Come Vitangelo Moscarda


Metti che un giorno guardandoti allo specchio ti succeda quello che accadde a Vitangelo Moscarda, il protagonista di Uno nessuno centomila, romanzo del 1925 di Luigi Pirandello, che si sentì dire dalla moglie di avere il naso storto, fino a quel momento creduto dritto.


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Guardandosi meglio scopre altri difetti di cui non era a conoscenza.  Nota per la prima volta che il suo aspetto non era come credeva e che gli altri vedevano di lui quello che non pensava di essere. Si poneva  non solo un problema di vanità ma anche di identità, di chi fosse realmente: quello che vedevano gli altri o quello che sentiva di essere? Cade sotto i colpi di una critica dopo aver creduto per una vita di essere privo di difetti.  E’ come quelli che affermano “Ho sempre fatto così e continuerò a farlo” convinti di avere la certezza assoluta come Vitangelo aveva avuto fino a quel momento. Quella piccola osservazione lo scopre fragile e sconosciuto a se stesso. Spesso, più di quanto crediamo, prendiamo in giro proprio noi stessi. Vitangelo si guarda allo specchio, nelle varie parti del profilo e non può che arretrare davanti all’evidenza. Forse non si era mai guardato come la moglie lo aveva visto o era passato sul naso adunco facendo finta di sentirsi sicuro del suo profilo? O forse aveva per tanto tempo nascosto a se stesso volutamente la verità credendo che gli altri non la notassero? Era più importante essere quello che voleva o come gli altri, a sua insaputa, lo avevano sempre visto? Ed era sicuro della vista degli o anche loro erano stati approssimativi e poco oggettivi? E poi, di quale oggettività parliamo, di quella che vediamo noi o quella degli altri? Spesso siamo noi e spesso gli altri, i Vitangelo Moscarda, uomini sicuri della realtà che vedono, come lo sono gli altri della loro e da qui scaturiscono tante incomprensioni e approssimazioni. Con quanti Vitangelo Moscarda veniamo a contatto facendo noi la parte della moglie mentre loro sembra ci vedano per la prima volta? Le persone sono convinte di essere il meglio di se stesse, e solo dopo un confronto fanno i conti con quello che realmente sono. Persone imperfette, con qualche problema irrisolto e con la convinzione di stare nella posizione migliore. La scoperta di Vitangelo è percepire che gli altri non hanno il suo punto di vista e da qui ne nasce una crisi di identità. Non sa più chi è, per questo il titolo Uno nessuno centomila, e come lui anche noi cambiamo personalità continuamente, tanto da spaventarci quando gli altri non ci vedono come quelli  del giorno prima. I rapporti si caricano di ambiguità per difendersi da possibili cattiverie o per portare gli altri alle nostre conclusioni. Il rapportarsi agli altri non è  solo questione di onestà o verità, che talvolta variano con noi e in base  al punto da cui si vede. Molti si comportano con gli altri in modo non riconducibile a  quello che realmente sono, adottando strategie per preservarsi dal sopruso. La realtà non è oggettiva ma soggetta a cambiamenti e proiezioni quanti sono i punti di vista che la osservano. Il relativismo pirandelliano afferma che niente è come sembra e tutto cambia con il variare della prospettiva. Il fatto che la moglie dica  a Vitangelo di avere un naso  adunco quando anche lei non se n’era mai accorta nella loro vita coniugale, sottende anche a una sua leggerezza in tutto quel tempo in cui non è