L'estate

L'estate mi coglie sempre di sorpresa e io impreparata, quando scoppia il caldo all'improvviso, non so come organizzare al meglio le mie giornate . Essa coincide con la fine della scuola, con l'inizio delle vacanze, con i propositi più strani, dopo un anno di lavoro. Questo periodo per me è sempre un po' caotico, con tante cose in sospeso, tanti progetti e tanta voglia di riposarmi. Ma cos'è il riposo? Per me è la mia altalena posta tra due noci di quand'ero bambina, dove mi dondolavo al calare del sole mentre il profumo d'erba appena tagliata e gli sterpi bruciati mi toglievano il respiro . Quello era il mio riposo: cullarmi sotto gli alberi mentre gli ultimi raggi lasciavano i prati , con tutte le persone care che mi giravano intorno raccogliendo le ultime cose per rientrare. Dovevano prendermi con la forza, ma io non rientravo se prima non vedevo il sole tuffarsi a mare dando il cambio alla luna. Passavo dall'aria aperta alla vasca da bagno dove il bagnoschiuma mi copriva come una panna montata e, dopo una ricca cena, ero a letto che dormivo come un sasso. Ancora oggi sogno la mia altalena, sospesa in aria a cantare e avere il tempo di osservare gli altri, i fiori, gli animali e non dire mai basta. Ecco il simbolo del mio riposo! Da ragazza invece facevo lunghe dormite pomeridiane con la testa sotto il cuscino dopo aver letto pagine e pagine di "Via col vento" o de "Il treno del sole" o la collana di Liala. Al risveglio mia madre mi portava il caffè e si scherzava sul letto, poi stanche di risa e discorsi, ci si organizzava sul da farsi. Che bei tempi!


E pensare che il riposo oggi, per me, è un miraggio. Il riposo è fare ciò che più ci piace quando vogliamo noi e non quando ce lo programmano gli altri. Il riposo può significare di starsene a casa tutti soli e spaziare senza che gli altri ci diano incombenze; leggere indisturbati evitando il trillo del telefono, del citofono e gli imprevisti; mangiare il giusto senza apparecchiare la tavola per il re come accade ogni giorno, con una dieta per ogni componente della famiglia; trascorrerre una giornata all'insegna dell'ascolto invece di parlare continuamente; cucinare senza fretta e gustare i piatti freschi e appetitosi; suonare quattro ore di seguito il pianoforte senza interruzione tra chi arriva e chi esce, e poi rispondere al telefono interrompendo il pezzo nella parte più bella; leggere una pila di giornali, conversare a telefono con un' amica, andare a lezione di danza calma e tranquilla e non trafelata arrivando all'ultimo secondo.

Insomma il riposo per me è fare tante cose che non riesco a fare o che non faccio secondo i miei ritmi ma come mi impongono gli altri.


Adesso sto aspettando le mie passeggiate in riva al mare, le mie letture sotto l'ombrellone, scrivere di buon mattino o al tramonto del sole, sperando che gli altri me lo permettano. Il problema delle vacanze è che bisogna assecondare la famiglia, tutti vogliono prendere i loro tempi e per fare questo ciascuno deve cederne un po' del proprio. Allora accade che facciamo il bagno per fare compagnia agli altri, prendiamo il sole scottandoci perchè si parlava fuori dall'ombrellone, si mangia per stare insieme e non per necessità, si esce perchè è l'unico tempo utile per farlo. L'estate è stare liberi dai tran tran!


Mi piace stare sul bagnasciuga a raccogliere sassi e tirarli nell'acqua senza che nessuno mi dica che è ora di salire, che è tardi, che mi sto scottando! Amo leggere all'ombra, per ore, fino a non poterne più perchè gli occhi mi fanno male! Mi piace stare in barca a prendere il sole, a guardare il fondale per vedere i giochi dei pesci, il movimento delle onde e assecondare i pensieri con vortice impetuoso. L'estate per me ha il sapore della lettura, degli amici e delle serate in compagnia, del visitare i luoghi della memoria e i posti più incantevoli, scoprire le persone vere, quelle con le quali il tempo non basta mai, ridere e scherzare a mangiare un gelato, andare a cinema anche tardi e poi riversarsi per le strade alla ricerca di un posticino al fresco a parlare e raccontarci tante cose. L'estate è soprattutto ritrovare me stessa dopo un anno di impegni, di orari, di corse, di stanchezza perenne mai smaltita e "perderlo" finalmente quel tempo che, invece, ho dato agli altri senza sosta, privandomi anche della più piccola sciocchezza.


Il romanzo

"Il romanzo è uno specchio che ci trasporta lungo una strada", così affermava Stendhal.


