C'era una volta...un principe


A volte le fiabe non sono lontano da noi, forse le viviamo e nemmeno ce ne accorgiamo che sono tali. Ci affanniamo a cercarle nel passato, mai nel presente, a cui diamo solo valore di servire a creare il futuro.
Questa è una storia al contrario. La realtà è diventata fiaba, perché la storia è così interessante che nemmeno ce ne eravamo accorti che fosse più di una fiaba.
C’era una volta un principe un po’ confuso, maldestro e fannullone. Gli piaceva la bella vita, il perdersi tra i piaceri, i sogni troppo alti, come se la giovinezza durasse in eterno. E così passava da una cosa all’altra senza tanto sforzo, dando spinta solo a quello che voleva. Una vita così era per lui il modo di sentirsi addosso l’eternità. Poi un giorno accadde qualcosa: delle streghe con un maleficio lo fecero cadere in un burrone dove c’erano tante pietre aguzze da cui  non poteva più alzarsi, né salvarsi. Scoprì il dolore, la fatica, il sacrificio, il malessere, sentimenti di cui, fino ad allora, ne aveva solo sentito parlare. Si vivono le esperienze  quando accadono sulla propria pelle, e allora il loro peso diventa di piombo. Perse tutto e si trovò solo come non lo era mai stato.Immagine correlata
“A che serve il dolore, si chiese il principe. A soffrire e basta, è stato creato per frenare la vita degli uomini, per scoraggiarli, per castigarli. Qualcuno vuole il nostro male, ci perseguita. E pensare che stavo così bene quando credevo di star male. Che crudele destino”. Il principe si convinse che la vita gli fosse sfuggita di mano per volere di qualcuno. La sua forza scemò e tutto quello che voleva ora, era cambiare, avere cose durature, che non gli procurassero tutto quel dolore. Un moscone che gli ronzava intorno e lo infastidiva, più volte cercò di spezzare il suo discorso volendogli dire qualcosa, ma il principe non glielo concesse. Quando finalmente zittì per qualche minuto, l’insetto gli disse: “Voi principi che cosa ne sapete di  una vita di sacrifici, vi lamentate solo quando arrivate qui, nel dirupo. Io ne so qualcosa. Prima di qua sono stato in luoghi lussuosi e ho toccato il tuo cavallo e il tuo prezioso mantello e quando eri tutto abbigliato, non ti lamentavi così come stai facendo. Però, vedi, se non fossi caduto così in basso e non avessi toccato il fondo, non avresti capito il senso della vita”. “Dici bene tu che vai per il mondo e ti appoggi su ogni cosa. Tanto ora non serve più a nulla, sono quaggiù, nemmeno i miei sanno, non potrei nemmeno dirglielo. Resterò qui relegato”. “Non è detto! Potresti allenarti e fare un passettino al giorno fino a raggiungere la vetta. Porre dei sassi sotto i tuoi piedi e ogni volta salire un po’ fino a raggiungere il terreno della radura”. Il principe più sconfortato che mai, cominciò a seminare quelle parole dentro di sé facendone tesoro.
 Le forze gli mancavano, a tratti si avviliva, ma i sermoni del moscone furono per lui un conforto inaspettato. Cominciò a salire. A volte ricadeva per mancanza di fiducia in se stesso, altre volte per la forza che perdeva, ma sempre riprendeva a salire, fino a quando un giorno raggiunse la cima del burrone. Incredulo, si aggrappò a un ceppo di legno nei paraggi e si riposò. A quale costo era arrivato lassù? Ormai era malandato e stanco, senza voglia di vivere. E mentre questi pensieri bui lo attanagliavano, l’eco di un canto lontano giunse fino a lui. Era così piacevole, che quando smetteva, non resisteva al silenzio. Quel canto lo attirava  di nuovo alla  vita. Allora si alzò e seguì la voce, fino a quando giunse in riva al mare dove, in una barca ormeggiata, c’era una principessa. Lei cantava mentre pettinava i suoi lunghi capelli. Il principe le chiese da dove giungesse e lei gli rispose di venire dall’altro lato del mare. Così il principe salì sulla sua barca e andò con lei, volle conoscere il suo paese. Farah, questo il nome della principessa, lo portò al di là del mare e quel posto gli sembrò bellissimo. Poi chiese alla principessa di riportarlo nella sua terra. Ma quando giunsero e dovettero staccarsi, loro due non vollero. Allora toccò a Farah conoscere la terra del principe, e che a lei sembrò bellissima. Dopo aver conosciuto il mondo di entrambi, un bel giorno decisero di sposarsi. Il regno aveva bisogno di loro due. Fu un matrimonio come vuole la tradizione fiabesca: cavalli, carrozze e abiti scintillanti. La bella principessa fu al castello col principe per celebrare le nozze col suo amato. Giunsero da ogni parte a vederli e molti rimasero meravigliati. Poi, come avevano festeggiato al castello del Principe, andarono anche a festeggiare nel paese di Farah.
