Il presepe

Il presepe ha un fascino che non si può spiegare. Cosa avrà di tanto importante quella famigliola  raccolta nella capanna, formata da un bambinello che,  già nella culla, rivolge lo sguardo al mondo; da San Giuseppe  in atteggiamento di chi accetta ciò che non capisce, mentre la Madonna adora il  figlio come colei sa che dovrà  portare a termine progetti importanti.Risultati immagini per la nativita in pittura

 E ancora una mangiatoia che sa di fieno, e una luce fioca, due persone immobili a contemplare un bambino che sprigiona forza e vigore come un adulto, sotto la vigile protezione del bue e l'asinello. Il bue, forza della natura, che ara la terra e la rende pronta a raccogliere il seme, mentre l'asinello, nella sua grossolanità, rappresenta chi è incapace di intendere, non può capire, e pertanto  rappresenta la purezza. E'  il nostro corpo che serve la nostra anima. La forza della capanna saranno gli angeli? O i pastori, le pecore, le lavandaie...o la santità di Maria e Giuseppe? No, la forza della capanna è negli occhi di chi guarda la vita che si svolge in quella stalla come fosse l'unica al  mondo. Il presepe è la casa più calda e piena di luce, che attira l'attenzione di chi quell'atmosfera la cerca da tanto, di chi l'ha persa, o chi la vede solo davanti a quella mangiatoia.
Il segreto è nel calore! Lì dentro c'è quello  umano, pur nel silenzio e assenza di parole, c'è unione. La forza è  nelle pose: quel prostrarsi fino ad annullarsi per l'altro. D'altra parte cos'è  l'amore se non dedicarsi all'altro ed essere servizievole nei suoi confronti, fino ad annullarsi?
Tutto dentro la capanna ha valore e quel neonato, nella sua nudità, ci dice che pur povero nasce per noi, che l'amore che porta è il nostro e tutto diventa un circolo virtuoso di forza che non si estingue. Una capanna in ogni casa, darà la luce necessaria per tenerla unita.
Tenere a vista il presepe è come voler recintare il nostro amore e non lasciarlo andare via proprio come indica il significato di presepe: da prae per dire davanti e saepes, per dire recinti. E chi non sosta davanti al recinto più caldo  e umano del mondo? Quel recinto ci insegna che anche noi ne abbiamo uno dove circola il bene.


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Questione di pigrizia, fretta o ignoranza?




