello studio mi ci metterò anche il letto per dormirci; perchè pago le tasse in ultima fascia; perchè il diritto allo studio è una baggianata, perchè se il Parlamento invece di fare comunella legiferasse, si renderebbe conto che se io insegno non potrò mai laurearmi in 4 anni ma sarò una fuori corso e per i fuori corsi non è prevista nessuna agevolazione; perchè se voglio studiare mi devo industriare da sola; perchè gli altri pensano che io abbia un hobby e invece sgobbo più che mai. Lei mi sta uccidendo".

Volevo intendere con questa mia orazione che l'esame era da completare e non da fare ex novo, invece lei azzerò tutto.Il mese successivo appena mi vide, non fece nemmeno l'appello che mi chiamò, dicendo alla schiera dei ragazzi :"Ho qualcosa in sospeso con quella signorina, dopo farò l'appello".Conferii su "Roma imperiale", lo studio monografico, mi mise ventotto e andai via non proprio soddisfatta. A casa, mentre riponevo i libri nella libreria, dal testo di storia uscì lo schizzo del sogno: una donna di gran mole toglieva la testa fasciata a una bambina, che ero io e la riponeva su di un tavolo mentre il corpo era da un'altra parte e poi, rivolta a me, che ero anche supervisore del sogno, mi diceva" E' bellissimo, ma lo riprenderai il mese prossimo". Ancora oggi non riesco a pensare che mi accadde tutto quello che in sogno avevo visto, dove la testa fasciata rappresentava il resto dell'esame da completare proprio a distanza di un mese.



Oddio, sono caduta in un sillogismo!


Mi sono imbattuta spesso nel sillogismo , ma in filosofia, per l'esattezza nella filosofia aristotelica: si basa su un ragionamento deduttivo, per cui date due premesse ne deriva necessariamente una conseguenza.Prendo a prestito questo ragionamento.

Mi chiedo se ci sono, in assoluto, più furbi o più artisti, un dubbio che mi giunge dal prendere atto che, con l'aumentare degli scrittori, aumentano anche le case editrici. Questo stato di fatto dovrebbe apportare benefici agli scrittori, che possono scegliere il servizio migliore per pubblicarsi, e contributi alle case editrici, che dispongono di tante opportunità da valutare. Invece non è così. Le case editrici lamentano troppo materiale da visionare, di scarso interesse, fanno penare per una risposta e tengono sulla corda, mentre gli autori ci mettono un secolo per pubblicare qualcosa. Tutti si lamentano, ma tutto aumenta. Aumentano gli scrittori, le case editrici, i materiali...e, di conseguenza, dovrebbe aumentare il giro degli affari e invece sono proprio gli affari che non vanno, ma quelli riferiti agli autori.Da dove nasce questa incongruenza?
-Dalla convinzione che gli scrittori siano solo dei sognatori, esseri incompresi e che perseverando nella loro pazzia giungeranno alla fine dei loro giorni senza portare a termine i loro sogni e che abbiano la mania di pubblicare a tutti i costi?

-Dal fatto che all'autore basti la sua passione per vivere bene e che non abbia bisogno di altri generi di beni come per esempio i soldi?

-Da una specie di congiura tra la piccola editoria, che, pur lamentandosi, si mantenga proprio grazie agli autori e, non potendo investire molto, goda del fatto di creare fastidio ai colossi togliendo loro solo qualche affaruccio di poco conto?

-Che sia una tecnica per aggirare il vero protagonista che è l'autore, sempre bistrattato, ma che intanto rende alle case editrici un mare di quattrini?

Posso permettermi di affrontare il discorso per il fatto di conoscere molto da vicino come vanno queste cose e sapere che un autore intanto è tale in quanto è capace di far circolare moneta, perchè è questo che interessa di lui, quanto riesce a far girare. E poi, non mi spiego perchè le case editrici, anche quando gli affari vanno a gonfie vele, evitano come la peste le famose royalties agli autori?Sicuramente l'autore pecca d'ingenuità. Allora le case editrici potranno obiettare che l'autore non è riuscito secondo le premesse, che ci sono oneri da sostenere e che il guadagno è veramente marginale. E poi come si può essere presi in considerazione se l'autore ha forzato la mano per essere pubblicato?Ogni autore conosce le sue trafile e la sua pazzia lo premierà proprio quando arriverà ad uno stato parossistico di insistenza.

