La fatica di crescere

I ragazzi emulano sempre più i grandi soprattutto nei loro cattivi esempi, atteggiandosi come i modelli di riferimento del mondo della canzone, della realtà e del loro immaginario  e riproducendone anche atteggiamenti violenti, per sentirsi grandi in questa fase di crescita tra le più difficili da attraversare. In assenza di una figura genitoriale forte, l’emulazione si anticipa di molto. Il genitore  preferisce il ruolo  dell’amico, si mostra permissivo per non creare dissapori, per accontentare i figli come se bastasse assecondarli. Essi passano da una figura che opprime, autoritaria a un’altra che lascia a desiderare, perché svuotata del suo significato. Sono fragili figure che pensano di essere all’altezza del ruolo per stare dalla parte dei figli, giustificandoli a prescindere, anche quando andrebbero redarguiti. Devono dividersi tra la famiglia, i sogni, la carriera, e i progetti e, dal momento che la tecnologia esercita sui ragazzi un processo educativo distorto ma rapido, si sentono impotenti e li lasciano fare, credendo che siano ormai grandi.Immagine correlata
 Ma prima ancora che genitori è la coppia che a volte scoppiata perde quel cemento per essere genitori autorevoli. Anche le coppie più giovani spesso mostrano rigidità e ignoranza e la giovane età non li preserva da fallimenti e difficoltà di approcci, attuando metodi educativi empirici, per niente efficaci, basati su comportamenti deboli, proponendosi come amici dei figli. Secondo l’etologia e la psicoanalisi, il gioco e le fiabe sono intesi come dispositivi di elaborazione dell’aggressività che, in questo periodo, rappresenta il suo culmine. Per le istituzioni pedagogiche, l’educazione dell’aggressività non sta nella sua inibizione, repressione o negazione, bensì nella possibilità di manifestarla e controllarla in forme non nocive. Sin da piccoli bisogna esercitare le forze interiori in processi catartici come possono essere l’utilizzo delle fiabe e del gioco simbolico e crescendo, integrare con attività che danno un percorso educativo a tutte quelle emozioni e stati d’animo che possono ritenersi nocivi per la sua formazione. Successivamente il dialogo è un buon metodo per aiutare il ragazzo a tirare fuori quello che lo opprime, evitando così di covare dentro rancori e permettere di far crescere la stima di sé. I moderni genitori non hanno più tempo per giocare, per raccontare fiabe, per dialogare, per andare a cinema con i figli, per costruire insieme. Si sottraggono come se fosse una perdita di tempo. Ai figli di oggi manca una figura  autorevole che eserciti un buon controllo, che sappia ascoltare e dialogare, dia esempi e sia d’aiuto. Lasciarli a cavarsela da soli, non garantisce l’ingresso nell’età adulta, così come fare confronti col passato non ripara da critiche. La famiglia di oggi  è una famiglia fredda, isolata, dove ogni persona vive per se stessa. I genitori oggi sono disorientati, il mondo intorno gira vorticosamente e sono sempre impreparati di fronte a quante cose possono accadere senza il loro consenso. Si chiede alla scuola di educare mentre ci si dimentica che il suo ruolo principale è quello d’istruire e  che poi l’istruzione, per essere impartita, abbia bisogno anche dell’educazione, è un dato di fatto. D’altra parte se la famiglia si è sfasciata con le sue parti spezzate e ricomposte, diventando allargata e poi riformata, dove il matrimonio è solo un’istituzione e la convivenza uno stato di fatto e non un bisogno, spogliandosi di quelle relazioni che una volta essa tesseva, questi figli non hanno alcuna certezza, tutto ai loro occhi si mostra precario. L’età che va dall’infanzia all’adolescenza è quella più importante della nostra vita: vede il formarsi della personalità dell’uomo, una metamorfosi completa, un bozzolo che diventa farfalla, dove il bambino stenta a uscire da un corpo non ancora adulto. Il processo adolescenziale è un continuum dal narcisismo primario dell’infanzia fino all’età adulta. Per Freud l’adolescenza è la “perdita dei legami oggettuali infantili”, per Erikson è “la conquista del senso di identità”. Il processo adolescenziale non è lineare,  oscilla tra progressi, regressioni e deviazioni che segnano un percorso fatto di  stati emotivi tesi,  di angosce, tensioni e depressioni. Essa non si presenta mai, fino alla fine, come un distacco totale dall’infanzia, ma un tornare e ritornare al bambino che fino a poco prima rappresentava l’equilibrio e che invece deve venire fuori per lasciare il posto all’adulto. Questa lotta crea in lui scompiglio, disordine, a volte situazioni precarie e distruttive. E’ in questo periodo che il ragazzo si affida agli altri, li segue, li prende ad esempio. Crescere talvolta è una fatica e necessita di un ambiente sano per contrastare quello che non è adatto alla crescita. I genitori sono i primi a essere chiamati in causa in questo processo con la loro presenza, affetto, e soprattutto con gli esempi che nell’educazione sono più importanti delle  parole.