Quando ritornarono al castello, il principe, felice, volle piantare dei fiori sul terrazzo della principessa, ma per concimarli dovette prendere dello sterco. Così, subito dopo, attirato dallo sterco, arrivò il moscone che era stato con lui nel burrone.
“Eppure non avresti mai pensato, allora di poter poi piantare questi fiori, quando eri laggiù con me.” “Fai bene a ricordarmi quando ero lì. Ti ho ascoltato compagno di sventura, e hai avuto ragione. La lezione è che se non si tocca il fondo non ci si può dare alcuna spinta buona per emergere. Sei stato il mio aiuto, tu che salti di cosa in cosa e sei così precario”. Ti ho seguito mio principe, a volte seguo anche l’odore della felicità. Ora hai una principessa che si prenderà cura di te e tu di lei. Abbine cura e non dimenticare i buoni consigli ricevuti.
La favola tra il principe e la principessa comincia adesso, nel presente.Una fiaba con su scritto “work in progress.”

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Radical chic


E’ un innesto tra l’inglese “radical”, radicale e il francese “chic”, raffinato. Radicale, chi aderisce perfettamente al partito realizzando quanto professa senza interferenze o compromessi
diventa raffinato quando sposa cause di altri?Risultati immagini per radical chic
 Mi viene di associare l’espressione a un titolo di un romanzo L’eleganza del riccio dell’autrice francese Muriel Barbery.  Un riccio imbellettato malgrado gli aculei?  Sarà la facile pronuncia, il fatto che sia di moda, che viene sempre più spesso  usato come epiteto da chi vuole colpire od offendere. E’ nata per dire questo e non sicuramente per trovare l’espressione appropriata alle situazioni. Trincerati dietro la bella pronuncia, anche per chi risente di inflessione dialettale, viene usata soprattutto  quando non si hanno altri argomenti su cui misurarsi. E’ questo il momento catartico  del far venire fuori il radical chic. Si parte dal presupposto che la cultura sia di sinistra, creando stereotipi e mode che nel tempo non si addicono più ai fatti. Di quale sinistra si parla oggi? Esiste ancora la sinistra? Esistono frange che appartengono a un passato  di lotte operaie, di guerra, di fabbrica, di aspetti sociali un tempo vissuti che non hanno più motivo di esistere. Situazioni diventate oggetto di discussione culturale, a volte residui di un passato che leggiamo nei libri ma che non corrisponde più alla realtà.  E allora perché la cultura non potrebbe essere di destra? Forse perché si è borghesi conservatori attaccati a diritti e benefici che mai si lascerebbero? Un mondo che sa di muffa per il quale i problemi degli altri non sono altro che cosucce di cui discutere in altri ambienti. Quale mondo può costruirsi là dove ogni argomento assume valore irrilevante? Un magnate o un benestante che vuoi che se ne faccia dei problemi della gente, che  deve sopravvivere e lottare per ottenere? Una cultura di destra allora è meno vera della cultura di sinistra? La cultura necessita di terreno fertile, fatto di cose che incuriosiscano, che scuotano. Questa sinistra manca, è stata sostituita dai lamenti, dai falsi attacchi, dall’acquiescenza se non ci si può lamentare. Il centro non se la cava meglio, arranca. Mentre sembra che il mondo voglia essere governato dalla destra, ma solo un’illusione, visto che la democrazia non c’è più e si ha tanta voglia di essere guidati. Il fatto serio di oggi è che non ci sono più ideali perché manca un vero nemico ma presunti tali e e costruiti ad hoc. Bisogna mantenersi in una società diventata troppo piena di cose più che di