riuscita a scoprire il marito per come realmente era. Anche lei è sottoposta al continuo divenire della vita e, mentre prima non aveva fatto caso a quel  naso, ora non solo lo vede per la prima volta, ma glielo rinfaccia come se fosse una colpa del marito e non una sua indelicatezza. La nostra personalità varia come la nostra fisionomia: giorno per giorno. Come la pelle muta colore, spessore e trama, così anche la personalità. Quanti incontriamo che, da un giorno all’altro, riportano atteggiamenti nuovi facendoci credere quasi di essere noi persone strane. Un amico che cambia modi nei nostri confronti, un altro che prima ci evitava e poi ci tratta da amico, un altro che trova in noi cambiamenti  che non avevamo notato, sono la realtà “mobile” cui ogni giorno ci imbattiamo. I rapporti cambiano in base al tempo, alla forza con cui li imbastiamo. Non ci sono spiegazioni, sappiamo solo che quelle persone possono avere un effetto negativo su di noi e al loro cospetto ci sentiamo a disagio. Le relazioni vanno ridimensionate continuamente, discusse, riprese e quello che a volte crediamo possibile è solo un’illusione. Quante discussioni in nome della verità, della giustizia, della trasparenza, del merito. Tutto finto. Agiamo e parliamo in base alla nostra esperienza maturata che è in continuo divenire. Ecco allora che se un giorno notiamo nella nostra amica un neo che non c’era prima e glielo diciamo in segno della nostra amicizia, lei può prenderla come un’offesa. Dirà che siamo strane, che non siamo le solite, solo perché non accetta da noi quell’osservazione. Lo stesso accade  quando ci riferiscono sul nostro aspetto fisico e sulla nostra personalità. I contrasti nascono per credere di essere sempre gli stessi e  per gli altri che si arrogano il diritto di vederci diversi. Da questa idiosincrasia  oserei dire “relazionale” elaboriamo i nostri rapporti e in essi scorre la nostra vita. E se un giorno una persona ci sembra buona e in un altro cattiva, è solo perché noi stiamo guardando per la prima volta quella persona da quel punto di vista. Alla fine del romanzo Vitangelo Moscarda capisce che niente è fermo e tutto cambia, tutto prende forma da noi ed è bene vivere in queste continue trasformazioni che ci diamo:“ La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest'albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest'albero. Albero, nuvola, domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo » Le parole non bastano a definirci al cospetto degli altri, talvolta risultiamo sconosciuti perfino a noi stessi e molte relazioni non sono altro che continui errori, uno sull’altro che non ci fanno incontrare mai. Se conoscersi è un terno al lotto, figuriamoci pretendere di essere conosciuti  dagli altri. E se la ragione ci viene in aiuto per scoprirci meglio, dall’altra si fa avanti l’ego e poi l’inconscio, e poi l’orgoglio e ancora la vanità o la giustizia, la verità, la delusione che aggiustano il tiro e stirano il nostro essere. E continuando in questo barcamenarci non avremo mai rapporti veri, solo approssimativi, a volte sì a volte no, altalenanti, fatti di mezze verità, mezze paure, mezze ritrosie, incomprensioni. E’ il relazionarci che crea i presupposti per difenderci da tutte queste forme di vite sovrapposte che rappresentano uno scudo per pararci, non solo dagli altri, ma soprattutto da noi stessi che, a nostra volta, non saremmo niente se non avessimo il confronto con gli altri.