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Il grembiule


Mi copri col tuo prato in fiore,
su volano rondini,
ai piedi freschi ruscelli.
Porti la natura ai fornelli,
la freschezza dell’aria
e in cambio trattieni  gli odori.
La porcellana attende
il tuo strofinio
e la cucina brilla al tuo passaggio.
Fedele compagno di lavoro
che assecondi i miei umori,
mantieni l’allegria
tra i menù del giorno.
Non c’è cucina senza il tuo aiuto,
mai ti stanchi e mai ti scrolli.
Io di te mi fascio
mettendomi addosso una seconda pelle,
un affresco, dove sempre appoggio i palmi,
come a chiedere il permesso
di quel che vado facendo.


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Il filo spinato

Ce n’era uno nei campi, vicino a un paletto che fungeva da steccato. Una volta mi sono fatta male: il ferro affilato mi è entrato nella gamba e mi ha lasciato la ruggin. Solo dopo ho saputo che bisognava fare l’antitetanica. E pensare che sono rimasta per un po’ senza nemmeno disinfettarmi. Quel filo l’ho visto di nuovo sui libri di scuola, in un’immagine di guerra e mi sono ricordata della volta che mi ero fatta male. Ho collegato la guerra al dolore della mia gamba sanguinante. Immagine correlata
Quel giorno una vicina mi ha spiegato che la guerra è roba per matti, che quando i soldati sono passati di là, hanno fatto uno scempio. Poi le ho chiesto a cosa servisse quel filo spinato visto che avevano le armi, lei mi ha risposto che un filo serve sempre: a prendere tempo, a lasciare ferite, a far desistere dall’oltrepassare la linea. Del suo discorso mi rimase scolpita l’ultima parte“ a desistere dall’oltrepassare la linea”. Poi è stata la volta di un’immagine di filo spinato lungo una ferrovia. Era attorcigliato, grasso e gonfio di ruggine con punte aguzze e ho pensato alle intenzioni di chi lo aveva disposto li, per non “oltrepassare la linea”. Un giorno ho scoperto, per caso, in un emporio, che di filo ce n’era ancora oggi e si poteva pure comprarlo. Mi sono scandalizzata quando è stato preso dai miei per recintare un cancello e mettere in difficoltà i malviventi. Quel filo mi perseguitava. Una volta, a scuola mi è stato chiesto di disegnarlo e mentre lo rendevo più in rilievo con le punte ben in evidenza, è stato come pungermi di nuovo e vedere la gamba sanguinante. Ne ho visti in seguito sui cigli delle strade, ammassati, nei sentieri, nei prati, come note di un passato ancora vivo. Segno che la guerra non solo aveva lasciato confini, ma che non era mai finita. Una volta per un viottolo, un signore lo tagliava per proteggere una sua coltura e si lamentava che prima erano gli uccelli a far paura, oggi i ladri e notavo con quant’ arte lo disponeva e lo avvinghiava per rendere difficile il passaggio di un solo piede nel suo terreno. Mi chiedevo cosa sarebbe successo, tutto sommato, se poi il viandante avesse invaso il suolo. Tutt’al più avrebbe preso un frutto, un’insalata, del prezzemolo. Si poteva mettere un cartello con su scritto: ”Fate con cura, abbiate la bontà di non sradicare le piante, se proprio non resistete alla tentazione di portarvi via qualcosa”. Questo è quanto pensavo io mentre lui arrotolava il filo e lo disponeva sul bordo. Il fatto è che a chiuderci in un recinto siamo poi obbligati a lasciare fuori tante cose. Pensavo a quanto fossero tristi tutte quelle persone abituate a recintare per non aver giocato da piccoli, altrimenti avrebbero imparato a stare insieme e a non lasciare nessuno fuori. Non avranno mai saputo dei nostri cortili segnati col gessetto bianco per giocare alla settimana, quando volavano palloni e palle per “avvelenarci”, per discutere con un amico che non stava alle regole, con un altro che andavamo a scovare per farlo giocare e tutti insieme passavamo il tempo a vivere in compagnia. Pensavo che anche quelli di Auschwitz, sì, i cattivi, sono stati più poveri dei deportati, avranno fatto giochi “chiusi” sin da piccoli e avranno imparato a recintare e lasciare fuori chi non ce la faceva o quelli a cui non piaceva il loro atteggiamento. Il vero gioco è quello di tutti insieme, sudati a correre e a sbucciarsi fino a sanguinare ma non per il filo spinato arrugginito, pericolo per il tetano. Nel gioco si impara a resistere, a condividere, ad aspettare, ad aiutare, a collaborare, perché il gioco vero è quando partecipano tutti, senza esclusioni. Purtroppo il filo spinato vive. L’emporio di una volta lo vende ancora, ed è tragico vederlo nelle immagini di luoghi dal mondo dove si vedono cordoli che invece di essere di solidarietà, costruiscono intorno il gelo o il deserto. Se di un filo abbiamo bisogno è quello per legarci, l’unico antidoto per non arrugginirci e morire di tetano. E se un vicino sbircia nel nostro orto, non aspettiamo che sradichi qualcosa, preveniamolo offrendogli un frutto del nostro lavoro e fargli scoppiare la voglia di prepararsene uno da solo. Collaborare vale più che scacciare  ed erigere per difendere i nostri confini. 