Capita spesso, scrivendo messaggi sul telefonino, di mancare un apostrofo, di non trovare la lettera giusta o accentata, di non mettere una maiuscola finendo, complice anche il metodo di scrittura adottato, per diventare approssimativi. Queste piccole disattenzioni diventano sempre più frequenti facendoci perseverare nell’abitudine di sbagliare e nel fatto che tanto si capisce quello che vogliamo dire e che è stata la fretta e non altro. L’approssimazione vige nei nostri scritti e non solo telefonici, tanto che si siamo assuefatti a vederli un po’ dappertutto. Ma quante possibilità diamo alla distrazione? Non è che dobbiamo storcere il naso a un accento mancato, ma nemmeno cominciare a scrivere in una lingua che non è più la nostra. Nell’ultimo messaggio a un’amica, amante della lettera e della bella scrittura, le ho chiesto di scusarmi per i mancati accenti, per non trovarli più, in un “post scriptum” come vuole la regola. E se dall’altro lato c’è stata indulgenza dovuta anche al fatto di conoscermi, non ha disdegnato la formalità con cui le ho scritto. La lettera ha perso anche il valore di una volta, ma sta diventando una riscoperta per molti. Con essa si riflette prima di scrivere, si sa che è un pezzo che resta ma soprattutto per il famoso detto latino che “verba volant scripta manent”. Lo scritto resta, è una prova, un riconoscersi. Difatti ho un’altra amica che mi riconosce dallo stile quando le mando piccoli messaggi. E poi un bello scritto lo si legge volentieri, si capisce al volo, non fa perdere tempo di comprensione. Se voglio scrivere secondo norma devo impiegare più tempo, oltre ad avere una vista di lince e una manualità. Per questo e altro risultiamo troppo essenziali con frasi minime e con la speranza di essere poi interpretati bene. Ma questo è niente rispetto a quello che si vede in giro. Vedo delle brutture di simboli matematici al posto di preposizioni, lettere tutte minuscole in una grande omologazione tra “importanza e normalità”, accenti a iosa anche quando non ci vogliono. Ma a questi strafalcioni si aggiungono vere e proprie deficienze, di una lingua poco studiata e conosciuta. E non si possono accettare accenti al posto dell’apocope, o accenti là dove non ci vogliono scambiando troncamenti per elisioni, pronomi maschili al posto di quelli femminili, costrutti che per azzeccarli ci vuole un terno al lotto e ti trovi un ce n’è scritto “c’è ne” o una congiunzione al posto del verbo o una preposizione al posto del verbo. E che dire dei monosillabi che non si accentano e invece trovarci su l’accento grande quanto un fiocco. Per non parlare dei verbi, una vera e propria congiura. Una volta la grammatica la si imparava, oggi la gioventù ha altro da fare anche grazie ai modelli cui si rifà che insegnano come a studiare si perda tempo, mentre puntando al denaro ci si può comprare poi tutto. Senza metodo non c’è studio. Nella nostra lingua le eccezioni sono di gran lunga più delle regole. E ci troviamo davanti un “pero” al posto del “però” per non parlare del fatidico “qual è” scritto sempre con l’apostrofo o purtroppo scritto “pultroppo”, a volte storpiato in “avvolte”, ma si trova anche un’amico al posto di “un amico” senza apostrofo visto che è maschile. E ancora la “d” eufonica di solito messa a casaccio senza regola e quando ci vuole la si omette. “Ad ogni” e “ad esempio” sono d’obbligo visto che sono eccezioni. Insomma capitano cose veramente assurde. La nostra bella lingua è continuamente ferita e, se non è per la fretta, viene colpita dall’ignoranza. La grammatica va studiata, non inventata. E’ propedeutica alla scrittura e le regole sono fondamentali per non incorrere in una Babele. Siamo i primi a non volerle bene e a bistrattarla credendo che basti essere italiano per conoscerla, poi ci lamentiamo quando gli altri non l’hanno in considerazione. La lingua è uno strumento, un patrimonio e va preservato, anche se si incorre in continue questioni sin dall’antichità, che portano a chiedersi se essa debba aggiornarsi continuamente o rifarsi a regole fisse, se debba accettare parole straniere o rifarsi esclusivamente a vocaboli puri. La lingua deve tener conto delle mode, dei nuovi termini, per mantenersi viva, che non significa abolire la sua storia, la sua origine, e i suoi processi nel tempo. E solo quando si conosce bene la propria, si può intraprendere lo studio di un’altra lingua. Mantenere ordine nella lingua, è mantenere ordine nelle idee. “Un popolo comincia a corrompersi quando si corrompe la sua grammatica”, come afferma Octavio Paz.

Intermittenze

L’altro giorno al parcheggio c’era una donna con telefonino in mano  e si guardava intorno come a cercare qualcuno. L'ho guardata e sono salita in macchina. Mentre mi allacciavo la cintura e inserivo la chiave, ho sentito la portiera posteriore aprirsi e una voce che mi diceva:” E quando l’hai comprata questa macchina?” Mi sono girata e ho visto due grosse buste della spesa appoggiate dietro, da una emergeva un pezzo di pane, una marsigliese, proprio quella che piaceva a mamma. In quel momento ho pensato a qualcuno che non avevo riconosciuto e mi chiedevo chi fosse. La voce era di mia madre e nell’illusione non mi sono mossa, come ipnotizzata a pensare che tornava…con le buste della spesa, con quella sua voce inquisitrice, con la sicurezza che aveva quando era certa di  una cosa…E’ stato un attimo me la sono ritrovata accanto, seduta, pronta a chiudere la portiera... una donna che non ho nemmeno guardato. Poi ho realizzato cosa stesse accadendo. Mi sono slacciata la cintura e scesa repentinamente presa dalla paura visto che mi trovavo accanto una sconosciuta. La signora, accortasi dell’errore, è scesa, ha preso le buste e si è scusata, in verità nemmeno tanto. Forse è rimasta delusa di non trovare la figlia al mio posto. Questo episodio mi ha inquietato molto. Mi sono subito chiusa in macchina a difendermi da qualcosa, forse da quello che che il pensiero sovrapponeva alla realtà.