Il romanzo contemporaneo nasce nel 1930, una data attorno alla quale accadono fatti importanti a livello letterario con "Gli indifferenti" di Moravia, (1929) Una vita e Senilità di Italo Svevo (1925) e dello stesso autore "La coscienza di Zeno"(1923). Questa data è fondamentale per la nascita di un nuovo modo di scrivere. Il romanziere francese Michel Butor affermava che: "Un romanzo è una risposta a una certa situazione della coscienza". Precedentemente esso rivela scarsa corrispondenza tra la realtà che descrive e la realtà che lo circonda. Di conseguenza il romanziere deve operare in conformità a una certa idea che egli si fa del romanzo, che corrisponde alla sua vocazione, ciò che egli ha da dire, che per lui costituiscono un a priori. Per Cesare Pavese nel romanzo confluiscono giudizio e fantasia: due attività strettamente collegate e condizionate dalla nostra concezione e sentimento del mondo e di conseguenza" il raccontare" è visto come "giudizi fantastici" sulla realtà. Il dovere principale del romanzo è d'informare, purchè naturalmente la notizia non rimanga mero documento, ma trasmetta anche, con persuasione emotiva, il senso di una situazione umana.

Un romanzo quindi, è uno spaccato di vita che diventa un'opera autonoma nel momento in cui i personaggi parlano e si muovono in un contesto proprio e, attraverso la loro affermazione, noi abbiamo la visione completa dei contenuti. L'opera acquista autonomia e sembra quasi che si sganci dal proposito iniziale dell'autore. Un romanzo come un'opera d'arte in genere è qualcosa che vive di vita propria, dove anche il più piccolo dei personaggi agisce e pensa da solo. Il romanzo va sempre oltre ed è quello che afferma il protagonista nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Pirandello "C'è un oltre in tutto. Voi non volete e non sapete vederlo".

Il romanziere autentico crea i propri personaggi con le infinite direzioni della sua vita possibile, quello fittizio li crea con la linea unica della propria vita reale. Il vero romanzo, a sua volta, è come un'autobiografia del possibile.

Un romanzo deve contenere oltre all'azione anche la bellezza che risiede in ciò che vuole trasmetterci. San Tommaso D'Aquino poneva tre requisiti di bellezza: integrità, simmetria, radiosità, dove intendiamo:  integrità o perfezione, debita proporzione e chiarezza. Ed è appunto questa chiarezza, la claritas di San Tommaso a trasformarsi nella capacità di irradiare qualcosa che non appartiene all'aspetto sensibile ma si traduce in una "quidditas" che Joyce definiva Epifania, ovvero l'anima che esce fuori quando la relazione tra le parti è perfetta.

Con Joyce e Proust, il nuovo romanzo si propone di rivelare la realtà seconda, perchè la prima non basta più. Essi lasciano intravedere anche tutto quello che non può essere detto ma che emerge attraverso la quiddità, il segreto permanente delle cose, la loro anima. Qualsiasi tracciato di vita reale, fantasioso o anche autobiografico rappresenta motivo di arte, di esempio da analizzare, leggere.

Ma cosa significa leggere? Leggere è guardare all'imponderabile, acquistare il senso dell'imponderabile, rapire il segreto della pagina, dare attenzione all'irripetibile. Alla fine del suo percorso un romanzo richiede critica, è un atto dovuto proprio in virtù del suo misurarsi con i propositi iniziali di informare e trasmettere uno spaccato di vita. La critica prevede tre atti fondamentali formulati da Ferdinand Brunetiere: giudicare, classificare, spiegare. Ma la critica necessita anche di gusto senza il quale sarebbe vuota e senza giudizio sarebbe cieca. La critica ha fondamentalmente il compito di tradurre lo spirito, le motivazioni dell'autore che ha seguito quel determinato percorso e proiezione del suo io, per portare a termine un lavoro finito, che si muove ora come una creatura di vita propria.



La scalinata















Disegno di F. Baratto






Una scalinata ripida e scoscesa


porta a mare a Sorrento.


Ai lati tanti oleandri


e qualche arancio.


Una discesa stretta e lunga,


unico punto il mare,


di fronte.


Reti attorcigliate pendono da un finto molo,


una vecchina sale affaticata,


tanti bambini riversi sulle scale


si intrattengono con le ciambelle


in attesa di scendere a mare.


Ai bordi gli ulivi



lasciano cadere i rami appesantiti


sulle scale


dove le olive trovano la loro fine crudele.


Tra i rovi dondolanti


stanno le cicale a riempire l'aria


di una stridula cantilena



che annuncia l'afa.


Il caldo sale


mentre l'occhio cerca ristoro


nell'accecante distesa


dove brilla una vela


e tante scie solcano,


in un andirivieni,


quel pezzo d'acqua in lontananza.