Ignare



A volte ritornano alla mente argomenti e letture , presentandosi sotto nuova luce. E’ il caso di una novella di Pirandello: Ignare, tratta da Novelle per un anno. L’ho riletta, avendola sotto mano, anche per ricordare che una delle protagoniste, Suor Ginevra, proveniva  da  Sorrento. E alcuni passi, a suo tempo, mi facevano immaginare i nostri luoghi come calati nelle descrizioni ” S’era d’ottobre e pareva ancora piena estate, sebbene di tratto in tratto, entro quel tepore denso di odori inebrianti, sorvolasse dal mare che s’intravedeva prossimo di tra il fitto turbinio di tutti quei fusti d’alberi, qualche primo brivido di frescura autunnale”. Sono parole che riportano immagini dei nostri luoghi e chissà che, oltre alle scene, non faccia riflettere anche lo spunto. E’ il racconto di uno stupro  di quattro suore: Suor Ginevra, Suor Leonora, Suor Agnese, Suor Erminia, di cui solo una potè tornare a Napoli: Erminia. Le altre furono condotte in una villa di campagna dove trascorrere il tempo del parto. Qui le aspettava una certa Rosaria, che le avrebbe seguite. La violenza, di cui erano state protagoniste, s’incarna in tre esserini che vengono alla luce e che non hanno alcuna colpa se non quella di essere frutto di una violenza, mentre dovrebbero esserlo d’amore.  Secondo Pirandello ogni atto d’amore dà i suoi frutti, ma qui i frutti, tre neonati, finiscono per essere strappati alle madri dovendosi salvare dalla vergogna. E così, come le poverette all’inizio del noviziato si erano castigate accettando di violentare corpo e mente per obbedire a Dio, così vengono violentate senza che il loro Dio possa aiutarle  o impedire che ciò accada. Delle tre, Ginevra,  morì in seguito alla fatica del parto. Delle altre due: Agnese non oppose resistenza, mise al mondo la creatura consapevole del fatto che non la avrebbe più vista, mentre Leonora fu quella che reagì alla violenza, chiudendosi in cella con la neonata di Ginevra, in un atto di follia, attaccando quella creatura al seno non volendola lasciare. Ma anche lei, alla fine, crollò e la piccola fu affidata. La storia ancora attuale riporta alla mente il film “Agnus Dei” di Anne Fontaine, la quale afferma che: “Le violenze sulle donne, gli stupri di guerra avvengono ancora ovunque nel mondo dove vi sia fanatismo e conflitto, considerati un’arma di guerra”. Di questi bambini non si sa che fine facciano. Anche in questo caso quella maternità che ogni suora pone al servizio della Chiesa, qui si rende viva fornendo la soluzione al problema. Le suore devono accettare quello che invece avevano evitato venendo meno ai voti e tutto quello che in precedenza avevano conquistato con tanta fatica. Ma anche l’obbedienza, quando tutto diventa violenza, ha il sapore della disobbedienza se quell’orrore perpetrato non subisce un arresto. Chiudersi nel segreto vale quanto disobbedire, nascondere per evitare la gogna ed è più sconvolgente del denunciare. Per ritornare a Pirandello, qui il tema della morte, della maternità e della sessualità si fondono come temi a lui cari e dove i personaggi maschili e femminili si respingono ancora una volta. Si presenta un mondo femminile alienato, dove il convento si pone come una finestra sul mondo, che non permette alcuna permeabilità. Il “limine” è dato dall’io che si chiude  e non lascia filtrare la vita esterna. Profanando l’interno si ha la distruzione di uno scambio reale  tra l’io e il mondo. Per poter stare alla finestra, il mondo esterno o interno deve perdere la sua realtà. E’ un lavoro di addestramento lungo, fatto di amore e fede e la violenza entra come sovvertimento delle parti. Ma forse la stessa violenza porta con sé la voglia di spezzare i fili della ragione e rendere mondano anche il più grave dei segreti del mondo, come se tutto dovesse passare attraverso la mente e il corpo. “Se non si pecca contro la ragione, non si combina nulla!” affermava Einstein. E cosa ha fatto la Chiesa nel tempo se non infierire al limine della finestra per mettere mondo contro mondo proprio in nome della fede?