persone e di conseguenza i partiti, i politici sono solo figure svuotate del loro significato. Lo si vede nella gestione dei problemi che non si risolvono, nei fatti che non procedono, negli interessi che restano circoscritti. Non ci sono contrappesi in politica, non esistono più. Dove sono le opposizioni, ci si oppone ancora o si fa solo dell’ostruzionismo, e dove sono i valori? Quali sono quelli della destra? Detto questo, come fa a reggersi un’espressione del genere se mancano i presupposti per cui è stata coniata? Ma  la cultura la si vuole a sinistra e visto che oggi le lotte di una volte sono finite, anzi le hanno fatte abortire, perfino l’azione dei sindacati si è appiattita, con l’impossibilità di agire nella nostra falsa democrazia, la cultura, secondo i bene informati, resta a sinistra, ma diventa di destra se, chi la fa, appartiene poi alla borghesia, è possidente e si atteggia a portare avanti cause popolari. Così si diventa radical chic. E non si sa se debba essere più un complimento o un’offesa. Forse è una moda che va avanti sin dal 1970, quando il giornalista e scrittore Tom Wolfe usò l’espressione per definire una cena organizzata dalla moglie di Leonard Berenstein, Felicia, a casa del direttore d’orchestra. I proventi furono utilizzati per le Pantere nere, gruppo rivoluzionario. Fu così che apparve il radical chic. Una cena a casa di ricchi per una causa alquanto popolare, tutta una serie di contraddizioni che Wolfe fece emergere nel suo articolo, mettendo in circolo  la nuova voce  con cui si sposava la strada e la politica, il benessere e l’azione, una sorta di contaminazione tra le due parti, che secondo i benpensanti, non doveva avvenire. Ma d’altra parte quanto tempo è durata la vera sinistra? Non ci sono benestanti anche in questa ridotta casta di politicanti più che politici veri, che dall’alto del loro mondo dorato sembrano più uccelli appollaiati alle grondaie in giorni di nebbia che veri e consapevoli uomini di politica attiva? E’ come voler cercare la vera oratoria al tempo dell’Impero mentre il suo splendore fu al tempo della Repubblica, quando c’erano motivi veri per lottare e vincere. Le suasorie e le controversie possono avere la stessa forza delle Verrine o le Catilinarie o le 14 orazioni Filippiche di Cicerone e quelle a confronto, invece, non hanno l’aria più di un’esercitazione post mortem dell’eloquenza?

Oggi tutto è contaminato: la destra vorrebbe la forza della sinistra di un tempo, la sinistra campa di ricordi, il centro è in continuo aggiornamento. Se vogliamo parlare di politica oggi dobbiamo rifarci al passato ed è per questo che reggono ancora le vecchie espressioni, così possiamo avere un punto di riferimento che oggi manca nella Babele di quello che continuiamo a chiamare politica ma non può essere tale se la gente non si sente più interessata o motivata a farla. 

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La maestra Gelsomina



 


Da piccola ho frequentato la scuola materna a Massaquano, ma ricordo poco delle mie attività didattiche. Durante la lezione accompagnavo continuamente i bambini più irrequieti fuori così da permettere la lezione. Avevo l’onere, visto che ero avanti rispetto agli altri, di intrattenere i piccoli fuori. Questo oggi sarebbe discutibile da un punto di vista pedagogico, ma non è di questo che voglio parlare. Decisi, contro il volere di tutti, di non andarci più, era diventata di una noia infinita. Molto meglio restare nei campi, tra l’erba a scrivere e colorare, con l’altalena e i piccoli lavori che mi affidavano i nonni. 
