La maestra Gelsomina



 


Da piccola ho frequentato la scuola materna a Massaquano, ma ricordo poco delle mie attività didattiche. Durante la lezione accompagnavo continuamente i bambini più irrequieti fuori così da permettere la lezione. Avevo l’onere, visto che ero avanti rispetto agli altri, di intrattenere i piccoli fuori. Questo oggi sarebbe discutibile da un punto di vista pedagogico, ma non è di questo che voglio parlare. Decisi, contro il volere di tutti, di non andarci più, era diventata di una noia infinita. Molto meglio restare nei campi, tra l’erba a scrivere e colorare, con l’altalena e i piccoli lavori che mi affidavano i nonni. 
Gli adulti non se ne facevano una ragione, per cui tentarono di farmi andare in prima, questa volta a San Salvatore, dove c’erano solo due classi: prima e seconda elementare. Così, col mio bel grembiule nuovo, la cartella di cartone, come era di moda allora, il distintivo della classe, il fiocco rosso, ben in vista, mi presentai il primo ottobre nella classe di appartenenza. Sedetti al mio posto trascorrendo il mio primo giorno di scuola pieno di entusiasmo. Poi il secondo giorno la maestra riferì a mia nonna che non potevo frequentare per avere 5 anni e, visto che avrei compiuto 6 anni a marzo, dovetti ritirarmi. Quel giorno lo ricordo come una grande sconfitta! L’anno seguente frequentai la prima elementare, in un’altra scuola, un istituto religioso. Lì la mia prima vera maestra. Si chiamava Gelsomina, bruna, capelli scuri, occhiali spessi, ma bella, solare, giovane. Quando leggevamo a me spettava un rigo agli altri mezza pagina; se si andava alla lavagna, si cominciava da quelli lenti e se non c’era più tempo, mi diceva domani. Quando facevamo il dettato, io dovevo sempre farlo, a mia volta, a qualcun altro e alla correzione, se mancava il tempo, io non venivo nemmeno contemplata. Un giorno la maestra mi chiamò in disparte, fuori la porta dell’aula. Mi disse che ero molto giudiziosa e non dovevo prendermela se lei privilegiava gli altri, per lei io ero una fuoriclasse. Detto così presi quella parola, visto che già ero stata buttata fuori classe una volta, come l’anticipo di una brutta situazione. Lei mi sorrideva e io diventavo più buia della mezzanotte. L’animo era a pezzi, a casa feci scenate a mia madre colpevole di portarmi in una scuola “buttafuori”, proprio a me che amavo la scuola più di me stessa. Mamma mi rassicurava ma io ero ansiosa. La maestra mi trattava come fossi stata invisibile, il mio nome non era mai menzionato e, all’occorrenza, si rivolgeva a me col sorriso dicendo: ”Vieni”.  Chiamava sempre gli altri a scrivere il loro nome, mentre io dovevo aspettare, un’attesa che diventava infinita. E poi in matematica, mi chiamava solo se dovevo correggere gli altri, mai che andassi   a svolgere qualcosa. In classe c’era un bambino grosso e alto, rossiccio, figlio unico che i genitori trattavano come un megalomane. Al confronto con me era una schiappa: impacciato, lento, sia nella lettura che nella scrittura. Lo battevo in tutto. In disegno a confronto lui faceva scarabocchi. Però un giorno gli feci un brutto scherzo, gli tirai a terra tutta la scatola dei 36 pastelli che  non sapeva nemmeno usare, non conosceva i colori e disegnava in modo pessimo. Il motivo fu che il mio Babbo Natale era più preciso e ben definito rispetto al suo, ma lui mi prese in giro mentre il suo sembrava un Simpson ante litteram, senza forme, scolorito e tozzo. Senza pensarci due volte buttai il suo mega contenitore planetario con tutti i colori a terra. Fece un tonfo che nemmeno una navicella spaziale, cadendo al suolo, avrebbe creato quella collisione. Così il mattino successivo, all’arrivo a scuola, passando davanti alla porta aperta della Direttrice, fui