Hilaire German Edgar Degas (1834-1917), Tre suore, 1871-1872. Immagine dal Web.

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Perchè non si legge in Italia?

Il paradosso è che in Italia si scrive molto e si legge poco, anzi pochissimo  e la lettura riguarda solo metà della popolazione. Le donne leggono più degli uomini. Il Nord più del Sud e i giovani più delle altre fasce. I dati sono sconfortanti, metà della popolazione italiana non si confronta, preferisce restare nelle proprie convinzioni, soprattutto quelle legate alle reminiscenze scolastiche. Leggere, contrariamente a quanto si crede, è avere una vita sociale, rapportandosi col pensiero altrui. Diventa un programma di crescita anche quando siamo adulti. “Crescere” significa imparare, acquisire nuovi punti di vista, sviluppare nuovi modi di sentire anche attraverso le esperienze degli altri e di quello che non vivremo mai.


 Le nostre conoscenze non possono mai dirsi concluse e abbiamo bisogno sempre del confronto. In quello che leggiamo ci rispecchiamo, vediamo noi stessi con la nostra vita anche in storie lontane da noi.  Contrariamente ai lettori, i libri sono più di quelli che se ne potrebbero leggere. Scrivono scrittori professionisti, giovani e meno giovani, affermati ed esordienti, giornalisti e registi. La scelta è vasta e varia con grande successo per i romanzi, tra cui molto forte quello storico, seguono i gialli, le inchieste, rivelazioni, fantasy. Forse l’area che presenta qualche vuoto  è la letteratura per ragazzi. Non è semplice scrivere per loro, che tra l’altro sono anche quelli che leggono di più. Quella dei ragazzi è una letteratura che deve attenersi a scopi educativi e il margine di libertà per gli scrittori non è molto, ecco il motivo per cui è difficile scriverne. Si legge di buon grado l’autore italiano come quello straniero senza alcuna differenza. Per un libro è fondamentale la pubblicità, a cui pensa, per gli autori affermati, la casa editrice e sempre la stessa gli organizza tour di presentazioni e serate che assicurino le vendite. Se volessimo spiegare l’ispirazione alla scrittura degli autori italiani forse è da vedersi nell’aria di arte e cultura che si respira nel nostro paese. Qui si è prolifici. Si scrive per tradizione, per bisogno di raccontare e per la fervida fantasia che ci contraddistingue. Sono molti poi gli autori giovani che hanno largo seguito per la capacità di interpretare le mode e le esigenze del momento. Ma chi è il potenziale lettore italiano? In prima linea ci sono gli studiosi e persone del campo che leggono per lavoro e sono sempre aggiornati e preparati su autori, argomenti, nuove uscite. Poi ci sono gli appassionati, per i quali non è tanto l’argomento da leggere quanto leggere per leggere, per informarsi e saperne sempre di più. Ma quelli che detengono il primato sono gli “insaziabili”. Leggono a tutte le ore, sanno leggere, sono guidati dalla curiosità, dalla voglia di vivere le storie in cui si addentrano. Ambiscono ad ampie conoscenze, a rapportarsi con quello che non conoscono. Sono quelli che nei libri ci crescono, si pascolano, li bevono, li mangiano, li leggono e li rileggono trovandoci sempre qualcosa di utile, di vero. Chi legge lo fa da sempre. Il problema resta chi non prende un libro in mano nemmeno se lo costringi o glielo offri. E tra costoro ci sono anche professionisti, quelli convinti che, una volta presa la laurea, non ci sia più bisogno di sapere, né confrontarsi. Lo scibile, per loro, finisce con quello che hanno imparato. Sono quelli che abbassano le percentuali. Cosa si può fare per questo pubblico?  In Italia molti di quelli che si dedicano, durante il tempo libero, al calcio e alla politica,  ritengono la lettura noiosa.  Storie di sesso e di ironia hanno sempre largo seguito, mentre argomenti più impegnativi hanno difficoltà a farsi strada tra coloro che preferiscono letture leggere. Per questi lettori c’è molto da scrivere per attirarli.  Il vero supporto della lettura è la curiosità e  chi legge è uno che ama la vita così tanto che una sola non gli basta e continua a chiudersi in personaggi e storie che possano portarlo lontano. Leggere è un po’ come il paradiso che riserva tante delizie, una dopo l’altra, allungando la vita. L’educazione alla lettura non è da vedere solo come un piacere ma anche una necessità. E’bene apprenderla in famiglia, dove basta un solo componente per trasmettere indirettamente l’abitudine anche agli altri. Un modo per risvegliarla è parlare dei libri nelle librerie, a scuola oltre al passa parola. La scuola è il luogo più adatto alla divulgazione, si dovrebbe poter parlare non solo di libri di testo ma anche di tutti  gli altri, dando le giuste informazioni. Ma la scuola resta anche l’unica agenzia oggi dove si parla di libri, per il resto tutto è affidato alle presentazioni degli autori. Per non parlare di “quelle librerie” che mettono in bellavista solo i libri che interessano ai fini economici, nascondendo, se possibile, o evitando, tutti gli altri libri. A volte i librai sono i peggiori divulgatori. Dovrebbero fornire elementi e notizie in modo imparziale, ma molto spesso si comportano come i tifosi allo stadio.  Non da ultimo il costo del libro è fondamentale. Ci sono lettori che spendono per ogni bene di consumo ma non cacciano un euro per un libro, pur essendo buoni lettori. Ce ne sono altri che spendono solo soldi per  libri e ne comprano a prescindere se li leggeranno o meno. Altri ancora, che non possono permetterseli, trovano mille strategie pur di fornirsene. I libri dovrebbero avere un costo contenuto, accessibili a tutti. Anche in questo ci sarebbe tanto da dire. Il concetto è che la lettura non deve essere un lusso ma una necessità e invece risulta quasi un bene di consumo per pochi. Allora legge chi se lo può permettere e a questo punto cade anche il motivo per cui si scrive se  la fetta di pubblico a cui si indirizza un contenuto non può leggerlo. Intanto mancano tutte quelle politiche per ovviare le difficoltà e consentire la lettura a tutti.