Gli adulti non se ne facevano una ragione, per cui tentarono di farmi andare in prima, questa volta a San Salvatore, dove c’erano solo due classi: prima e seconda elementare. Così, col mio bel grembiule nuovo, la cartella di cartone, come era di moda allora, il distintivo della classe, il fiocco rosso, ben in vista, mi presentai il primo ottobre nella classe di appartenenza. Sedetti al mio posto trascorrendo il mio primo giorno di scuola pieno di entusiasmo. Poi il secondo giorno la maestra riferì a mia nonna che non potevo frequentare per avere 5 anni e, visto che avrei compiuto 6 anni a marzo, dovetti ritirarmi. Quel giorno lo ricordo come una grande sconfitta! L’anno seguente frequentai la prima elementare, in un’altra scuola, un istituto religioso. Lì la mia prima vera maestra. Si chiamava Gelsomina, bruna, capelli scuri, occhiali spessi, ma bella, solare, giovane. Quando leggevamo a me spettava un rigo agli altri mezza pagina; se si andava alla lavagna, si cominciava da quelli lenti e se non c’era più tempo, mi diceva domani. Quando facevamo il dettato, io dovevo sempre farlo, a mia volta, a qualcun altro e alla correzione, se mancava il tempo, io non venivo nemmeno contemplata. Un giorno la maestra mi chiamò in disparte, fuori la porta dell’aula. Mi disse che ero molto giudiziosa e non dovevo prendermela se lei privilegiava gli altri, per lei io ero una fuoriclasse. Detto così presi quella parola, visto che già ero stata buttata fuori classe una volta, come l’anticipo di una brutta situazione. Lei mi sorrideva e io diventavo più buia della mezzanotte. L’animo era a pezzi, a casa feci scenate a mia madre colpevole di portarmi in una scuola “buttafuori”, proprio a me che amavo la scuola più di me stessa. Mamma mi rassicurava ma io ero ansiosa. La maestra mi trattava come fossi stata invisibile, il mio nome non era mai menzionato e, all’occorrenza, si rivolgeva a me col sorriso dicendo: ”Vieni”.  Chiamava sempre gli altri a scrivere il loro nome, mentre io dovevo aspettare, un’attesa che diventava infinita. E poi in matematica, mi chiamava solo se dovevo correggere gli altri, mai che andassi   a svolgere qualcosa. In classe c’era un bambino grosso e alto, rossiccio, figlio unico che i genitori trattavano come un megalomane. Al confronto con me era una schiappa: impacciato, lento, sia nella lettura che nella scrittura. Lo battevo in tutto. In disegno a confronto lui faceva scarabocchi. Però un giorno gli feci un brutto scherzo, gli tirai a terra tutta la scatola dei 36 pastelli che  non sapeva nemmeno usare, non conosceva i colori e disegnava in modo pessimo. Il motivo fu che il mio Babbo Natale era più preciso e ben definito rispetto al suo, ma lui mi prese in giro mentre il suo sembrava un Simpson ante litteram, senza forme, scolorito e tozzo. Senza pensarci due volte buttai il suo mega contenitore planetario con tutti i colori a terra. Fece un tonfo che nemmeno una navicella spaziale, cadendo al suolo, avrebbe creato quella collisione. Così il mattino successivo, all’arrivo a scuola, passando davanti alla porta aperta della Direttrice, fui chiamata a conferire sulla scatola dei pastelli rotolati a terra. Mi chiese il motivo di quell’azione, ma io non risposi. Cosa potevo dire? Che con tutto quell’armamentario non sapeva nemmeno mettere il pastello sulla carta, che tutti i giorni non esisteva che lui solo in classe mentre gli