Da che mondo è mondo, un vero artista ha sempre fatto la fame, non ha lo yacht, non va a St. Moritz o a Cortina D'Ampezzo per sciare, non è un perditempo perchè lavora di cervello rintanato in qualche posto e si concentra su quanto vuole creare e non ha tempo per bivaccare o grattarsi la pancia e non lavora a comando. Questo non significa che poi la casa di turno lo tratti per fame, nè che l'artista vero cerchi solo ed esclusivamente la fama. Dunque o l'editore si creerà da solo quello che vuole pubblicare o l'autore si creerà una propria casa editrice. E allora mi sono spiegata la motivazione della grande fioritura di case editrici e mi sa che anch'io prenderò questa strada: creare una casa con la quale pubblicare tutte le mie opere ben riposte in attesa, non di essere semplicemente pubblicate, ma valorizzate e non snobbate solo perchè non sono parente a nessun pezzo grosso o perchè non approvo le condizioni delle varie case di turno. E vuoi vedere che da autore non diventi un vero editore?E sicuramente non è una questione di qualità! Altrove un artista è ben valorizzato e il fatto che in Italia ce ne siano tanti dovrebbe essere una benedizione e non un maledizione! Siamo o no il paese del Rinascimento? E allora perchè non pensare che un paese di tali tradizioni possa avere più artisti che altrove? La conseguenza del sillogismo mi porta a concludere che metterò su una casa editrice, che mi permetterà di portare avanti un discorso senza porre le speranze su case editrici che non avranno mai interessi nei confronti di chi vuole fare ciò in cui crede senza scendere a compromessi.

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Chi ha paura del bosco?

Il bosco è, per antonomasia, il luogo delle fiabe, dove abbiamo lasciato i personaggi della nostra infanzia, è il luogo dove ci si smarrisce, dove è difficile trovare la strada del ritorno.

Nel bosco prende inizio la Divina Commedia, dove Dante perde la strada del bene tormentato dal peccato; sempre nel bosco Adamo ed Eva perdono il loro paradiso in seguito alla loro superbia nel voler emulare la potenza di Dio. E' stato il luogo di grandi romanzi come Cime tempestose di Emily Bronte o Ivanhoe di Walter Scott, per citare solo alcuni titoli a me cari. Chi può escludere dal suo immaginario un luogo così sacro e così profano al contempo?

Ancora oggi il bosco fa paura: tra le ombre della fitta boscaglia del monte Faito, fu rapita Angela Celentano e da allora è deserto intorno a questa vicenda e chi si accinge a varcare le soglie del monte vede ancora lo svolgersi della vicenda e non fa altro che leggere sui tronchi degli alberi il suo nome, proprio come Orlando che, alla vista dei nomi di Angelica e Medoro nel bosco, impazzì per il dolore; un altro mostro del bosco è il fuoco che, con i suoi incendi dolosi, ha distrutto il nostro paesaggio, deturpando versanti interi di montagne; e ultimamente sempre nei boschi del monte Faito il mostro ha vesti più naturali, quelle di piantagioni di canapa che risulterebbero innocue se non sapessimo degli effetti che la droga provoca sui giovani. Mostri antichi e nuovi, paure ataviche e moderne, fiabe e leggende, miti nordici e mostri viventi popolano un luogo che nel tempo si è caricato sempre più di nuovi significati.