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Metti un libro in una barca



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Tra qualche anno Zuckerberg dovrà trovare un altro espediente per sfuggire alla noia del web che ci sta rimbecillendo tutti. Non tanto per il tempo che trascorriamo sui social, che non sono poi così da demonizzare, ma per quello che, al punto in cui siamo, dobbiamo svolgere. Prendi ieri sera. Tra lo scaricare materiale dalla posta elettronica di scuola, il visionare il sito dove appaiono notizie non comprese nella posta, tra lo scrivere una pagina di Blog, tra una lettura e l’altra, lavori didattici da preparare, rigorosamente a computer,  mi sono accorta stamattina di non aver aperto la mia posta personale. Ma il lavoro viene prima e leggere tutto ciò che arriva  è un dovere. Ma non finisce qui. Dopo mi viene voglia di leggere  alcuni giornali online e poi di controllare un sito e ancora una recensione, leggere parti di un’opera, sempre sul web, un passaggio nella biblioteca online  e tutto questo senza lo straccio di un foglio, sempre e solo con gli occhi a roteare su e giù. Vuoi mettere un libro, alleggerire la vista con i colori tenui della pagina e leggere con lentezza? Ma il tempo a disposizione è poco e, quando gli occhi non ce la fanno più, ormai è ora di andare a letto. E io, che volevo prendermi il mio tempo libero suonando un valzer di Chopin a pianoforte o leggendo un libro, devo soprassedere. Via dal computer ci salviamo, se diamo ancora valore  al tempo libero. Si dovrebbe compensare con tanto tempo da riempire come vogliamo quanto quello usato per stare a computer. E se Gramellini, dalla prima pagina del Corriere della Sera di oggi,  medita sul grano di saggezza nella follia dell’uomo che, avuto un incidente, era privo di documenti, non perché lasciati a casa, ma per non averne più, strappati negli anni ‘90 e ormai privo di identità, io anelo spesso a qualcosa di simile, come stendermi sul fasciame  della barca a leggere un libro, dondolata dalle onde  mentre  viaggio nella storia. Il legno, l’acqua e la cellulosa della carta. Già il fatto di stare a contatto con elementi naturali  ha la sua positività. E pensare che ogni lavoro implica un computer, su cui  lavorarci molte ore giorno, stare curvo tutto il tempo e arrugginire su di una poltrona. Che la digitalizzazione sia un modo per farci ritornare Primati? E mentre i nostri antenati si rannicchiavano sugli alberi, noi siamo sempre appallottolati sulle sedie. Stiamo assumendo facce pallide, visi appesi, posture strane, irrigiditi, contratti e doloranti. Tutti vorremmo ritornare, non dico agli amanuensi, ma a lavori dove abbia ancora un senso usare il termine umano, dove si esiga ancora il “cosa ne penso” e non attenermi a uno schema da compilare. Tutto è logica. Passare la giornata a digitare elenchi, fare previsioni, programmazioni, verbali, proiezioni è una vera noia. Siamo umani e il contatto con la natura è fondamentale. E se anche ci si salva dal computer per una volta, non sfuggi al telefonino, sempre lì con l’occhio vigile che sbircia tra gruppi, messaggi, foto, instagram, posta, meteo, whatsapp, varie. Mi cullo allora nella barca col libro, senza telefonino. Così come immagino di essere portata in un bosco dove regna il silenzio e purificarsi dai continui clic mentali. Capisco Mattia Pascal, menzionato ancora da  Gramellini nello stesso articolo che voleva gabbare tutti dopo la vincita a Montecarlo. Eppure quella che a lui sembrava una libertà, si mostrò essere poi un impedimento, quando si rese conto, in seguito a una rissa, che non poteva presentarsi in caserma per non avere i documenti, visto che al suo paese lo avevano dato per morto e fatto anche il funerale. Non avere identità fu peggio che averne una e non essere nessuno. Non si può sfuggire al mondo in cui viviamo. Dobbiamo imparare a convivere con la tecnologia. Come? Lasciando squillare il telefono o togliendo la suoneria al telefonino, e non stare lì come sentinelle di guardia, lasciare accumulare la posta, prendendo atto che essere tempestivi non ci farà guadagnare tempo, ma solo oberarci di continuo lavoro. Bisogna pur difendersi dall’Homo ciberneticus. Eppure quando si scriveva con la penna, si imbucava la lettera, si affidava un testo alla macchina fotocopiatrice era tutto più piacevole. Lavorava la fantasia, il gusto, la creatività, il pensiero, dovendo decidere e scegliere. In quest’appiattimento totale dimenticheremo la calligrafia, avremo un pensiero ristretto visto che tutto è standard: per scrivere, modelli prestampati, per consegnare, grandi case di distribuzione, per ogni azione c’è un tutorial che insegna e devi pur guardare per apprendere, e altro tempo fermi davanti allo schermo. Ormai siamo rimasti noi con la schermata del computer e mentre ci sembra di avere in mondo in mano, abbiamo perso il nostro. Vuoi mettere, leggere un libro nella barca al posto di impallidire davanti al computer? Dopo ogni immersione digitale troviamo qualcosa di umano da fare, solo così ritorniamo alla nostra dimensione vera.

