Itarella e altre storie...Questione di convivenza


“Uno dei primi problemi che hai con un uomo è che ti vuole cambiare. Se sei magra ti vuole in carne, se sei sempre indaffarata, ti vuole nullafacente, se ti vede presa da un’attività di pensiero, ti vuole libera mentalmente. Se non fai nulla oltre alla casalinga, come se fare la casalinga fosse uno spasso, ti dice che non capisci niente rispetto a  chi esce di casa per andare a lavoro. L’uomo ha un unico grosso problema: è umorale e cambia come le fasi lunari. Per non parlare della casa, che gli cade addosso, della televisione, che viene da lui monopolizzata, della cucina, che viene adattata ai  suoi gusti, delle abitudini, che risentono delle sue insofferenze. Certo che la convivenza in casa è difficile, immaginati fuori, con persone estranee. Bisogna ferrarsi di calma e pazienza e affrontare i problemi un po’ per volta”.                                                                               
                                                                                                                                                                                                                              Disegno di Filomena Baratto

Chi parla è “Itarella”,vezzeggiativo e forma dialettale di Ida, una donna napoletana che ho incontrato nel treno e che ho ascoltato in religioso silenzio per i suoi discorsi  concreti e non di teoremi  su questioni di  notevole rilievo. Itarella è una donna in carne, sui 40, piacevole, senso materno: accarezza continuamente la sua piccola in braccio e si preoccupa anche di un suo sbadiglio. Davanti a sé ha un’amica con la quale discute, spaziando da un argomento all’altro con la sagacia delle persone di grande esperienza. ”Ma che ti ha fatto Cusumiello, che sta per Cosimo, stai troppo nervosa bella mia!”
“ Cosa mi ha fatto? Niente! Qual è il problema! Primma cosa quel Santissimo Stadio, che se ne deve scendere tutto quanto! Sta frenesia che quando gioca il Napoli si chiudono tutti i libri, deve finire. Di domenica non si parla, non si ride, non si mangia nemmeno. Che dobbiamo fare? Gli scongiuri! Allora mi dice: “Itarè, se il Napoli vince, ti porto allo zoo! A me, allo zoo. Ma chi lo vuole vedere? Avesse detto ti porto a ballare, a mangiare fuori, no! Allo zoo!!! Ma vacci tu, va! Poi tengo una “stesa” di bandiere fuori al terrazzo che mi pare il mercato. Ho dovuto fare spazio togliendo il bucato appena steso, ma stiamo scherzando? Ninuccia mia sporca ‘nu curredo ma io non posso stendere, per tre giorni c’è il blocco dei panni, si lava il lunedì! Ma io posso fare sta vita?”
L’amica cerca di tranquillizzarla, ma come lei chiude bocca, comincia di nuovo.
“Io adesso vado a fare una visita di controllo da uno specialista di fama, Cusumiello mi ha detto che sto diventando Moby Dick! Ma chi è questo? Un grande uomo? No, na’ bbalenaaaaaa capisci? Mi ha paragonata a ‘na balena! Ussignore!
A casa mia non si mangia, si banchetta. A tavola trovi: a pastasciutta, o pesce, ‘e cozze, a parmiggiana, o babbà, o budino, non so più cosa cucinare. Ma mica sono io di mia iniziativa a cucinare queste cose? No, è lui che mi dice vorrei questo e vorrei quell’altro. E poi mi tocca mangiare tutti gli avanzi che lasciano. E’ peccato  mentre la gente muore di fame. E Itarella con santa pazienza non lascia nulla. Si possono buttare mai? Non ho il coraggio di darli nemmeno a Omar, l’extracomunitario che abita “abbascio”, si nei locali della caldaia del palazzo. Ma quelle sono due “signore” stanze, con riscaldamento e cucinino. Io ho detto a Omar, che se mi scoccio, me ne vado da lui e gli cucino, lui non ama il Napoli e così starei tranquilla. A Omar gli ho dato due pantaloni e due magliette la scorsa settimana e Cusumiello mi ha rinfacciato che gli sto facendo il corredo. Madonna mia, ma si deve pur coprire quest’uomo? Lui dice che ci deve pensare il Comune. Ma se non pensa nemmeno a noi figurati se si accorge di Omar. E allora mi dice che loro prendono i soldi per mantenerli. E ddove stanno ‘sti soldi, chi li vede? Mi ha risposto che se poi se li mangiano sono problemi loro, noi non c’entriamo!
Eh no! Noi c’entriamo. Se non gli do qualcosa quello mi tartassa tutti i giorni, mi chiede aiuto, viene a bussare alla porta, io poi cucino, quello sente il profumo, che fai lo cacci fuori? Allora gli dico che se aspetta gli metto la pasta. Così ha cominciato. Ora viene a bussare a orario fisso, io esco e gli do il contenitore fornito di tutto. Poi Omar ogni tanto mi fa qualche servizio: mi va in farmacia, mi dà uno sguardo alla piccola, è servizievole. Mo dico io, tutta sta “ggente”  che perde tempo in mezzo a una strada dalla mattina alla sera a nun fa niente, o a vivere solo per tifare Napoli, datevi una mossa, unitevi e fate qualcosa!
“Ma non è giusto che poi non si abbia nemmeno un hobby. La partita della squadra del cuore è importante!” le risponde l’amica.
 “Tu la chiami squadra del cuore? Quella è cosa da ricovero! Tengo ancora il divano col sugo di pizza caduto durante un goal e non c’è stato modo di smacchiarlo. La volta successiva ha versato tutto  il caffè nel momento preciso di un rigore sbagliato. E Itarella ha raccolto i cocci”
“ Cusumiello è così un gran lavoratore! La partita è l’unico suo svago!”, dice l'amica cercando di placare i toni.
“L’omm faticatore è a ruina ra casa! E poi…che significa, perché io non lavoro?
Ho detto a Cusumiello che dobbiamo prendere provvedimento con Omar e con i suoi amici e vedere dove devono andare. Una volta vengono per l’acqua e poi per  le mollette e poi per la bagnina, io sono diventata un supermercato a buon prezzo. Cusumiello invece va a lavoro in ufficio e per 5 giorni a settimana non c’è, solo il sabato sta a casa, ma  per modo di dire. Ha sempre qualcosa da fare. Qualche giorno fa ha litigato con Yasuf, il fratello di Omar, diceva che aveva messo il cartone vicino alla macchina sua e non doveva. Yasuf gli ha risposto che non ha un altro posto. Poi gli ha regalato una bottiglia di vino e così  ha tolto il cartone. Spesso i due fratelli si ubriacano e si mettono a cantare…cose che non capisco nemmeno e così mi svegliano ‘a nennella. Che pazienza che ci vuole. Per non parlare di quando non posso scendere a ora di punta quando tutti stanno giù nel cortile. Cusumiello dice che se nel cortile ci sono gli amici di Omar, io non devo scendere. E la spesa? Chi la fa? Allora sai che faccio? Mando giù il paniere e dico a Omar di andare da Totò o salumiere con la lista e lui mi fa la spesa. Però dopo gli do il pane fresco!”
“Itarè, ma fa che lavorano con te? Tu li tratti così bene!”
“U Gesù e mo non si può fare manco un’opera di carità? Trovategli un lavoro, dategli da mangiare. Io me li trovo fra i piedi e devo pure conviverci. Convivenza significa che ci devo “avere a che fare”, capisci?
Mo non so come se la cavano. Io vado dal professore, perché Moby Dick si deve dare una regolata. Mi dispiace per loro e  chissà cosa troverò al ritorno. Pensa se tutti gli amici di Omar diventassero tifosi del Napoli, mi dovrei solo trasferire. E così penso a mangiare! Che ti credi perché la gente mangia? Per dimenticare, per non sentire  e non vedere. Quando c’è la partita, io mangio le mie crostate, e quanto sono buone con le mie marmellate. Oppure i miei creme caramel. Mo stanno tutti qua vedi? Moby Dick so diventata, ‘na balena! Speriamo! Adda fa ‘nu miracolo per farmi scendere di qualche chilo, oppure devo cambiare vita. La pazienza mi fa ingrassare, meglio essere arrabbiata, che fa dimagrire. Poi voglio vedere come si fa con Omar e compagni, chi li accudisce e chi li tiene a bada, se perdo la pazienza, io. Cusumiello dice il Comune, ma quella la questione è di convivenza!