Ci piacevano di più le nostre fiabe raccontate da bambini, che contenevano il bosco, quando i nostri occhi si sgranavano al giungere del lupo o dell'uomo nero nel bel mezzo della storia, e una volta finita, ci si addormentava smorzando le paure, pensando che i grandi avessero esagerato. Spesso, da bambina, mi affacciavo nel viale dei miei giochi per trovare l'uomo nero che, di volta in volta, lo vedevo in un adulto che mal sopportavo.
Il bosco mi ha lasciato, oltre alle paure e ai suoi personaggi, i suoi colori, i suoi profumi e i suoi rumori e lo stupore che non era mai abbastanza per me. Sento ancora il bruciore delle mie narici provocato dal profumo dei rovi selvatici e delle erbe sparse lungo i sentieri e non staccavo facilmente lo sguardo dai germogli verde smeraldo o dagli aceri rossicci autunnali, dai puntini multicolori dei fiorellini sparsi per il prato e dai larghi steli di fili d'erba fresca. Per abbracciare tutta la natura mi stendevo sul prato e guardavo il cielo con le braccia aperte a voler chiudere in me tutto quello splendore.
Mi chiedo, in questo caso, se l'uomo nero si sia mai inebriato, ubriacato delle mie stesse sensazioni invece di perdere il suo tempo a spaventare, se abbia mai provato a riconoscere la levigatezza di un sasso dalla ruvidità di un'aspra roccia e se abbia mai notato le ombre e i raggi del sole filtrare attraverso i rami degli alberi carichi di foglie e di frutti. Dubito che si sia mai posto in ascolto del silenzio del bosco, interrotto solo dall'armonia dei richiami degli uccelli, dal mormorio delle sorgenti, dalla ghiaia che si scompone sotto i nostri passi o ancora dal fruscio delle foglie accarezzate dal vento. Vorrei insegnargli a vivere la bellezza della vita che ci circonda e che i nostri occhi ingordi o distratti non riescono a vedere. Privato di tanta bellezza, l'uomo nero, nell'incapacità di discernere, opera in modo maldestro, tanto da fare paura. Ancora una volta il male si nasconde nel bosco, trasformandosi in qualcosa di non molto diverso dall'uomo nero di quando eravamo bambini.

Siamo educati all'ascolto?


Disegno di F.Baratto
Plutarco, uno dei maggiori maestri di saggezza ,un greco nato a Cheronea nel 46 d.C, inserì tra le sue opere pedagogiche, Moralia, "L'arte di ascoltare". Oggi Plutarco non riscuote molto interesse per la poca aderenza che i suoi consigli di virtù hanno sul nostro tempo, ma a partire dal Rinascimento ha ricoperto un ruolo importante nella storia del pensiero. Insegnando  mi rendo conto di quanto sia difficile farsi ascoltare. Ci sono diverse strategie per preparare all'ascolto che ogni insegnante escogita in base alla tipologia della sua scolaresca e che apprende anche nei vari corsi di aggiornamento. Fu proprio durante una lezione del corso "Insegnanti efficaci", che il nostro relatore entrò in aula sputacchiando con una certa veemenza sul pavimento attirando la nostra attenzione, a cui seguì un silenzio tombale che aveva tutte le caratteristiche di un biasimo a oltranza nei suoi confronti. Subito dopo, tirò al suolo una pila di libri che recò un tonfo da far credere che il pavimento stesse crollando. Ci mostrò, con questi espedienti, come una migliore attenzione dipendesse da situazioni estemporanee ai momenti della lezione.

L'attenzione all'ascolto, sebbene si serva delle tecniche più disparate, dipende dall'interesse e, quando in classe riesco a produrre un coinvolgimento totale, vuol dire che la lezione riscuote un alto indice di gradimento, grazie anche al modo di porgerla.

Da solo l'interesse non sempre funziona e se non educhiamo all'ascolto, l'attenzione sarà solo un fatto saltuario. Plutarco ci fornisce indicazioni in merito prendendo in esame, prima ancora, l'udito che, tra i sensi, è quello più esposto, non solo agli stimoli esterni ma anche a quelli interni, poichè la vista, il gusto e il tatto non producono i turbamenti che l'udito riversa sull'anima. Plutarco afferma che le orecchie sono le uniche parti del corpo sensibili alla virtù. Ascoltare è come avvicinarsi all'anima del nostro interlocutore, percepirne i flussi e, al suo cospetto, siamo in grado di smascherare anche i suoi errori che potrebbero essere i nostri. L'ascolto prepara al dialogo e la comunicazione è fondata sul dialogo.
Non sempre fa bene parlare, talvolta è necessario tacere e in certi casi ascoltare è meglio di qualsiasi altra azione. Ascoltare è come apprendere, valutare, discernere, confrontarsi, migliorarsi e per mettersi in ascolto si presuppone essere privi di arroganza, di presunzione, di protagonismo, d'invidia come ci ricorda Plutarco. Chi sa parlare sa anche ascoltare e sa tacere con pazienza ed educazione. L'ascolto è la migliore tecnica in assoluto per conoscere bene se stessi, oltre che apprendere il mondo esterno. In questo bisogna anche preservarsi dai pericoli e dai rischi quando il mondo esterno ci bombarda con i suoi messaggi martellanti.
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E tu, che amico sei?