Dalla raccolta "Ritorno nei prati di Avigliano"





La scalinata





Nella mia raccolta di poesie "Ritorno nei prati di Avigliano", ce n'è una che mi ricorda le mie lunghe discese e salite per andare a mare, giù a Seiano. La poesia è "La scalinata" e descrive un piccolo spaccato di giornata afosa, quando scendendo a mare , si poteva ammirare un panorama mozzafiato che già ai miei occhi di bambina era qualcosa di impagabile e ancora oggi ne apprezzo la bellezza più di allora.



E' una lunga scalinata, di cui non ricordo il numero degli scalini, come un ponte , che dall'alto della collina si riversa a mare. Non è l'unica scalinata da queste parti, ma quella che percorrevo io era fantastica. Innanzitutto non aveva appoggi laterali, bisognava fare attenzione a non cadere a destra e a sinistra e se ciò accadeva ci si trovava in piccoli burroni da dove non si risaliva facilmente sul ciglio delle scale. Tenevo sempre ben stretta la mano della nonna, ma talvolta, come la vispa Teresa, la lasciavo per raccogliere i fiori lungo i bordi e immancabilmente mi procuravo delle sbucciature alle ginocchia. In questi casi non piangevo, capivo di essere stata testarda e facevo finta di niente, scacciando anche il dolore, per poi giungere sulla sabbia a mare con dei rigagnoli di sangue che colavano fino ai piedi. Era questo un buon pretesto per andare subito in acqua, senza attendere il fatidico quarto d'ora di sole, come voleva nonna, con la mia ciambella rifinita di cordoncino col quale il nonno mi bloccava per non lasciarmi andare oltre il limite. Quando avevo bevuto un bel po'd'acqua e il sole aveva prodotto un bel colore dorato sulla mia pelle, ero pronta per mangiare il mio panino farcito sulla mia sedia.


Dalla spiaggia guardavo su per le scale e mi preoccupavo per il ritorno. In lontananza vedevo le persone in miniatura che a piccole file scendevano a flusso continuo giù e osservavo come quel serpentello si snodava tra alberi e roccia ricca di vegetazione, come una linea morbida in verticale, il cui ultimo punto baciava la sabbia a pochi passi da me.


Ricordo che le cicale non lasciavano in pace nemmeno la spiaggia: era un concerto ovunque e non ho un ricordo più bello delle mie estati se non di quelle accompagnate dalle cantilene delle cicale. Risalire era la cosa più straziante: stanca di sole e di mare, con la pelle arsa, il mio cappello ampio, in mano i miei secchielli e i miei piedi così restii a fare anche il più piccolo passo. I nonni s'inventavano di tutto per alleggerirmi la salita e tra una risata e una corsa, guardandomi alle spalle, vedevo il mare allontanarsi.


Lungo il percorso incontravamo tante persone di nostra conoscenza con le quali ci intrattenevamo a parlare e nel frattempo potevo riposare. Talvolta mi inoltravo nei rovi di more e cominciavo a raccoglierle, ponendole nel mio secchiello,pungendomi e beccandomi qualche puntura d'ape, per poi riprendere a salire. Qualche volta inciampavo e allora mi sedevo rivolta al mare e ammiravo le scie sull'acqua, l'argento dei riflessi e il sole cocente che quasi accecava. Il nonno, vedendomi in quelle condizioni, finalmente mi prendeva sulle sue spalle a cavalcioni e io beata, nella mia postazione preferita, gli davo anche le direzioni da prendere. Così posta, riuscivo a toccare i rami degli alberi, a strappare le olive e le foglie, i fiori lungo i muri. Solo le lucertole mi allontanavano e avevo anche la forza di cantare le mie canzoncine dell'asilo.


A casa affondavo nel lettone di nonna, rosolata dal sole, vinta dal sonno e dalla stanchezza, dal peso delle mie gambe che si imbrigliavano nelle lenzuola e quasi non me le sentivo più.


Niente mi avrebbe però distolta dallo scendere ancora per la lunga scalinata e quando di buon mattino eravamo lì, sul punto più alto, a guardare l'incanto ai nostri piedi prima di scendere, per me era una gioia immensa. L'aria intrisa di profumi mi stordiva piacevolmente e la vista di quel mare piatto con piccole barchette e scie mi riempiva gli occhi; e i nostri passi sui ciottoli e sterpaglie scandivano un ritmo piacevole mentre il cielo, come un telo azzurro steso su di noi, benediva la giornata.



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L'arte in cucina




Cucinare è un'arte e non solo una necessità. Una volta c'era l'esigenza di sfamarsi e a tal fine ogni alimento era buono per nutrirsi, oggi non basta, vogliamo gratificare la vista, stuzzicare il palato, variare la scelta, sorprendere gli altri con ricette sempre più nuove e appetitose. Una volta gli alimenti erano poveri , oggi, gli ingredienti dei nostri piatti, nascono già sofisticati, molti geneticamente modificati e in cucina li trasformiano ulteriormente come fossero tartarughe ninja.L'arte del cibo nasce anche da una maggiore conoscenza e informazione sugli alimenti e la loro ricaduta sul nostro fisico, un aspetto non preso in considerazione nel passato.