altri non erano nemmeno presi in considerazione? Volevo vederlo all’opera a raccogliersi  i pastelli, ma lui non fece che piangere, nemmeno la forza di mettere a posto le sue cose. Gli altri raccolsero per lui. Con i miei 12 colori disegnavo  anche le pareti, lui con 36 a stento scarabocchiava. La direttrice mi scrutò come chi indaga, ma non mi tirò una parola di bocca. Allora  convocò la maestra dopo di me. Non so cosa si dissero, ma dal giorno dopo cambiò la musica. Molto probabilmente le raccontò lo sforzo che doveva fare per tenermi a bada. Dovette poi affrontare il papà del bambino che venne a protestare per i pastelli, ma anche mia madre  andò a riferire che a casa mi lamentavo di molte cose e non era giusto il loro atteggiamento nei miei confronti. Mia madre, ferita nell’orgoglio, portò a scuola due scatole di pastelli da 36, una per me e una per il compagno. Allora non erano come quelli di oggi  e trovare la scatola grande era un miraggio. Poi passò anche dalla direttrice dicendole quello che pensava in proposito. Mi sentii responsabile. Oltre a dispiacermi non mi sentivo protetta da nessuno lì a scuola. Quella lezione mi indusse a diventare silenziosa, a non collaborare più con gli altri, ad attendere il mio turno alla lavagna e se anche la maestra non mi chiamava, non mi importava. Quando il compagno mi chiedeva di  disegnare sul suo quaderno, dicevo “dopo”, che per me valeva un no. Quando volevo dire no, dicevo dopo. La maestra capì il mio linguaggio, non solo verbale, ma anche i miei dinieghi e quando mi defilavo alle richieste dei compagni. Così mi mise al centro della classe con una bambina e da quel giorno tutti erano sul nostro banco, io disegnavo per tutti e mi toccò insegnare l’alfabeto al compagno dei pastelli. La maestra adottava il metodo del mutuo soccorso, e funzionava. Quando a fine anno Ciccio imparò l’alfabeto, mi volle donare la sua scatola di colori, ma io rifiutai. A casa eseguivo pittura a tempera su cartoncino e di pastelli mi bastavano le scatole che avevo. Ciccio voleva assicurarsi il mio aiuto anche per l’anno successivo. La maestra, negli ultimi giorni di scuola, mi chiamò in disparte e mi disse che aveva sbagliato, doveva adottare quella linea dal primo giorno. In tutte le cose bisogna fare esperienza e io le avevo insegnato che la classe era formata da bambini lenti ma anche veloci come me e lei era stata lenta, come una lumaca, mi disse o come una tartaruga. Finalmente, col mio aiuto, aveva raggiunto l’obiettivo di togliere me dal tedio e Ciccio dai suoi attacchi di invidia e così dicemmo una carrellata di proverbi in previsione dell’anno nuovo. Ricordo ancora la faccia della maestra quando, chiedendo un proverbio, io risposi: “Chi va piano, va sano e va lontano”. Anche lei aveva insegnato a me il senso dell’attesa, attendere sempre il mio turno senza lamentarmi anche se ero avanti rispetto agli altri. Capii che non dovevo per forza correre da sola, ma restare insieme agli altri e magari aiutarli. Forse a questo serviva la mia velocità. Allora la maestra guardandomi, quasi commossa mi disse: “Sono sicura che tu andrai lontano!” Insegnare non sempre è trasmettere, a volte significa anche imparare reciprocamente tra docente e discente. Della maestra Gelsomina ricordo la sua umiltà e la sua onestà, qualità fuori serie. Ricordo anche il suo pianto a fine anno, quando seppe che avrei cambiato scuola.