Da quando è esploso il fenomeno facebook, ci sentiamo tutti più amici.
L'amicizia è un'esperienza unica, attraverso la quale impariamo a valutare e a scegliere quella parte di noi in cui ci riconosciamo. Mi ha colpito molto la definizione di amico trovata nel romanzo il "Tropico del cancro" di Henry Miller, dove l'autore parla di Hamilton, un suo amico e del quale dice:" Mi aprì gli occhi e mi diede nuovi valori ed anche se poi persi la visione che mi aveva donato, tuttavia io mai più vidi il mondo come lo avevo visto prima del suo arrivo"Anche Francesco Alberoni riporta la stessa frase nel suo libro "L'amicizia".

L'amicizia, oggi, assume una serie di significati:
  1. quando vogliamo essere introdotti in una ristretta cerchia di persone solo per usufruirne dei vantaggi ;
  2. per un rapporto di conoscenza superficiale;
  3. quando millantiamo amicizie per definire il nostro status simbol;
  4. talvolta diamo alla parola"amico" anche il significato di umile servitore che mai si sottrarrà al nostro volere.

L'amicizia è ben altro. Facebook ha messo in luce la difficoltà che si ha nello stabilire questo rapporto, anzi, ad un attento osservatore,si svelano le ombre che calano su coloro che si reputano amici.

Cicerone, nel suo trattato sull'amicizia, afferma che essa è una comunione di anime virtuose, fuori da ogni interesse materiale e pratico. L'amicizia richiede azioni oneste, sempre con ardore, mai con esitazione. Concetti importanti che vanno interiorizzati lentamente poichè è nel tempo che l'amicizia si costruisce.L'amicizia, nel nostro tempo, segue mode e interessi, declinando l'aspetto più importante: la conoscenza dell'altro.

Su facebook si è amici in base ad interessi comuni per costruirsi in gruppo, in base a curiosità sulla persona e si ha persino il coraggio di chiedere l'amicizia a coloro che un tempo sono stati nostri nemici o rivali. Tutta la buona volontà non riesce a colmare le crepe profonde che emergono da questi rapporti veloci, consumati sull'onda dell'emozione e del momento. Attraverso gli interventi degli amici, le loro frasi, le loro manifestazioni, ma soprattutto i loro silenzi, si riescono a costruire personalità che non emergerebbero in una relazione fuori da questo contesto. E così, invece di mascherarci, ci sveliamo di più perchè trapelano soprattutto le nostre debolezze. L'amico vero è una persona di cui fidarsi, di cui si deve avere stima , di cui accettiamo pregi e difetti.

Un amico contribuisce alla nostra crescita interiore e ci aiuta a sopportare le difficoltà della vita, ma ogni tipo di rapporto richiede un relazionarsi reciproco e una volta iniziato il rapporto, questo segna il nostro destino. Facebook è un ottimo trampolino di lancio per le amicizie che si approfondiranno ma anche un modo per mantenere quelle consolidate, ma non pensiamo di poterci riparare dietro il paravento della nostra bacheca, poichè tutto di noi emerge, nel bene e nel male.


L'intellettuale è diventato inorganico?

