Il mito del buon selvaggio



Sono sempre stata attirata da un romanzo che siamo soliti destinare ai ragazzi, ma che faremmo bene, ogni tanto, a leggere anche noi adulti: Robinson Crusoe, scritto da Daniel Defoe nel 1719. La mia non è solo una riscoperta letteraria, di una cronaca di sopravvivenza su un'isola deserta, ma una lettura critica sul progresso e la vita moderna. Mi affascina l'avventura che si respira nell'opera, così come il cambiamento interiore e lo stile di vita che avvengono in un uomo, nel momento in cui si trova lontano dalla società in cui vive.


Ho cercato più di una volta, soprattutto in estate e in vacanza, di lasciare a casa le mie comodità e di portare con me il minimo indispensabile, ma l'esperimento è sempre fallito, perchè è come se mi fossi sentita priva di una parte di me stessa. Senza le nostre abitudini e le nostre comodità ci sentiamo persi e tutto viaggia con noi, trasportando il nostro mondo ovunque. Allora, in questi casi, ripenso a Robinson, così inglese e impeccabile, scaraventato su un'isola deserta, solo con se stesso. La sua civiltà non vale nulla in un luogo aspro e solitario, dove per la sua sopravvivenza serve solo la sua capacità di rapportarsi con se stesso e con la natura.


In seguito al naufragio, Robinson resta sull'isola per 28 anni e quando torna in patria dice di avere più paura tra i civili che lì sull'isola. Ha accumulato una ricca esperienza di vita, molto più profonda e solida di quella civile, provato da ogni sorta di malessere, paura, ma più di tutto lo ha forgiato l'esperienza di solitudine.


L'uomo civile si ritaglia poco tempo per restare solo, molto spesso perchè non resiste alla solitudine. E' difficile convivere con se stessi, ci fa più paura la nostra coscienza che la compagnia degli altri. Ascoltare per lungo tempo solo l'eco della nostra anima ci spaventa. Nella sua solitudine, Robinson è a stretto contatto con Dio e nella storia stessa si riscontrano parti del libro di Giobbe. Da questa solitudine lo solleva Venerdì, il selvaggio con il quale instaura una forma di rapporto che va al di là dei schemi sociali. Tra loro non conta il grado di civiltà acquisito, eppure diversi, riescono a comunicare attraverso il bisogno e la necessità di condividere la vita e colmare il vuoto di solitudine.



Già Rousseau aveva trattato il mito del buon selvaggio, affermando che l'uomo nasce buono, ma a contatto con la società diventa un altro, cambia ed è capace di qualsiasi cosa. Da soli siamo tutti bravi, onesti, veri, amabili, tranquilli, ma appena a diretto contatto col prossimo, mettiamo in atto le nostre difese e le arti per sopravvivere agli altri, quasi dovessimo combattere un nemico. Questa tensione che manifestiamo, protratta nel tempo, ci cambia, ci veste di una corazza. L'esperienza dell'isola deserta dà a Robinson una nuova dimensione, lo resetta di tutte quelle maschere che la civiltà gli aveva costruito addosso.


Al suo ritorno in patria è un disadattato, ora è la civiltà che lo spaventa, che spoglia l'uomo della sua spontaneità, della sua profondità e della bellezza del suo essere. In società conviene attenersi ad un modello da seguire, a schemi prestabiliti per uniformarci e controllarci a vicenda e, mentre affiniamo quelle qualità e quelle capacità che ci permettono di relazionarci agli altri e di acquisire le regole della buona convivenza, dall'altra ci priviamo della nostra stessa unicità, del nostro sentire. Sarebbe bello se l'uomo, in questo sforzo di adattarsi alla civiltà, non perdesse la sua essenza reale, che quasi sempre è nascosta dalla maschera sociale, dal nostro essere attori della vita.



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