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La calza della Befana



Crescendo i figli si allontanano dalle figure di Babbo Natale e della Befana, come se l’avanzare dell’età lì scoprisse impreparati al fatto che i due personaggi della loro infanzia non sono più credibili. Alle notti insonni, passate con gli occhi spalancati nel buio, per riconoscere il minimo fruscio o rumore al passaggio della Befana, si sostituiscono pensieri scettici che allontanano quei momenti magici vissuti da bambini. Anche i genitori si mostrano stanchi di quelle sceneggiate  durante la notte, con lunghe ed estenuanti veglie per sistemare al meglio i doni. Crescendo, i ragazzi perdono l’incanto dell’infanzia, di quando si lasciavano ingannare a loro insaputa. Risultati immagini per la calza della befana
Quando mamma e papà capiscono che non si possono più divertire come una volta nella regia della rappresentazione dell’Epifania in piena regola, allora vanno scemando l’intento  riducendo la Befana a una magra e striminzita calza appoggiata da qualche parte della casa come unico elemento che ricordi la tradizione. Mia madre ricordava sempre a mio padre, quando ero bambina,  di non dimenticarsi la calza,  mentre lei pensava al resto. La regista era lei e non ha mai perso l’abitudine. Non si è mai dimenticata la calza, anche da adulta e  sposata. Era un dovere ma fatto con amore, come dovrebbe essere ogni volta che doniamo qualcosa. Le sue calze sono state uniche: ricche di ogni sorta di dolci, stracolme, di forme strane per il peso che contenevano. Da ragazza, con le mie sorelle la svuotavamo interamente sul letto e ci divertivamo ad assaggiare, mercanteggiando quando volevamo a tutti i costi le cioccolate dell’altra. Tre calze enormi che si confondevano sulle coperte del letto. Passavamo il tempo a limitarne i confini, racchiudendo il contenuto di ciascuna, litigando per gli Smarties o i Mars. Si scartava cioccolata fino a mezzogiorno, si selezionava quella che non piaceva, si giocava con le rondelle di liquirizia, chi tirava da una parte e chi dall’altra, e si assaggiava un po’ di tutto, riempiendoci la bocca per paura di perderci qualcosa di buono. Se ne mangiava fino a quando i denti diventavano neri. Mi piaceva il suono della calza al tocco della mano, che faceva venire l’acquolina in bocca sapendo che, quelle carte che si strofinavano, erano piene di cioccolata. Da sposata, mia madre, il giorno della Befana, arrivava con un serpentone nella busta, di mattina presto, quando ero ancora intenta a sistemare i giocattoli dei miei figli, e tutta allegra mi diceva:”Ho portato la calza alla mia bambina”. Strana sensazione sentirsi bambini da grandi e vecchi da bambini! Lei mi faceva sentire al centro dell’attenzione ancor di più quando, slacciando la calza, non c’era una sola cosa che non fosse di mio gradimento. Le leggevo negli occhi il piacere di darmi piacere. Voleva scoprirmi confusa e ancora pensata come quando ero bambina e al mio sorriso, al mio illuminarmi davanti a quelle dolcezze,  era felice. Dopo aver letto sul mio volto tutta l’approvazione del suo gesto, ci lasciavamo andare a confidenze davanti a una tazza di caffè con anice, in una casa ancora silenziosa e assonnata. Impagabili momenti, che, nati dal pretesto della tradizione, portano a comprendere l’affetto nelle sue sfumature. Una calza per affermare che lei c’era, che la sua non era da paragonare a quella degli altri con  le cose contate. Le altre calze erano piccole,  particolari, lucide e passava la voglia di aprirle, tanto erano infiocchettate. La sua era sempre la stessa, quella di ogni anno che riempiva a suo gusto e che a festa finita riponeva per l’anno successivo. Quella calza è il più bel ricordo: a strisce colorate, che sapeva di zucchero, sempre uguale, mai una grinza, né un buco, con tutto quello che portava.  E dopo qualche mese,  ne usciva sempre un piccolo soldino di cioccolato bloccato da qualche parte e lei mi diceva: “Il bene della mamma è in tutte le cose, perché la mamma conosce la figlia, gli altri credono di conoscerla!” Quando mi parlava così, mi sentivo una privilegiata e dovevo aspettare un anno per un’altra manifestazione simile. Saranno  le emozioni ricevute da quei momenti a voler trasmettere le stesse esperienze con gli stessi gesti agli altri. Così i miei figli ricevevano calze simili, solo che con loro mi divertivo a organizzare  una  caccia al tesoro. Quando si svegliavano, dovevano seguire la mappa con le indicazioni, per trovare la calza in qualche posto recondito della casa. L’abitudine si è persa solo per non trovarci più insieme in questa ricorrenza. Si cerca a tutti i costi di prolungare le emozioni della nostra infanzia mai sopite. Ecco il motivo per cui la calza della Befana va fatta con cura, fornendola di quello che piace veramente e non tanto per riempirla. Non va fatta distrattamente, visto che lì dentro c’è parte di noi, e da come si scelgono le cose, veniamo rappresentati. Tutti si aspettano la calza della Befana, piccoli e grandi. E non facciamo in modo che, per risolvere velocemente, con la scusa di non poter mangiare caramelle, o di fare la dieta, regaliamo carbone!