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Qualcun altro avrebbe preso il fatto per quello che era, io, da una semplice immagine: le buste della spesa come era solita appoggiarle mia madre e quella voce sicura che tante volte mi risuona ancora nelle orecchie, mi sono lasciata andare al suo ricordo. Mi sono preoccupata e spaventata per lo slancio che avevo dato alla possibilità di riavere quello che mi mancava, perdendo  il senso della realtà. Rincorrendo il  ricordo non ho percepito il pericolo nel caso quella persona avesse avuto cattive intenzioni. Tutti ci lasciamo andare ai ricordi quando questi nascono da un bisogno e quella donna cercava sua figlia e l’ha vista in me. A volte sogno e realtà si confondono, la prova che  i pensieri si incarnano  intorno a noi. I desideri diventano realtà e i sogni,  che nascono dai nostri bisogni e ricordi, interferiscono continuamente con la realtà. Viviamo dimensioni diverse che non sempre sono controllate dalla ragione, troppo fredda per capire, e assiste impotente come se un circuito più intenso la mettesse da parte. La vita, una continua intermittenza e interferenza di programma, e non mancano le epifanie come come raccontano Joyce o Svevo, o un bisogno di vivere come in una malattia tutta nostra per non ascoltare il mondo.


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Natale in casa Cupiello



Natale in casa Cupiello  è una commedia di Eduardo De Filippo del 1931, originariamente in unico atto, che fa parte della tradizione napoletana così come il presepe, il babà e la pizza. E’ la commedia più famosa di E. De Filippo, conosciuta come la commedia natalizia per antonomasia. Se ne conoscono intere strofe, dialoghi, tic e battute dei personaggi, atmosfera, argomenti: ‘o scialle di Concetta, o’ zuppone di Tommasino, le rumorose ciabatte di Concetta… 
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Una commedia che presenta uno spaccato di vita quotidiana della bassa borghesia alle prese con i fermenti del Natale e dove sono inserite le difficoltà della convivenza in famiglia. Essa talvolta nasconde tensioni che sottendono problemi mai affrontati, dando per scontato che gli eventi vadano avanti da soli anche se mancano le soluzioni. La storia è quella di Luca Cupiello, capofamiglia, con la passione del presepe. Tra i protagonisti la moglie Concetta, succube del marito, che si presta al gioco dei figli per mascherare le loro debolezze e malefatte; i figli Tommasino, infantile e pronto a tutto pur di fare soldi, e la figlia Ninuccia, donna sposata e infelice, innamorata di Vittorio Elia; e ancora Pasquale, fratello scapolo di Luca, che vive in casa con loro usufruendo di vitto e alloggio nonché della servitù di Concetta. La commedia svela la solitudine dell’uomo anche in mezzo agli altri. Il protagonista vive nel suo mondo, non conosce la vita dei figli, così come si trascina in un rapporto con Concetta consolidato dagli anni e dall’assuefazione, pur manifestando una devozione nei suoi confronti. I rapporti all’interno della famiglia sono tesi e talvolta impossibili. Al suo interno si sprigiona spesso un’aggressività e un pessimismo che inibisce qualsiasi dialogo. La visione di vita di Luca è ideale e non reale. Aspetto non secondario è quello di