La zolla


Arsa si erge a botte,
sulla sua groppa una formica
va per tornanti.
Arsa, nemmeno l'ombra 
della vita, ma percorrendola
crolla la torre
di un castello.
Cade giù frolla,
terreno ritorna.
La formica manca
e la sera la riempie di ombra.
Zolla eri, alta e tonda,
ora solo granelli
umidi e freddi.
Zolla sono,
come te friabile,
un momento castello
e un altro ponte,
e poi vuota
o cammello con la gobba.
Chi sono, mi chiedo,
forse zolla
o forse niente.


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Terra e poesia

Questa mattina, all’Hotel Stabia, alle ore 11:00, si è tenuto un incontro con la Poesia  all’interno del Meeting del vino campano Slow Food costiera sorrentina e Capri, a cui ho partecipato e che ha avuto come argomento la Terra. Incontro organizzato da Carmen Matarazzo, Presidente dell’Associazione Achille Basile  le ali della lettura. Presenti,  oltre me, Raffaele Ragone e Raffaele Urraro.

 Dopo i saluti del Presidente dello Slow food,  Mauro Avino, che in questa circostanza ha ricordato la perdita di Rita Abbagnale, una delle fondatrici dello Slow food Campania, Carmen Matarazzo, ha introdotto gli ospiti e il tema che di lì a poco avrebbero presero in considerazione nelle loro liriche. La terra, argomento del reading, è stata declinata nei suoi molteplici aspetti a cominciare dalla forma più naturale di terreno sino alla sua pianta più rigogliosa e feconda, la vigna, per giungere all’uva argomento centrale della giornata. Il poeta Raffaele Ragone ha omaggiato una ospite australiana declamando per lei due poesie in inglese. Ha continuato il suo intervento con poesie dal suono armionoso e incisive nella loro levigata forma. A seguire Raffaele Urraro tra le altre, con la sua intensa poesia del Vignaiuolo terzignese, lirica ricca e profonda che ha reso egregiamente l’idea del tempo e del lavoro che il vignaiuolo profonde tra i filari della sua vigna. Il poeta ha poi dato notizie circa i vini campani nell’antica Roma, soprattutto per quanto riguarda i tempi di invecchiamento e di come venivano schiariti e addolciti. E infine le mie poesie : La zolla, Terra mia, Io rinascerò, Il mio albero, dove la terra diventa motivo non solo di sostentamento per l’uomo, ma anche riconoscimento e identificazione del luogo di appartenenza così come metafora  della stessa vita, delle sue sofferenze e della sua fragilità. Subito dopo gli ospiti hanno partecipato alla degustazione dei vini.