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"Il miglior rifiuto è sempre quello che non si produce"




L’affermazione è del ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti  sulla questione sacchetti per frutta e verdura  che da gennaio si pagano visto che saranno biodegradabili. L’applicazione della procedura era prevista da tempo ma solo ora è stata applicata. Un modo per adeguarsi alla normativa UE e uniformarsi alla disciplina degli altri sacchetti, quelli oltre i 50 micron, che usiamo per la spesa. Alla notizia c’è stata un moto di avversione dovuta al fatto che il Capodanno ha visto l’aumento di altre tariffe oltre questa. Adesso c’è il rischio di pagarla due volte, visto che le bilance hanno incorporato il peso e il costo. D’altra parte rendendola visibile sullo scontrino, forse  avremo maggiore consapevolezza di come vanno gestiti i sacchetti che molto spesso buttiamo nella spazzatura, quando proliferano nei nostri sgabuzzini e credenze. Se serve a prendere atto che stiamo uccidendo il nostro pianeta, soprattutto l’acqua del mare, dove la plastica ha reso difficile la vita dei pesci, che ben venga! Ma da noi gli affari si vestono di necessità. Così per i farmaci, i libri scolastici, e tante altre cose che si prestano ai giri d’affari. L’affare numero uno  è lo smaltimento dei rifiuti,  una volta era il petrolio, ora saranno proprio questi ultimi a prenderne il posto. Un sacchetto, che sarà un sacchetto da pagare! In Italia tassare è l’attività più legale che esista. Intanto va da sé che dovremmo avere cura dei sacchetti e non buttare tutto quello che passa tra le nostre mani. Quante volte arriviamo a casa con buste della spesa e puntualmente le buttiamo via. Negli anni 60, fino agli anni 80, il sacchetto era costituito da una borsa a uncinetto di rafia colorata a maglia larga. Quando  la si riempiva, si allargava prendendo la forma delle cose e bastava a contenere tutta la spesa. Oggi facciamo uno sciupio di carta e plastica, per questo sarebbe meglio avere diversi tipi di borse per quanti usi dobbiamo farne. Ne  immagino una di tela per il pane, colore neutro, capiente con manici di stoffa, con scritta su o disegno. Per la spesa di salumeria ne basta una resistente, ben foderata di colore tenue in modo da abbinarsi agli abiti che indossiamo. Per il pesce serve farne una con quegli impermeabili  che si usano come soprabiti fuori uso, con applicazione di pesci da non confondere con altre. Poi resta quella per l’abbigliamento, che potrebbe risolversi con un piccolo trolley scorrevole in cui mettere gli acquisti. Sarebbe una vittoria per tutti. Ad ogni  acquisto il contenitore giusto. Potremmo sistemarle  proprio in quello spazio dello sgabuzzino relegato alle pile di buste inutilizzabili.  Una volta logore, provvederemmo a sostituirle con altre nuove. Sarebbe un bel coraggio affrontare un problema ambientale cominciando a riciclare  quello che abbiamo. Sarebbe ora che ne prendessimo atto da soli, nelle nostre case, tra le nostre cose che sono infinite rispetto a quelle che usiamo. E poi, tra la plastica che copre ogni nostro spazio e rifiuti di ogni genere che non si smaltiscono in tempo, anche il costo di un sacchetto micron risulta un controsenso. I sacchetti,  anche quelli biodegradabili, andrebbero banditi e al loro posto solo borse di materiale naturale o facilmente reperibile e non pericoloso per l’ambiente. Se fossimo così bravi a risolvere il problema, sono sicura  che si troverebbe un altro modo per indurci ad altro pagamento , dicendo forse che la spesa necessita di buste pulite ogni volte o che non è permesso portarsi le borse da casa. E’ nostro  costume essere avvezzi alle novità senza esserne informati anzitempo. La politica deve prefiggersi programmi con soluzioni idonee e non a caso. Oggi l’astuzia della volpe di cui parlava Machiavelli nel suo Principe, che tanta scuola ha fatto alla nostra classe politica, non basta più. Si chiedono soluzioni durature. L’elettore cerca questo e non altro. Oltre alla politica,  ci vuole una coscienza collettiva che non deve attendere solo  le normative o infrangere le regole. Scuotere gli animi a riconoscere un problema facendo pagare la busta, sembra l’unico modo di rapportarsi con l’utenza e  l’utenza capisce bene solo quando mette mano alla tasca.