Non sempre dalla scrittura si evince la personalità.

A volte gli altri ci leggono per curiosità,
come se bastasse questo  per conoscerci.Credono che la scrittura presagisca la conoscenza del carattere, del pensiero, dello sviluppo delle nostre idee. In parte è così, per il resto siamo tutti in continua evoluzione. La scrittura cambia con noi, assiste alla nostra metamorfosi e pertanto  deve contenere le nostre scelte o i nostri giudizi, le nostre consapevolezze. Succede a volte che quello che abbiamo scritto un po' di tempo fa, non lo riconosciamo più come nostro. Tutto ciò che si scrive va bene nel tempo in cui nasce, dopo, disperde già quello che siamo anche se rimane il contenuto e tra noi e il libro avviene una idiosincrasia. Forse l'argomento non ci interessa più, o quello che abbiamo scritto non dice esattamente ciò che volevamo, o ancora non sentiamo di aver espresso in modo esauriente l'argomento. Nei libri ci sarà sempre qualcosa che ora avvertiamo in modo diverso. La scrittura è come un abito che sta bene per una stagione, poi facciamo i conti con qualche chilo in più, con la moda che cambia, con il gusto che non è più lo stesso. Chi ci legge ci prende in modo statico, crede che siamo quello che ha letto nelle pagine, che noi siamo le stesse righe che ha sottolineato. Non sa che già non ci riconosciamo più, che abbiamo da ridire su quello che abbiamo scritto e su come lo abbiamo trasformato dall'originale pensiero, che se lo scrivessimo di nuovo sarebbe diverso. Ma il lettore si illude  e in tutti i libri vuol trovare quella frase nostra che tanto lo ha colpito, quella descrizione che lo ha commosso, quell'esempio che gli calzava perfettamente. Eppure man mano che ci allontaniamo dai nostri scritti iniziali, siamo sempre più maturi ma meno spontanei. I primi scritti sono quelli che si avvicinano alla nostro reale modo di sentire, col tempo siamo solo una migliore limatura, ma i contenuti cambiano. Chi volesse conoscerci bene, deve leggerci sempre, altrimenti sa di noi ben poco. La conoscenza è una continua scoperta e noi come la scrittura siamo in continuo divenire.