Sul quotidiano"La Repubblica "di ieri ho letto l'articolo, nella pagina della cultura," sull'intellettuale inorganico" di oggi, e non ho potuto fare a meno di una riflessione.
Sono andata a ritroso nel tempo fino al 1921 quando Gramsci parlava di "intellettuale organico". Egli vede gli intellettuali dei mediatori di cultura e di consenso sociale: la storia degli intellettuali mostra come la loro funzione sia tanto più incisiva quanto più sono organici ad una classe sociale e, attraverso il loro lavoro, si costruirà così l'egemonia della classe di cui sono espressione. Dopo un secolo siamo giunti alla conclusione che l'intellettuale, pur nascendo in un ambiente organico, diventa poi inorganico poichè non scrive più e non riceve più dalla carta il riconoscimento del suo status, ha subito una trasformazione radicale ed è cambiato il suo modo di fare testo, documentandosi sul web. Un intellettuale è tale se trasmette la sua attività critica e questo presume un rapporto continuo,tra chi scrive e chi legge. Pur essendo cambiati i tempi siamo ancora legati ad un retaggio culturale e storico secondo il quale la cultura è di sinistra , le invettive sono di destra. In proposito c'è una canzone di Gaber molto bella che esprime questo concetto.L'intellettuale vero, ancora oggi ,ha bisogno di fonti sicure per documentarsi, che non possono essere fornite solo dal Web, ma devono fondarsi sulla sua conoscenza e cultura costruita nel tempo, attraverso fonti librarie e ricerche, e leggere e scrivere manualmante sono funzioni ancora esercitate a livello scolastico, anzi, in questo campo sembra che ci sia stato un passo indietro. La cultura è un bagaglio e non solo di nozioni, non la si può quantizzare ma solo arricchire, è fatta di esperienze e di aggiornamento continuo dove il web rappresenta un confrontarsi e non una certezza assoluta. Se poi questa finestra sul mondo è il luogo dove si trasmette anche la cultura , è solo un andare a passo con i tempi e seguire il progresso che è fatto di auditel e consensi dai quali non possiamo più esimerci. E' cambiato piuttosto il modo di fruire della cultura e l'intellettuale inorganico è tale anche per essere inserito in una società in piena confusione di ruoli e di poteri.
La politica è fatta più di poteri economici da gestire che da persone che dirigono e non c'è il bisogno di trascinare le masse da un punto di vista culturale, esse sono piuttosto gestite dal consumismo e dal dio denaro che talvolta prende il posto anche degli ideali.
L'uomo di cultura resta sempre un potere da gestire perchè sa, detiene una forza e una conoscenza che non può essere comprata. In un mondo globalizzato non abbiamo fatto i conti con il tempo che fagocita tutto e questo favorisce microsistemi dove ci si aggrega in base ai propri interessi. Anche l'uomo di cultura si adegua, ma il vero intellettuale è un uomo libero, innanzitutto, che pensa con la sua testa, che non si lascia trasportare, che non baratta la cultura per il potere, che sa ciò che vuole.La caratteristica dell'intellettuale di oggi la vedo piuttosto in questa dispersione di casta che non può trainare più nessuno . E' cambiato il modo di fruire della cultura: tutto è fatto da questa finestra affacciata sul mondo, dove ciascuno prende e immette in uno scambio continuo. Non dimentichiamo che la cultura è fatta di conoscenza che vuole i suoi tempi e solo chi sa può usufruire in modo rapido dei mezzi moderni. Il web non facilita le cose ma le velocizza a favore dell'intellettuale che comunque vedo essere un privilegiato. Per Gramsci ogni uomo, a suo modo è intellettuale poichè in lui coesiste l'homo faber e l'homo sapiens, ma non tutti gli uomini, nella società, hanno funzione di intellettuali.Il vero intellettuale è colui che, pur non avendo un padrone, riesce a smuovere le masse con la forza delle sue idee.

E' sempre possibile la genesi dell'arte?

Noi esseri ragionevoli cerchiamo di dare ad ogni fenomeno la sua spiegazione, ad ogni effetto la sua causa, ad ogni tesi la sua antitesi e così, anche all'arte, diamo la sua genesi.

Non sempre è possibile dare delle risposte e meno ancora per l'arte che è un processo tutto interiore, dove non servono regole e tecniche, ma si può solo stabilire un percorso attraverso il quale l'artista crea.
Come si spiega l'arte? Come nasce la spinta a creare una poesia, un romanzo, o una tela? Freud, Jung, Nietzsche hanno scritto abbondantemente su questo argomento risultando esaurienti ed esaustivi e tutti, medici, psicologi e filosofi concordano sul fatto che un'opera nasce da una forte spinta emozionale, una carica che ha il potere di tradursi in qualcosa di concreto. Quanto più la rappresentazione artistica si avvicina all'idea creatrice, tanto più abbiamo un'opera di forte impatto emotivo anche per chi si avvicina a quell'opera. Il processo artistico nasce già nell'infanzia con il gioco, quando il bambino cerca di spiegarsi la realtà. Il gioco è una forma di piacere che non si ferma all'età infantile ma continua anche in età adulta, e l' adulto ha bisogno dello stesso piacere che il gioco gli procurava da piccolo. L'uomo, nel suo processo di maturazione, riempie di esperienza la sua vita e il gioco lentamente si trasforma in fantasia che diventa la sua principale forma di piacere. Nel tempo la fantasia assume un'importanza notevole nella vita dell'uomo, dove le costruzioni mentali non sono altro che le insoddisfazioni messe in cornice, tradotte in versi, rappresentate con parabole, è un luogo, la fantasia, dove releghiamo e rielaboriamo i nostri bisogni soppressi, le nostre esigenze ammortizzate, i nostri desideri assopiti.