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Tesò e amò




Tesoro e amore sono scappate dal vocabolario e sono sulla bocca degli innamorati e di tutti. Se vi trovate con amici o in comitiva, potete ascoltare con quanta enfasi si pronunciano. Le parole magiche oggi sono tesò e amò.
 Nomi confidenziali, che destano l’attenzione in chi si sente così nominato credendo di ricevere maggiore considerazione e affetto. Il tesò e amò non è rivolto solo alle persone che si amano, ma a tutti indistintamente: le amiche del cuore, gli amici, i clienti, i familiari. Tutti siamo potenziali tesori e amori per gli altri. Anzi, se le amiche vi chiamano per nome, potreste pensare di essere trascurate.
 Eppure il nome, se non lo storpiano, ha un suo suono che tra l’altro ci identifica e non c’è cosa più affettuosa di essere chiamati per nome. Nella pronuncia di quei due, tre pezzi di parola, ci siamo noi dentro e a volte ha il sapore della beffa come se, chi ci chiama, avesse poca considerazione di noi. I ragazzi continueranno a chiamarsi così, ma in altri rapporti tesò e amò hanno il sapore di effimera e fittizia relazione. Si può meglio bistrattare il prossimo, basta pronunciarle per stare tranquilli e dire magari quello che si direbbe a un nemico.
 E’ possibile che, dopo aver pronunciato le parole amò o tesò, si passi a dire il piacevole o disdicevole indistintamente, tanto ci si salva da tutto con l’affermazione d’esordio. Con la perdita del nome si sminuisce anche il valore della persona. Amore è una parola svuotata del suo contenuto così che, quando parla di sentimento, ormai non ci crede più nessuno.

Tesoro per definire una persona dal valore inestimabile, da quando  non si fanno più cacce e i pirati non solcano mari lontani, è stato un modo per riacciuffarla e darle lustro. Ma per due parole innalzate agli altari, altre ne hanno perso. Così le sentiamo per strada, a casa, a telefono, sempre in modo distratto e scherzoso, abituandoci così tanto che, se quelle stesse persone ci chiamassero per nome, non gli crederemmo. Dopo due minuti dal proferire "amò" può accadere di litigare e allora si passa velocemente dall'affettuosità alla parodia.
 I giovani ne fanno un abuso, tra loro è una sorta di codice, e forse l'uso dovrebbe relegarsi solo al loro mondo. Dobbiamo riscoprire il valore del nome a prescindere se vecchio o nuovo, bello o brutto da pronunciarsi. Il nome ci rappresenta e non può essere mai brutto. Le stesse sillabe e lettere di cui è formato, sono suoni a noi cari. Così, negli odierni discorsi non compare alcun Santo, sono tutti a riposo beatamente nelle loro teche. Questo permette di lasciare le persone senza dover dimenticare il loro nome o ricordare quello di turno, in quanto non nominandola, è come non volerla affermare.
 L'amò e il tesò passano ai nuovi destinatari, senza patemi o risvolti negativi: le persone cambiano, i nomi restano gli stessi. La moda ci indica il pensiero del tempo in cui viviamo, e le due parole pronunciate distrattamente ci uniformano, ci rendono indifferentemente uguali, facendoci perdere la bellezza di ognuno di noi: l'unicità. Abolire il nostro nome è come abolire noi stessi, ma tanto ci salvano i gruppi, che confermano, che se non sei con gli altri, non sei nessuno. Un gruppo, un numero, uno slogan, tutto meglio del nome. Confondersi tra gli altri è anche un po' ritrovarsi, rende meno vulnerabili e nasconde le proprie debolezze.