relegare la moglie all’educazione dei figli, come se ai padri non spettasse l’eguale ruolo. La madre, sostenendo da sola la famiglia e lasciando al marito il ruolo di supervisore, sarà responsabile di disastri e omertose coperture dei figli. La mamma è vista come l’affidataria e l’educatrice della prole. Il padre, intanto, esige allo stesso tempo il loro rispetto, una pura formalità se poi non ne conosce il mondo. Questi esempi genitoriali sono in voga ancora oggi. Uno spaccato familiare dove la vita non è solo lo scorrere dell’affettività tra i suoi componenti, ma spesso il luogo dei soprusi, dei tradimenti, delle bugie, delle sopportazioni, delle paure e anche delle omissioni.  In una famiglia di bassa borghesia tutto è più palese, mentre salendo  nella scala sociale,  emergono sfumature e situazioni diverse. Il presepe qui è la metafora della creatività dell’uomo che si costruisce un mondo tutto suo avulso  dalla realtà, in collisione con la vita di tutti i giorni. Gli eventi si affollano, i problemi esigono soluzioni, forza e ritmo non bastano ad andare avanti. L’immaginazione costa poco e crea un piano irreale che ammortizza le difficoltà della vita, quasi a trasfigurarle. Luca Cupiello rappresenta l’arte, la tradizione, ma anche l’assenza, la poca visione di una vita pratica. Concetta, sua moglie, così, trova anche lei la soluzione di non vita,  eludendo il marito nei fatti importanti della famiglia e in tutto quello che concerne i figli. Un po’ l’atteggiamento di quello che accade nelle famiglie odierne, serbatoi di fatti non risolti, tensioni e malumori. Il presepe dà a Luca la forza, la bellezza della vita, quella stessa che cerca di sfuggire, quando poi ce l’ha di fronte. Chi vuole conoscerlo o avere con lui un dialogo, deve rapportarsi col presepe, deve amare la stessa cosa che lui ama. La famiglia, altro che luogo perfetto e amorevole, risulta essere un covo di  forze contrastanti dove si lotta continuamente. Nella famiglia Cupiello si riscontra  l’amore come vincolo che tutto giustifica, il benessere come unico valore di felicità, i figli, persone sempre in crescita e mai autonomi, la famiglia intesa più come luogo fisico per collocarsi e usufruire di benefici e non di incontro con i suoi componenti. Tematiche valide ancora oggi. E finalmente alla fine della commedia, Tommaso, il “Ninnillo” di casa Cupiello, afferma che gli piace il presepe, ha capito che per il padre quest’affermazione è sinonimo di affetto. Il presepe come strumento di interrelazione familiare quando gli altri canali sono impossibili da percorrere. Il successo di questa commedia è nella intensa relazione che si instaura con lo spettatore che diventa protagonista egli stesso. Si sente in scena una vita che è la sua, la nostra, di tutti noi. Il teatro di Eduardo è vita e la scena si confonde con la realtà, dando la possibilità di rapportarsi a essa come in uno specchio.

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Massa Lubrense

Un morso di porto 
ricco di barche,
un nido d'acqua
dove tornano
pesci imbrigliati
e reti stanche
con rombi
di motori lenti.
Colori a specchio,
a pelo d'acqua
aspettano la luna
regina del piccolo
porto



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Tra gli scaffali della mia libreria