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Dimmi una parola astratta

Spiegare certe cose non è facile, soprattutto se ti rivolgi ai bambini. Come spieghi loro il valore di parole che non si vedono, non si toccano, non si sentono? Il cielo lo vedi, allora esiste, ma la tristezza non la vedi, eppure la senti. Così la malinconia, la felicità, la gioia. Sono sentimenti che provi ma non si vedono e allora credi che non esistano. Eppure parlando con loro ti accorgi che dai per scontato cose che meritano una maggiore attenzione. Il pregio dei piccoli è che ti fanno capire quello di cui avevi bisogno per darti una risposta.
 Sentire è un verbo difficile, non è riferito al ruolo delle orecchie, strumenti per ascoltare, ma alla sfera interiore, quando lo si può sostituire con provare. E' sperimentare dentro determinati stati d'animo. Crediamo di capire tutto, invece conosciamo solo quello che proviamo. Prima di formulare un giudizio, dovremmo passare dalle parti dell'esperienza e "sentire", vivere certe cose. I piccoli, che di esperienza ne hanno poca, capiscono meglio, stanno costruendo adesso il loro mondo interiore. Sanno rispondere, colgono i nessi e le parti centrali dei discorsi e mentre spiegano, capiscono. Sanno che una cosa astratta si prova pur non vedendola. E allora ti arrivano le domande più strane: "Allora Dio si sente? E' un'esperienza? Quando non vediamo più le persone, si sentono dentro? Posso sentire anche le cose cattive o solo le buone?" E mentre provi a rispondere ad ogni domanda, la risposta è già nella domanda che hanno formulato. Dai bambini c'è sempre da imparare, e si è fortunati a stare a contatto con loro tutti i giorni. Un modo per non invecchiare mai. Sono interlocutori attenti. Se vuoi partire col darti delle spiegazioni su argomenti seri, è bene porre domande. Tra le varie risposte ci sarà quella giusta. Ma ritornando alle parole astratte, è uscito fuori che, quando una parola non la si può spiegare in modo semplice, è forse per non conoscerla bene e non aver esperienza in proposito. Quante volte sarai stato triste o felice o gioioso o malinconico? E chi ci fa più caso ormai? Confondiamo gli stati d'animo come se fossero strati di torta, senza fare più differenza se siamo felici o infelici, allegri o tristi. Un bambino mi ha detto che quando è giù e non ha voglia, si mette seduto e gli passa. "Sai, non facendo niente penso a me, quando sono con gli altri mi dimentico di me". E' questa la risposta di uno di loro. E allora alla fine del discorso siamo giunti alla conclusione che le parole astratte vogliono tempo, attenzione, calore, non vogliono fretta, sono lente. Le parole astratte sono come le lumache che, mentre strisciano, trovano la strada. Sono parole bambine, che per crescere necessitano di esperienze. Così se voglio capire l'amore, non basta pronunciare la parola, bisogna viverlo. "Quando mamma mi accompagna, mi vuole bene, me lo dimostra. quando papà mi aspetta alla partita, me lo dimostra". Quindi? Le parole astratte sono bisognose d'affetto e bisogna entrarci dentro per capirle bene.


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Il Clochard

Il corrispettivo italiano è barbone, senzatetto, una persona che vive senza dimora fissa, passando da una panchina a un cartone, da un ponte a una galleria,  a un posto rintanato. Li troviamo ai parchi, ai bordi delle città, vagabondi per le strade, nei loro sogni ad occhi aperti. Dormire in un cartone, nel greto di un fiume, su di una panchina, accade quando la nostra vita viene stravolta dentro e fuori per un motivo e, quello che prima era inconcepibile, diventa uno stile di vita.