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Come il vento tra le foglie


Un leggero vento agita le foglie fuori dalla finestra, ne vedo la forma in controluce. Mi lascio prendere dal celeste del cielo tra le loro lamine, come un richiamo di speranza e uno spazzare via la malinconia. Al di là della collina di alberi, il sole sta tramontando e penso al giorno ormai quasi concluso. E' andato via portandosi dietro le sue ore liete, le allegrie, le gioie, lasciando il posto a qualche riflessione. E’ volato inglobando quello che di bello aveva portato e se non fosse per l’umile servo, il ricordo, che custodisce con cura ogni cosa, il ladro tempo non lascerebbe niente. Un giorno così, già finito. E’ questione di ore, di momenti, di attimi, di gesti che sono volati, risate condivise, parole scambiate, che avevano in sé il valore per cui il nostro giorno si era levato. Porta  i suoi distacchi, quelli anche crudeli, e si devono accettare con normalità. Momenti, come  flebili fiammelle che subito si spengono. Quando tutto passa, resti tu coi tuoi conti di vita che tornano o non tornano, ma devi andare avanti. Una forza inesorabile ti spinge  oltre e sai che tutto quello che ti gira intorno è passeggero. Figli, genitori, persone care…Sono tante fisarmoniche che si allungano e si accorciano verso di te e di loro vivi solo il momento della compressione. Il tempo maggiore è lontano da te, la loro estensione è per toccare altrove. Tutto ha il valore della precarietà, anche quello che dovrebbe essere l’eternità. Sensazioni, emozioni bloccate, sentimenti conosciuti per la prima volta, volontà, sono ingredienti che si rimescolano come formule continuamente aggiornate. Mi chiedo quanto sia vero quello che non vediamo e che fede sia, e che valore trovi in noi. Tu dai vita alle persone, alle cose, ma questa vita sfugge, emana, vaporizza, solo il ricordo ti dà quel che è stato. Ma noi siamo il percorso, intrapreso per mezzo degli altri, siamo quello che insieme abbiamo 
costruito.Risultati immagini per il vento tra le foglie
La malinconia arriva quando tra noi e la vita c’è un confronto con qualcosa  che non ritorna, o che cambia. E quando la foglia vibra, i rami ondeggiano e il vento giunge a scuotere la chioma dell’albero, proprio sotto gli occhi, persi in qualche ricordo o immagine che non va via, allora quel vento spazza anche dentro e mette sotto sopra la polvere che era ferma. Ne emerge qualcosa che non piace, qualche altra che non si accetta, un’altra ancora che proprio non va bene. Ma è solo un momento, un rovistare con setole forse troppo dure fino a sentirne i colpi sulla parete. Poi passa, la polvere si assesta, il vento, tra un passaggio e l’altro fra le foglie, va verso la montagna, lasciando l'albero fermo in controluce, con la sua sagoma dorata e l’attimo di pensieri tristi è ricacciato da dove è venuto. E’ la vita, va così! Non tutto può avvenire secondo i desideri, a volte si può solo accettare quello che non si può cambiare. Ora l’albero è fermo come una stalattite. Il sole è calato, il rosso del tramonto stemperato. In quel celeste il vento ha portato un po’ di freddo, e mentre passava, l’ho avvertito. Tutto scorre anche il giorno più bello e  già si pensa al domani, per prendere forza e contrastare il momento, l’oggi appena finito, che ha chiuso i battenti, imprigionato per sempre. Il futuro ha questo di affascinante, farci progettare  e andare oltre. Accarezzato dal vento, l’albero si scuote così come il piccolo morso che brucia dentro.


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Nonni

Il luogo  per conoscere i nonni  e vederli all’opera è davanti alla scuola. A volte mi incanto a guardarli mentre  i ragazzi sono in fila, qualche volta anche dalla finestra prima di scendere, li osservo mentre attendono pazienti il suono della campana. I nonni sono quelli più ansiosi, ma anche i più moderni, quelli che sorridono, che prendono per mano i piccoli come fossero i figli. 