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Caro anno...


Ancora tu, appena nato, come accade ogni 365 giorni! Il passaggio nel lasciare un percorso e intraprenderne un altro si fa sentire. Tu arrivi sempre correndo, così che non abbiamo il tempo di capire il trapasso. Eccoti, vorremmo dirti i tanti propositi, ma il passaggio ci ha stancati e stiamo qui a osservarti, come se non ci toccasse ancora il fatto che passerai anche tu. Visto da qui, sembri lunghissimo, ma poi… Arriveremo a dicembre in un battibaleno. Com’è che da un certo punto in poi corri,non rispetti i tempi, e vai come un fulmine?Risultati immagini per il tempo in pittura
William Hogarth Time smoking a picture, metà XVIII sec.

Credo  dipenda da noi che ti cerchiamo per riporre in te speranze e azioni da sviluppare. Una volta, quando eravamo più giovani, ci lasciavamo trasportare dai giorni, in modo leggero, senza restarne schiacciati. Ora accade che ci sono da fare mille cose e temiamo di non farcela.  Inutile fare promesse, siamo i primi a non mantenerle. Anche tu non puoi farne, finiresti per non crederci. Percorrere i tuoi sentieri, a volte illuminati, a volte bui, è come inoltrarsi in un bosco. Quando arrivi abbiamo una visione rosea, ancora sconosciuta, poi, invece, ti riveli anche duro, pesante, difficile, a volte insostenibile. I giorni sono tanti, ma possono essere niente, ridursi a poca cosa, un vento che spazza via tutto. Con quello che ci portiamo addosso diventa sempre più difficile sostenere l’anno, tenere fede a quanto programmiamo, affidarci ai tuoi tempi, alla tua clemenza. Ti aspettiamo col nostro carico di pronostici, prendendo appuntamento col futuro per costruire altri percorsi. Ma ci allontani anche dal vecchio che temiamo di perdere per sempre. Diciamo che la vita è ora e il passato non ci tocca più. Ma siamo bugiardi con noi stessi, conosciamo il passato ma non il futuro, il nuovo che non abbiamo ancora.  Alla fine vogliamo da te il tempo che è in noi e a cui diamo vita noi stessi, ma che ci fa cambiare e le trasformazioni non si accettano volentieri. Cambia la nostra pelle e il nostro cuore, ma anche la mente e gli altri. Quello che chiamiamo cambiamento è la stessa vita che non si arresta mai, se lo facesse, non sarebbe più tale. La vita ci vive e ci fa rotolare avanti e noi ce la prendiamo con te che arrivi e spazzi via il vecchio. Più che un bidone per la raccolta, sei un contenitore infinito. A volte ci dai attimi altre volte eternità di buono e di cattivo, di bene e di male, ma anche questa è un’illusione: non sei tu che porti e prendi o togli ma siamo noi, in questa scansione che conteniamo, a procedere. Siamo noi che ti abbiamo dato vita e ora che hai un nome ci fai paura quando attraversi troppo velocemente, arrivi prepotentemente e inesorabilmente. Passerà anche questo tempo, ma è bene passarlo da svegli e col sorriso. Niente è per sempre e ogni giorno è importante con le sue piccole cose, che insieme formano gli anni. Il tempo non è fuori, ma dentro di noi e tu vieni a ricordarci a che punto siamo. Ma tutto dipende da quanta strada abbiamo fatto e come la abbiamo fatta. Vecchi e giovani è solo un modo per definire quello che viene prima e dopo e sappiamo che spesso non siamo così ordinati: possiamo fare cose giovani dopo tanto tempo e altre da vecchi ai primi anni. Siamo così, caro anno, caotici e paurosi, contraddittori ed eterni bambini. Fino a quando ti parleremo così, siamo ancora per la strada e mentre a volte abbiamo fretta di percorrerti, in altre non vorremmo mai arrivare. 

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