chiamata a conferire sulla scatola dei pastelli rotolati a terra. Mi chiese il motivo di quell’azione, ma io non risposi. Cosa potevo dire? Che con tutto quell’armamentario non sapeva nemmeno mettere il pastello sulla carta, che tutti i giorni non esisteva che lui solo in classe mentre gli altri non erano nemmeno presi in considerazione? Volevo vederlo all’opera a raccogliersi  i pastelli, ma lui non fece che piangere, nemmeno la forza di mettere a posto le sue cose. Gli altri raccolsero per lui. Con i miei 12 colori disegnavo  anche le pareti, lui con 36 a stento scarabocchiava. La direttrice mi scrutò come chi indaga, ma non mi tirò una parola di bocca. Allora  convocò la maestra dopo di me. Non so cosa si dissero, ma dal giorno dopo cambiò la musica. Molto probabilmente le raccontò lo sforzo che doveva fare per tenermi a bada. Dovette poi affrontare il papà del bambino che venne a protestare per i pastelli, ma anche mia madre  andò a riferire che a casa mi lamentavo di molte cose e non era giusto il loro atteggiamento nei miei confronti. Mia madre, ferita nell’orgoglio, portò a scuola due scatole di pastelli da 36, una per me e una per il compagno. Allora non erano come quelli di oggi  e trovare la scatola grande era un miraggio. Poi passò anche dalla direttrice dicendole quello che pensava in proposito. Mi sentii responsabile. Oltre a dispiacermi non mi sentivo protetta da nessuno lì a scuola. Quella lezione mi indusse a diventare silenziosa, a non collaborare più con gli altri, ad attendere il mio turno alla lavagna e se anche la maestra non mi chiamava, non mi importava. Quando il compagno mi chiedeva di  disegnare sul suo quaderno, dicevo “dopo”, che per me valeva un no. Quando volevo dire no, dicevo dopo. La maestra capì il mio linguaggio, non solo verbale, ma anche i miei dinieghi e quando mi defilavo alle richieste dei compagni. Così mi mise al centro della classe con una bambina e da quel giorno tutti erano sul nostro banco, io disegnavo per tutti e mi toccò insegnare l’alfabeto al compagno dei pastelli. La maestra adottava il metodo del mutuo soccorso, e funzionava. Quando a fine anno Ciccio imparò l’alfabeto, mi volle donare la sua scatola di colori, ma io rifiutai. A casa eseguivo pittura a tempera su cartoncino e di pastelli mi bastavano le scatole che avevo. Ciccio voleva assicurarsi il mio aiuto anche per l’anno successivo. La maestra, negli ultimi giorni di scuola, mi chiamò in disparte e mi disse che aveva sbagliato, doveva adottare quella linea dal primo giorno. In tutte le cose bisogna fare esperienza e io le avevo insegnato che la classe era formata da bambini lenti ma anche veloci come me e lei era stata lenta, come una lumaca, mi disse o come una tartaruga. Finalmente, col mio aiuto, aveva raggiunto l’obiettivo di togliere me dal tedio e Ciccio dai suoi attacchi di invidia e così dicemmo una carrellata di proverbi in previsione dell’anno nuovo. Ricordo ancora la faccia della maestra quando, chiedendo un proverbio, io risposi: “Chi va piano, va sano e va lontano”. Anche lei aveva insegnato a me il senso dell’attesa, attendere sempre il mio turno senza lamentarmi anche se ero avanti rispetto agli altri. Capii che non dovevo per forza correre da sola, ma restare insieme agli altri e magari aiutarli. Forse a questo serviva la mia velocità. Allora la maestra guardandomi, quasi commossa mi disse: “Sono sicura che tu andrai lontano!” Insegnare non sempre è trasmettere, a volte significa anche imparare reciprocamente tra docente e discente. Della maestra Gelsomina ricordo la sua umiltà e la sua onestà, qualità fuori serie. Ricordo anche il suo pianto a fine anno, quando seppe che avrei cambiato scuola.

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