Qualche giorno fa notavo un nonno veramente sprint: casco in mano, tenuta sportiva, arrivato  in moto poco distante dalla scuola e appena il nipote lo raggiunse, montarono  in sella e via. C’è una nonna che mi sembra Deborah Kerr, con le sue scarpe da ballerina, le gonne ampie o attillate, secondo la “mise” scelta per la giornata, alla moda, capelli rossi sempre in piega, senza un filo di trucco, con un viso disteso e pelle luminosa. Afferra lo zaino della nipote, la prende per mano e la mette in macchina dove sale dopo aver sistemato tutto. Ha l’aria di essere la mamma.  Oggi i nonni non sono più quelli che fumavano la pipa e sferruzzavano le calze. Oggi sono al passo coi tempi, sanno regolarsi con la tecnologia, sanno digitare e whatsappare, scrivere a computer e sono preparati, informati, a dieta, vanno in palestra, vanno a ballare,  e sono nel pieno delle loro attività. In famiglia hanno un ruolo fondamentale. I nonni di oggi sono più attenti anche alla loro vita oltre a quella dei figli e dei nipoti. La loro esperienza è necessaria, sono depositari di ricordi e storie che abbracciano tutti, rappresentano le colonne portanti di casa. Un’altra nonna la conosco da tantissimi anni, ha sempre lo sguardo pensieroso, attende con le braccia conserte. Piccola, con gli occhiali, sempre attiva. Una volta, alla vista del nipote che piangeva, se lo abbracciò come se non si vedessero da tanto e lo accarezzava. A guardare quella scena,  quanto fosse affettuosa, mi ricordai di mia nonna Aita. Una volta col borotalco, sul suo lettone, mi infarinò così tanto che non ci vedevo più. Le mie ciglia erano diventate bianche  e lei mi soffiava mentre piangevo per il timore di non riuscire più a vedere. Disperata riempì subito una bagnarola d’acqua, mi ci calò dentro e io, felice di sguazzare in una palla di bagnoschiuma, dimenticai del borotalco. Lei era sempre mia complice, mi accontentava, mi serviva di tutto punto, mi coccolava,  mi risollevava, mi ascoltava. Con lei mangiavo tutto, non mi stancavo, cantavamo  e parlavamo come due amiche. Mi considerava  un’adulta, mi faceva discorsi da grande e io imparavo a ragionare. Arrivammo al punto di non voler andare più a casa dei miei e quando una volta mia madre si oppose e volle che tornassi a casa, ricordo che stetti male. Riuscimmo, in quel caso, a trovare uno stratagemma. Così passando sotto la finestra mi fischiava, io mi affacciavo per assicurarmi che fosse lei e scendevo le scale a quattro raggiungendola in strada. Con la mia mano nella sua, ci avviavamo per la nostra passeggiata quotidiana. A mamma non dicevo nulla, facendole prendere brutti spaventi. Poi un giorno le presi e loro due litigarono. Allora io la aspettavo vicino alla finestra guardandola arrivare e piangendo le dicevo che non potevo scendere. Lei allora si avvicinava e mi invitava a scendere lo stesso che avrebbe riferito a mia madre. Io scivolavo giù a testa bassa e temendo il peggio, ma senza arrendermi. Poi appena sulla strada  il mio viso cambiava, diventava allegro e spensierato. Le sue mani grosse mi accudivano con fare dolce e affettuoso. La osservavo a volte quando faceva mangiare il vitello col biberon, trattandolo alla stessa stregua di un bambino. In quella scena capivo il suo amore per me. La osservavo come si rivolgeva al piccolo della mucca, come lo accarezzava mentre succhiava. In quel gesto riconoscevo le stesse cose che faceva con me. Mi piaceva uscire con lei perché tornavamo a casa piene di ogni genere: alimentari, oggetti per la casa, qualche abito per me e ci ritiravamo sempre allegre: lei fischiava e io cantavo. Il suo gesto che ricordo con più affetto è quando mi pettinava. Sentivo il piccolo pettine scorrere sui miei capelli setosi dividendo la fila a lato, buttando le ciocche nel verso giusto. Quando aveva finito, mi passava la mano sulla fronte facendomi sentire il caldo che emanava, facendo scorrere all’indietro i capelli. Mi trattava con rispetto anche se ero una bambina, mi ascoltava  ma la cosa più importante che aveva mia nonna era quella di capirmi. Era come se mi leggesse