Per arte in cucina s'intende mettere a punto una serie di accorgimenti per rendere questo momento della consumazione dei pasti un rito sociale tra i più amati. Tra le emergenze di oggi, per una cucina che tenga conto di ogni aspetto, vi è anche la dieta, non più un semplice capriccio per essere filiformi, ma una necessità per la nostra salute. Cucinare è un'arte che spesso incontra il divieto del medico che, dalle ultime rivelazioni scientifiche, ci porta a conoscenza che mangiare per mangiare è controproducente e nel piacere del cibo si nasconde un nemico subdolo e famelico: il diabete in primis e le dislipidemie . Tutti abbiamo fatto e facciamo i nostri peccati di gola, salvo poi rifugiarci nei nostri digiuni mortificanti per azzerare le calorie in eccesso.Questo è proprio il periodo dei nostri maggiori digiuni in previsione della prova costume che ci mostra agli altri non solo nel fisico ma anche nelle nostre debolezze.



Il diabete di tipo alimentare nasce con le nostre abbuffate, che talvolta hanno funzioni consolatorie per le nostre depressioni, il nostro rimpinzarci di tutto senza privarci di nulla. Un pasto normale dovrebbe essere consumato in massimo venti minuti, mentre i nostri tempi sono molto più lunghi, tanto da fare concorrenza ai nostri antenati Latini. Se poi aggiungiamo che il cibo diventa soprattutto un fatto sociale, possiamo dire che talvolta mangiamo anche per abitudine. Se riuscissimo a placare la nostra frenesia di mangiare come leoni e ci limitassimo ad essere uccellini, potremmo gustare di tutto un po' e non nasconderci dietro il paravento che "domani" staremo a dieta. Il cibo e la sua assunzione dovrebbe essere un momento scientifico: acquisire quanto basta e togliere dalla vista tutto ciò che nuoce ai nostri sensi come torte, soufflè, creme, besciamelle, paste elaborate come le lasagne, arrosti senza fine, torte salate ed ogni sorta di bene.



Gli antichi conoscevano bene i danni apportati dal cibo, come Catone il censore, che nel suo "De Agri cultura" scritto nel 160a. C., svelò i segreti di alcuni ortaggi e tra questi elogiò il cavolo per le sue proprietà diuretiche e digestive. Catone diceva che, in previsione di una grande abbuffata, bisogna mangiare del cavolo crudo che avrà la funzione di accelerare la nostra attività digestiva, così come dopo un pasto pantagruelico, è bene consumare sempre del cavolo crudo che ci farà digerire anche le ossa.


Ho avuto modo di sperimentare questo consiglio e funziona alla grande! Il segreto è tutto nella lentezza: preparare, cucinare, apparecchiare, condire, montare, sono tutte attività che vanno svolte con lentezza, in modo da dare tempo al nostro cervello di nutrirsi prima ancora che con lo stomaco, con gli occhi. Quando cuciniamo facciamolo con cura, con passione e con gli occhi assaggiamo, pesiamo, valutiamo, verifichiamo. Quando apparecchio la tavola, dopo mi soffermo a guardarla per rendermi conto di non aver mancato nulla, di averla resa elegante, è la prima tappa per quest'arte. Ogni volta che preparo cerco una novità che sia la tovaglia o i fiori o la disposizione dei tovaglioli o un pane diverso in tavola o un aperitivo nuovo da provare.



Le portate in tavola devono avvenire con calma e le porzioni da pesare: mai piatti che contengano più di cento grammi di alimento! Un piatto elaborato va onorato: gustandolo, cercando di carpirne gli ingredienti, definendone la freschezza e chiedendone la composizione. Dobbiamo, in tal modo, aggirare l'ostacolo "abbondanza" e soffermarci sulla bellezza per poter mangiare lo stretto necessario e gustare ogni cosa. Il mio papà dice che mangio da uccellino pur facendo abbuffare i miei invitati, anche questa è un mio piccolo espediente per evitare di tragugitare tutte le bontà che preparo: guardare gli altri che gustano e si deliziano è un modo per soddisfare il mio palato anche se incorro in un sicuro pericolo per gli altri. Cucinare e consumare tenendo presente tutti i parametri per ottenere una dieta bilanciata, per mangiare con gusto senza esagerare, per trasformare il momento della tavola in una festa di incontri di sapori e comunione tra i vari commensali è veramente un'arte tra le più difficili! Non resta altro che metterci alla prova e ricordarci che in cucina vale il detto:"Ti mangio con gli occhi".




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