 Ci si lascia vivere, abbandonati a se stessi, un giorno vale l’altro  come un salto agli ostacoli. Donne e uomini, anche star del cinema, si sono ritrovati in solitudine e senza casa per aver perso quello che avevano o dimenticati da chi doveva sostenerli. Erminio ha un disturbo mentale e, fino a poco tempo fa, viveva col fratello che lo ha sempre criticato per non accettare la sua incapacità di svolgere un’attività. Così lo aveva lasciato solo nella casa di famiglia a sbrigarsi la vita senza di lui. Erminio, senza quel punto di riferimento, tornava a casa come un automa e senza mangiare. Lentamente tardava sempre di più: ospite di chi lo conosceva, restava ai giardinetti fino a tardi, passeggiava lungo le strade senza meta. Un giorno, tornando a casa, vide il camion dei traslochi e suo fratello che era venuto a prendere i mobili. Aveva perso quella casa al gioco. Erminio si trasferì nella casa dove viveva il fratello ma di lì a poco avrebbero perso anche quella. Da allora dorme sulle panchine del parco, avvolto in duri cartoni che lo riparano dall’umidità e dal freddo. Del fratello non sa più nulla e nemmeno l’altro lo ha cercato. Non ricorda più il colore dell’acqua, né il profumo di cucinato. Mangia quello che trova. A volte si siede e ricorda. I movimenti sono lenti, quasi si blocca. Raccoglie frutta in luoghi che conosce, qualcuno gli porta del pane, quando può va nel convento vicino. Martina invece è avanti con gli anni. Lei cammina per chilometri senza fermarsi. L’avevano rinchiusa in un manicomio, ora è fuori, ma in famiglia non l’ha voluta nessuno. Gironzola tutto il giorno e di sera si ritira accanto a un casolare. Di mattina presto però scivola via e va  a zonzo. Alberto è un ragazzo trentenne a cui hanno sottratto dei soldi, tanti soldi, troppi, e non si è più ripreso. Va alla ricerca di un piatto caldo, di abiti dismessi, di parole. Ma chi si avvicina a un clochard? Amiamo guardarli da lontano. Si parla  di loro solo quando diventano una notizia. Tutt’al più si sopportano per trovarli sulla nostra strada. Dovrebbero essere reintegrati, avere un tetto, un aiuto, un pasto al giorno, la possibilità di lavarsi, di vivere dignitosamente come tutti gli altri. Sono persone che hanno smarrito la via,  non si possono dire matti, ma nemmeno normali. Sono deboli, vivono senza confronto, senza amicizie, in solitudine. L’unica differenza con i carcerati è che sono all’aria aperta e alle intemperie quando non diventano ludibrio degli altri o addirittura bersaglio di molti. Non hanno nulla se non la libertà di vivere fuori dagli schemi. Ci sono strade che portano a situazioni di non ritorno. E’ come se la vita scivolasse loro di dosso e ne cominciasse un’altra minore, più stretta e meno umana. E pensare che un tempo erano  persone normali. Ora si abbandonano a se stessi, non hanno voglia di opporsi, di chiedere, di cambiare. Attendono i giorni ma solo per alzarsi col sole e stendersi su una panchina la sera. Vivono dentro di loro perdendo di vista ciò che è fuori e a volte nemmeno dentro si ritrovano. Non ditegli di trovarsi un lavoro visto che non potrebbe eseguirlo con i problemi esistenziali  che si ritrova. La società è strutturata in modo tale che chi non segue le regole resta fuori, escluso. Un tetto lo si trova, ci si adegua, ma se stesso non sempre è possibile. A volte passa la vita a cercarsi e nemmeno ci si ritrova. L’indifferenza della società a chi se la passa male é sintomo di problema esistenziale non meno importante di quello dei clochard. Ma tra di loro ci sono anche quelli che hanno scelto questa vita. Una sorta si selvaggio moderno che non si uniforma agli stili di vita civili sempre più insostenibili. Può rappresentare una forma di reazione, di avversione, di protesta. Anche la civiltà talvolta produce insofferenze. Stili di vita stretti e faticosi, con ritmi serrati e non di benessere, in una società dove la convivenza diventa una maschera continua. Spesso è un modo per scivolare via silenziosi e vivere senza tempo, ma altre volte è covare la rabbia di una società distratta e impietosa, piena di ingiustizie e costrizioni, che non assicura più niente e lascia senza difese.