dentro e, mentre mamma era l’apprensione e la possessività in persona, lei era distaccata, leggera, come lo può essere un’amica, una governante. I nonni hanno una marcia in più con i nipoti: sanno di aver dato ai loro figli il meglio e si godono il premio del loro lavoro. Rivivono quel tempo che quando lo hanno vissuto per i figli, era pieno di ansie. Ora si sentono liberi, ci sono mamma e papà  a educarli e a occuparsene, mentre a loro spetta solo il dono di averli, e li riempiono di coccole che magari non hanno potuto con i figli. Riempiono i nipoti di gesti e attenzioni di cui si sono privati con i figli, sono il perpetuarsi di quel tempo che diventa eterno nel suo ripetersi. Ma spesso rientrano  di nuovo nel ruolo di genitori. I nipoti hanno invece una ricchezza in più, godono dell’esperienza e della saggezza dei nonni, hanno quattro angeli custodi ad ogni passo, quando sono fortunati,  e più importante ancora è il loro confronto generazionale. Questo passaggio di consegne da figli a nipoti e da nipoti a nonni, non fa che allargare l’albero della vita estendendolo dalle radici ai rami. I nonni sono un occhio vigile, un consiglio, un sorriso e un’allegria sempre pronta. Talvolta sono migliori di quando erano genitori. E proprio quando hanno imparato la lezione  trovano per loro un nuovo ruolo, più intimo, raccolto e tenero. E’ come se la radice riuscisse ad abbracciare il frutto, e quando lo fa, prova un senso di pienezza e tanta apprensione per sapere che ora tocca al frutto mettere radici di nuovo. I nonni sono i testimoni che la vita non passa invano e che quando va via lascia delle orme così profonde che diventeranno passi nuovi per chi resta. Una nonna di cui sono rimasta sbigottita, l’ho visto l’altro giorno a un matrimonio, si chiama Rosetta. La ricordo quando era ancora nel pieno delle sue forze, battagliera, energica. Ora si è accorciata, rasenta gli ottanta e veste con tailleur e camicie vaporose. Venuta sola al matrimonio, la abbiamo persa di vista, tra le palme e la piscina del giardino. Lei si è aggregata a dei giovani lì accanto, integrandosi perfettamente. Quando le ho detto che non si era persa d’animo, lei mi ha risposto “Basta seguire i giovani e stai sempre bene. Sono loro la mia forza. I miei nipoti di Parma mi vogliono lì con loro perché dicono che con me possono parlare di tutto, sono informata e so ascoltare, mentre i genitori sono quasi sempre assenti. Ma io so che lo dicono anche per la mia cucina. Quando vado, mangiano bene e sono allegri!” Nonna Rosetta vive da sola in uno stabile pieno di condomini e in una casa grande come se ci fossero 10 persone. Lei conosce i tempi e i ritmi del suo fisico e della sua psiche. Non va a letto mai prima di mezzanotte, altrimenti non dorme, non resta mai da sola a lungo, si annoia, e quando accade esce sul pianerottolo scoperto del condominio e bussa alla porta accanto. Ci sono bambini e giovani in quella casa e lei si intrufola dentro e resta con loro per ore. Dice che  si diverte. Si mantiene in forma per quando raggiunge i suoi nipoti che la adorano. Per me è una nonna geniale, sa adottare strategie per ogni situazione, sempre col sorriso. E non crediate che sia stupida, conosce tutto quello che c’è da sapere sulla sua età, sull’alimentazione, sulla solitudine, sui ladri, su come tenere l’oro in casa, su come difendersi, su cosa mangiare per ogni tipo di malanno, come conservare gli alimenti e come trasformare le cose, dal cibo all’abbigliamento. Un pozzo di scienza che sprizza da quegli occhi azzurri come il mare che quando la guardi vuoi tuffartici dentro. Quando a sera se n’è dovuta andare mentre la festa continuava, un po’ rammaricata per la canzone che suonavano e che le piaceva tanto, mi ha detto: “Vado via per il passaggio, ma resterei volentieri. Adesso a casa ho registrato un film che mi piace. Spero non mi faccia piangere, voglio evitare. Il sorriso è quello che ci fa star bene!”. Quando è andata via è stato l’argomento della serata fino alle due di notte, orario di ritorno a casa.

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