Sei metri di libreria, sei metri di libri stretti stretti senza nemmeno uno spiraglio d’aria tra l’uno e l’altro. Li guardo e non so da dove cominciare. Reparto narrativa moderna o classici? Atlanti geografici e storici o raccolte  e collane? No, meglio dalle enciclopedie. Le scatole sono pronte, infilo i guanti e parto. Toh, il diploma di Laurea, la Tesi, le cartelline ordinate di documenti. No! Più giù sbircio nei classici, comincio da loro. Svuotare questo mausoleo sarà una fatica immane. Raccolgo i Dialoghi di Platone, la storia greca, filosofi, retori, e poi Lettere a Lucilio, un plico che non finisce più, ma anche libri di letteratura romanza, libri di musica, cartelline con lavori svolti, corsi effettuati, quaderni di letteratura. Da ogni libro letto cade un foglio, un fiore, un pennello a mo’ di segnalibro. Apro, leggo qualche pagina, ma il lavoro è lungo e richiudo, non posso perdere tempo. Intanto trovo cose che non vedevo da una vita. Mi commuove ricordare quello che facevo o pensavo mentre leggevo quei libri. Metrica, prosodia, ricette, volumi di cucina, testi importanti di Pittura, capolavori di Pittori, dizionari di latino, italiano, sinonimi, francese, inglese, greco… Ma da un punto buio dello scaffale fuoriesce la copertina strappata di un vocabolario di latino rappezzato. Lo tiro fuori e leggo una versione scritta a matita: ecco, la versione a un esame di latino scritto all’Università. La leggo e davanti si apre la scena di quella giornata piovosa e lunga. Nell’atrio persone lì per la quarta volta, io la prima volta in quell’aula immensa. Spaventata a morte raccomando mio padre di non andarsene, non stavo bene per l’ansia accumulata. Guardo gli altri, sembrano quasi indifferenti, forse, penso, sono più preparati di me. Appena arriva la versione provo a tradurla e la scrivo con la matita sulla copertina del vocabolario. In aula massimo silenzio, ricontrollo tutto e non mi sembra vero di aver tradotto così velocemente. Ma non si può comunicare con nessuno, accanto un professore mastino non fa volare una foglia in aula, più in là lo stesso, un altro collega sembra Caronte. Correggo, limo, controllo, cambio vocaboli. Ho finito, ma ho bisogno di condividere. Un ragazzo mi chiede, come ho tradotto un passo, ma come faccio? Il mastino sempre là, Caronte dall’altro e in cattedra sono in quattro con occhi puntati addosso.

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Appena un ragazzo consegna, passo la notizia, ma il tipo di rimando dice che ho sbagliato. Ricontrollo e sono sicura di quello che ho scritto. Lui mi ribadisce che ho sbagliato. Si gira una ragazza e mi conferma quello che ho scritto io, quanto basta per tranquillizzarmi. Alla fine rigiro la copertina del vocabolario al ragazzo.  In caso ci avessero ripreso, poteva sempre dire che era la sua, visto che il suo ne era privo. Ma il ragazzo mi porse di nuovo la copertina mentre io consegnai. Dopo 15 giorni andai a registrare il voto sul libretto, eravamo solo 12 su 60 ad aver superato l’esame. Il ragazzo non ce la fece, aveva scambiato un soggetto per complemento oggetto e non volle ascoltare. Anche gli altri come lui.  Cicerone lo aveva fregato. Quella copertina non la posso buttare, c’è la costruzione di un esame. I miei mi dicono di buttare le cose vecchie per fare spazio, ma quella copertina è per me un documento importante. E’ strano come sin dalla prima parola giunga a me quella giornata, quel ricordo. I libri, li apro e trovo parole sottolineate, capoversi colorati, disegni e poi battute segnate durante le ore di lezione. Quadrifogli per dire che l’interrogazione è andata bene, pollici abbassati in segno di  impreparati e scongiuri per non essere chiamati. Ma anche dialoghi per ammazzare il tempo. Quaderni con spiegazioni e ricordi di giornate nere e altre di gioia. Un Conrad che fuoriesce, un Benni che mi fa l’occhiolino dallo scaffale dei piccoli libri. Li amo tutti, Petrarca, Poliziano, l'Orlando Furioso da un Ariosto trionfante, un’immagine enorme, una Divina Commedia distrutta da cui escono pezzi di Inferno, stralci di Purgatorio e figure dal Paradiso. E come non fermarsi davanti all’’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam, l’incipit, famoso, corre nella mente…ne hanno fatto anche uno spot pubblicitario e io fluttuo per l’aria. Poi c’è una Tarantella napoletana in musica, un Beethoven che mi vien voglia di provare a pianoforte, ma i miei arrivano col carrello e non ho sistemato  nemmeno una scatola. Devo correre, sbrigarmi…e come se stesse origliando Milan Kundera mi dice di andare piano dalle pagine de La lentezza, fuoriuscendo dal piano con Pessoa. E poi I quaderni Serafino Gubbio operatore di Pirandello, e ancora  Kafka, Pascal, Petrarca e Boccaccio…Giambattista Basile con Lo cunto de li cunti, ma anche un Lutero, Riforma e Controriforma, libri di storia, guerre mondiali, glottologia, retorica, italianistica…poi la poesia…Leggo versi di Leopardi, altri di Manzoni, Rebora, Penna, Montale, Ungaretti, Saba…Ognuno una storia con me. In questa libreria l’anima vola. Mi arrabbio quando mi dicono di mettere i libri così come viene tanto bisogna ordinare dopo. Come faccio a mettere Seneca e Benni, Gadda e Virgilio, Lucrezio e il Belli? Devono andare con i loro simili, la loro epoca, e controllo per sezioni. Penso che Internet non sotterrerà mai il libro, rappresenta una delle migliori relazioni d’amore, senza fine. La sicurezza ce la fornisce un libro, Wikipedia nel suo sapere universale non è così affidabile come il libro. 