L'arte è la sublimazione di una forza interna che si frantuma e, nel raccoglierne i pezzi, reinventiamo l'emozione plasmandola secondo quel groviglio di necessità, esigenze e bisogni che si riprendono la loro rivincita. L'artista presenta una complessità psicologica maggiore rispetto a quella comune e produce una tensione interiore che sviluppa forze capaci di dar vita a forme nuove, con un estremo bisogno di giocare, e lo fa con la fantasia che costruisce forme a immagine del suo pensiero. Chi crea manca di un pezzo di cielo e se lo crea da solo, sognando a occhi aperti, procurandosi un piacere che non potrebbe avere diversamente. Un artista è sempre invaso da un dolore e nel liberarsene crea un gioco all'infinito.

Solo in questo modo sopravvive al suo dolore e intanto crea anche a immagine dell'altrui dolore ed è questo che lo rende universale, ergendosi come portavoce di tutti coloro che non riescono a dare voce al proprio dolore.






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Vita da esordiente

L'esordiente è prima di tutto un sognatore o una sognatrice che non si è mai allontanato dalle sue idee, nelle quali crede ciecamente , ha una passione smisurata per la scrittura che nasce dall'esigenza di raccontare e scriversi, unito al piacere della letteratura e del sapere, ha sempre tante idee per la testa e una pazienza che, da sola , basterebbe a premiarlo. Non parliamo dei fatidici cassetti degli esordienti, strocolmi di scritti a riposo.
Un autore, che fa il suo ingresso nel mondo letterario, è sicuramente una persona ostinata che nel tempo ha maturato tecniche e situazioni, ha sperimentato la vita dello scrittore, ha seguito un iter lungo e faticoso ma di grande esperienza, che non ha mollato mai anche quando per gli altri era solo un pazzo.
Erasmo da Rotterdam ha scritto un'opera su questo argomento:"L'elogio della follia".
L'insensato, o il pazzo in questo caso, o meglio l'esordiente, ricava un'autentica saggezza andando incontro alle cose e affrontandole da vicino. La follia libera dalla paura e dal ritegno che annebbia lo spirito.
Se la pazzia è un parametro di cui tener conto per sfondare, allora diciamo pure che un esordiente è un pazzo, dove la pazzia è la sua tenacia e la sua costanza, è il suo sogno. Sognare è per un esordiente vivere a sua misura, secondo le proprie coordinate, secondo il proprio modo di sentire che nessuno gli potrà mai togliere. Alla fine di questo sogno atterrerà nella realtà che sicuramente non è a misura di esordiente.
L'esordiente deve fare i conti prima di tutto con coloro che detengono il potere della penna, con le case editrici, con coloro che hanno pregiudizi o pensano che insistere non porti a nulla. La cultura non è un beneficio per pochi, essa deve allargare gli orizzonti, sempre, altrimenti è stagnante e, sebbene gli esordienti abbiano grande rispetto per la vecchia guardia, come dicono i Latini:"Ubi maior, minor cessat", non c'è un altrettanto rispetto da parte di scrittori affermati per il nuovo che avanza. Così come non c'è interesse disinteressato da parte delle case editrici, per le quali l'economia viene prima di ogni cosa.
Il panorama esordienti è un panorama fresco, fruttuoso e ricco di idee, che andrebbe preso molto in considerazione e valorizzato. Non c'è da noi, però, la cultura della cultura e non sempre la cultura collima con l'interesse. C'è anche superbia nel pensare che ciò che viene dopo sia di minor qualità solo perchè nuovo, e quello che non si conosce fa paura.
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