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Il crisantemo



Una volta al cimitero si portavano solo  fiori resistenti al caldo, al freddo, al vento e alla pioggia. Tra questi i gladioli, i garofani, le gerbere, le margherite gialle e i crisantemi. Il crisantemo è un fiore strano, come una coppa chiusa in alto  formata da tanti petali sottili ravvicinati di vari colori, con sepali molto lunghi e dentellati. Un crisantemo ha vita lunga  e per questo relegato a fiore dei defunti. Ma col tempo le nostre tombe si sono riempite di costose e varie orchidee, diventate fiori banali, visto che si prestano ad ogni occasione, indistintamente che sia un matrimonio o un funerale.Risultati immagini per il crisantemo Le orchidee sono tra le preferite, appagano il desiderio di rendere le tombe come i giardini pensili di Babilonia, dimostrando la cura che abbiamo dei nostri morti. E poi sono diventate resistenti col loro gambo nel liquido di lunga vita di cui ognuna è fornita. Per molti anni questo fiore ha fatto strage,  e sui marmi erano le regine. Poi, come reclinavano il capo o perdevano le loro corolle sfarzose, si passava a fiori più ordinari o a quelli finti. Facciamo  la corsa a riempire le tombe, soffocarle, anche solo per alcuni giorni. Qualcuna traboccante di colori e qualche altra scarna. Anche questo fa un certo effetto, così che la tomba presenta il conto di quello che eri in vita. Il problema esisteva già per Napoleone che col suo Editto di Saint Cloud del 1804, sanciva che le tombe fossero portate fuori dalle mura della città e fossero uguali per tutti. Una livella ante litteram. Quanto dura un’orchidea? Una settimana con le dovute precauzioni e a volte nel giro di pochi giorni si vede sfumare quello che abbiamo speso per addobbare la tomba a festa. L’orchidea ha spodestato il crisantemo, d’altra parte siamo nell’era dell’immagine, la bellezza batte la resistenza. Vuoi mettere il profumo di un’orchidea con quello del crisantemo che non sa di niente? Tutto quello che offre il suo colore, un ammasso di petali scompostamente raccolti, le cui chiome dondolano sul gambo resistente. Sembrano tanti opliti spartani pronti a combattere. Un mazzo di crisantemi ti riempie le braccia, le orchidee, per quante ne compri, sono sempre rade e poco raccolte a cui devi preservare le corolle come fossero vasi di cristallo. Un oplita col cristallo! Ma con tutta la varietà di fiori che incontriamo e portiamo ai nostri cari, con tutta la bellezza e il profumo di questo mondo che possono emanare, il crisantemo resta il fiore dei defunti. Lo vuole la tradizione, la memoria, la leggenda. Ho visto questo fiore per la prima volta in terza elementare. Sulla pagina del libro c’era  una tomba di marmo con una donna di spalle dalle cui sue braccia fuoriuscivano corolle immense, di colore arancione, ben disegnate, con gambi e foglie di un verde intenso. Quell’immagine nel mio immaginario costituisce quella per antonomasia dei defunti. In seguito, quando la morte ha toccato la mia famiglia, poche volte ho portato i crisantemi sulle tombe dei miei, anch’io dovevo lasciare fiori profumati e nei colori che più mi colpivano. Anch’io ho portato quintali di orchidee, forse per non sentirmi in colpa di andare poco al cimitero e con loro ci si sente appagati, come se il costo, il colore, il profumo e la bellezza colmassero i nostri vuoti. Fanno la loro figura, ci sentiamo tranquilli di fare il nostro dovere dando il meglio, come se quel tripudio di colori bastasse a noi e a loro per continuare ad amarci come quando erano in vita. Certo che il crisantemo non mi ha mai deluso. Quelle poche volte che li ho portati sulla tomba, per mancanza di altri, quando sono ritornata erano ancora lì, nelle loro corazze da olpiti, ritti, ancora a fare da guardia, con un senso del dovere innato. E poi non c’era alcun olezzo, né perdita di foglie. Anche appassendo, non perdono il contegno: avvizziscono in modo integro, non lasciano cadere resti se non qualche petalo per la troppa resistenza opposta. Quando “spaparazzavo” di orchidee la tomba, ero tutta presa dal lavoro di acqua, pulizia, lucidature, polvere, posizione dei vari contenitori. Quando portavo i crisantemi ero io, il lume e loro. Un incontro ravvicinato, su di una tomba pulita, il cui unico calore era la fiammella accesa e gli occhi del defunto che puntavo  imprecando risposte. Ero più lucida, non sorretta da giardini giapponesi innestati lì davanti a me, ma solo dalla forza dei semplici fiori opliti. Mi venivano tanti dubbi, che cozzavano sul marmo della tomba e rimbalzano in me. Lì, c’è sempre una preghiera non di circostanza ma di disorientamento interiore, e il dubbio e la paura restano i due paladini che ci fanno attaccare alla fede. Quell’immagine di terza mi ritorna con la sua semplicità a ricordare i nostri cari, al cimitero, un luogo silenzioso, dove recarsi per incontrare la morte, che non è tanto quella degli altri, ma la nostra  perdendo quel caro, la sua vita e come eravamo noi quando era qui. La nostra morte è perdere gli altri lungo il nostro cammino. D’altra parte la stessa leggenda del crisantemo richiama la morte. Tra le tante ce n’è una che racconta di una bambina  la cui mamma era ammalata. Si rivolse alla Madonna e le offrì un fiore, confidando in lei e pregando per la sua mamma. La Madonna la ascoltò  e avrebbe mantenuto in vita  la mamma  per quanti petali aveva il fiore donato. Ma i petali erano solo  cinque. Allora di notte la piccola si alzò e trasformò quei cinque petali in una infinità di petali, tirando da ognuno tante striscioline, da rendere quel fiore il più ricco di tutti. Quei petali così assiepati intorno agli stami, raccontano i tanti giorni di vita che la bambina ha strappato alla morte per la sua mamma. Così il crisantemo  resta il fiore del miracolo.

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