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Letteratura natalizia

Come arriva dicembre, tutte le compere sono in virtù del Natale: un abito, un libro, un regalo, un capo di abbigliamento... Come se il 25 fosse una fiera. Un libro? Lo regalerò a Natale. Un abito? Lo metterò a Natale. Una ricetta? La proverò per Natale... Per me il Natale è libri, è leggerli e regalarli. E' difficile trasmettere il piacere della lettura, ma ci provo. In questo mese mi piace cercare, rovistare, curiosare racconti, storie, fatti del Natale ed ogni anno trovo qualcosa di nuovo rispetto a quello precedente. 



E come non ricordare Piccole Donne che tutte noi abbiamo letto durante la nostra adolescenza. Un’aria natalizia la si respira nel II capitolo  dove la mattina di Natale le ragazze trovano libri in regalo e cominciano a sfogliarli. Meg ricorda alle altre che la madre ci tiene che leggano, fa parte della loro educazione e non resta che ubbidire. Ma il Sogno di Natale di Pirandello riporta  ancora di più a un’atmosfera tipicamente natalizia, tradizionale, facendo respirare per le strade l’aria di una nascita. E come non ricordare Don Valentino alla ricerca di Dio che, secondo lui, era scappato dalla Cattedrale per non aver fatto entrare un poveretto all’interno? E’ questo un bel Racconto di Natale di Dino Buzzati che gira intorno a Dio che  Don Valentino  non trova in Cattedrale e nemmeno nel cuore dell’uomo. Preso dall’egoismo e dal consumismo, spesso si smarrisce. E che dire del Canto di Natale di Dickens, un commovente racconto che riempie di compassione e  di gioia lo stesso Stevenson che  trovò un’infinità di bene nella storia di Dickens. Il vecchio e avaro Scrooge viene visitato dalla sua stessa vita attraverso gli spiriti del Natale passato, quello presente e quello futuro. Un racconto dai contorni gotici, che fa ravvedere circa il vero senso del Natale e apporta un cambiamento notevole nel protagonista. Il Natale ha in sé qualcosa sempre di nostalgico come si apprende in un altro racconto: Il mio Natale nel Galles di Dylan Thomas, dove il protagonista si riversa nel passato felice.
Anche  Agatha Christie si è cimentata in una storia con Un Natale di Poirot, intrigante racconto secondo lo stile dell’investigatrice inglese. Ma il nostro Natale letterario più bello è quello di Natale in Casa Cupiello, testo del grande Eduardo De Filippo che ogni anno ci riscalda facendoci vivere un Natale vero, caratteristico. Riscoprire il Natale attraverso la letteratura può voler dire una chiave di lettura nuova per un evento che ogni anno ci vuole uniti. Andare in libreria, soffermarsi tra gli scaffali alla ricerca della frase  che ci colpisce, della parola che poi non si dimentica più, anche questo fa parte del Natale e ci aiuta a capire le nostre azioni e definire le nostre aspettative. Dicembre è appena iniziato e abbiamo tutto il tempo per scoprire una letteratura che dorme e che ha solo bisogno di essere riscoperta.

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