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Come un dejavù

Stamattina, mentre mio figlio si preparava a uscire, gli ho raccomandato di mettersi un berretto per il freddo e la neve che c’era fuori. Mi ha prima sorriso e poi risposto con un gesto evasivo per dirmi di non essere esagerata, ricordandomi lo stesso atteggiamento  di quando era piccolo. Osservandolo, mentre usciva di casa con la borsa a tracolla, ben vestito, per andare a lavoro, dopo avermi salutata, mi sono ricordata delle stesse scene di allora, come un dejavù.

Ricordo la stessa espressione di quando era bambino, vicino alla porta, col berretto in testa, con lo zaino e il cestino, il cappotto, al seguito del padre pronto  per andare a scuola. Anche allora non voleva mettere il berretto e sebbene uscisse indossandolo, arrivato giù, nell’atrio, lo toglieva. Lo controllavo dal terrazzo e puntualmente lo portava in mano mentre dall’alto gli intimavo di rimetterlo ma senza alcun successo da parte mia. Quasi se la rideva per avercela fatta prendendomi in giro. A quel bambino, che non è cambiato per niente, si è sovrapposto l’uomo. Gesti ripetuti tante volte, raccomandazioni continue che lui avrà fatto sue. Allora lo accompagnavo alla porta ancora in pigiama, mentre usciva presto per andare a scuola. Stamattina, ero ancora in pigiama come allora, ma è stato lui a salutare me.  E’ stato un comprimere il tempo e tirarne fuori il meglio. Un’emozione che per descriverla non bastano tutte le parole espresse per raccontarla.

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La calza

La Befana più bella che abbia mai ricevuto è sempre stata la calza che mi preparava mia madre: accurata, piena, elegante. La trovavo sempre sul letto già alle prime ore del mattino, prima ancora di aprire gli occhi, la toccavo girandomi nel letto sentendone il peso e il fruscio della carta delle cioccolate. Ha continuato a portarmi la calza della Befana anche da grande, la sua piccola calza, ma sempre la più bella. Non mancava di nulla e conteneva tutto quello che piaceva a me. Sono piccoli gesti che ci riempiono di affetto e quando non ci vengono dati ci sentiamo orfani. Come mamma anch’io l’ho sempre fatta.
Stamattina, influenzata e a letto, ho preparato una calza alla buona per mia figlia e sentendomi in colpa le ho scritto un biglietto in cui le dicevo che è stata una Befana povera quest’anno ma sarà migliore l’anno prossimo.
Lei si è commossa! Per me resta una bambina anche a diciannove anni e non posso fare altrimenti ricordandomi di mia madre che faceva lo stesso con me e quando mi portava la sua calza mi chiamava affettuosamente “la sua Menuccia". La cara vecchina che ogni anno ci viene a fare visita è una bellissima trovata per noi, per diffondere il nostro affetto, un giorno che forse fa più bene ai genitori che ai figli. Ci fa sentire utili, vivi, come se avessimo tra noi i nostri bambini sempre, anche quando sono cresciuti. Capisco solo ora l’urgenza di mia madre di portarmi la sua calza come se fosse stato un bisogno vitale. A volte la prendevo in giro dicendole che non vedevo quest’ansia della calza. Quando è venuta a mancare è stato per me come ricevere il carbone più nero o essere la cattiva più cattiva. Non mi piacciono i genitori che eludono la festa e vogliono essere freddi e cinici, svelando ai bambini quello che invece vorrebbero credere. Tradizione? Bisogno? Leggenda? Un po’ tutto questo. Sono dei gesti che restano nella memoria e non si dimenticano più. Magari ci fosse una Befana per tutti i bambini del mondo! Ma anche la befana resta un lusso dei paesi più ricchi e mentre per noi può significare un gesto affettuoso per altri può ritenersi uno spreco. La Befana è il giorno dei bambini ma anche quello in cui gli adulti ricordano quando erano piccoli.

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