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Essere o avere?





Per spiegare il verbo avere, spesso, ci si serve del verbo possedere, ma chi possiede dipende dagli altri e dalle cose. Essere è prima di avere, ha la precedenza anche nelle spiegazioni. Con l’avere cadiamo nella trappola del possedere dimenticando l’essere. Se poi si vogliono possedere anche le persone, il guaio è bell’e fatto! Non possiamo essere padroni degli altri, possiamo solo amarli e possedere è come perderli. Chi si sente posseduto, tutto quello che cercherà di fare sarà scappare, sottrarsi. Un essere non libero non potrà mai scegliere. Essere significa sentire chi sono, prendere atto di cosa voglio e cosa mi prefiggo. Conoscere le mie deficienze, capacità, pregi, difetti, conoscermi così bene che da me e solo da me deriva ogni azione voluta. Essere è conoscersi, amarsi, stimarsi. Essere e avere: l’uno è libero e l’altro lega a sé e blocca, l’uno afferma e l’altro nega la propria personalità, l’uno necessita di tutto l’animo, l’altro lo evita per non comprenderlo. Nessuno insegna ad avere se prima non ha insegnato a essere. I sentimenti vanno con l’essere, anche quelli più a braccetto con l’avere, come l’avarizia. Tutto dipende dalla struttura base del nostro io, della nostra persona. Confondiamo e scambiamo chi siamo con quello che possediamo. E i sentimenti non si chiedono. Come faccio a esigere affetto, amore, amicizia, comprensione se questo sentimento non arriva deliberatamente dagli altri? I nostri vuoti restano e non spetta agli altri compensarli. E nessun avere lo colmerà così come non deriva dagli altri né dai loro sentimenti, ma da noi che, quando siamo in sintonia con noi stessi, emaniamo una luce che attira gli altri. E sembrerà che ci vogliano bene: hanno solo bisogno della nostra luce per riempire se stessi. Così anche noi. Molti credono che gli altri siano i responsabili della loro infelicità, mentre sono solo il loro specchio in cui leggono chi sono. Quando smettiamo di coltivare il nostro giardino interiore, per stanchezza, per credere di non farcela, ripieghiamo sull’avere. Diventiamo smodatamente ambiziosi, speriamo in un nostro brillare al di sopra degli altri e in un compensare la vita che ci sembra avara con noi. E stupidamente la stessa cosa viene fatta dagli altri. Tutti vogliono, ma quanti cercano di essere pieni e completi di se stessi? La principale preoccupazione è di colmare bisogni, di mettere un bel po’ da parte, di riempire conti, di riempire case, di avere oggetti, di essere padroni di molte cose mentre dovremmo esserlo solo di noi stessi.  Il vero brillare è in quello che siamo, quando ci adoperiamo nel nostro quotidiano. L’avere dà solo una falsa sicurezza mentre il vuoto è nell’essere  e calcolando il valore degli averi, definiamo chi siamo. Il problema è esserci, e sentirsi  e viversi e a volte quello che abbiamo è solo un impedimento a tutto questo. E se l’essere è pieno, non è incontentabile, non pretende, non è arrogante, non fa finta, non si schiera col più forte per sentirsi sicuro, non trascorre la sua vita nell’inerzia, agisce e vive con entusiasmo, non ha bisogno di possedere, perché è. Oggi vogliamo tutto senza limiti, lo vediamo intorno a noi, ce lo spiega la moderna filosofia, lo stesso mondo non ha più confini, anzi è diventato un piccolo villaggio e tra poco avremo bisogno di espanderlo, magari nello spazio. L’uomo deve estendersi, è continuamente desiderante, consapevole del suo essere finito. Nessuno, oggi si identifica in un Socrate, per esempio, a filosofare su domande della vita odierna, passando così la sua giornata. Il tempo va impiegato col lavoro, le banche chiedono, la Borsa  oscilla, le multinazionali fremono, gli Stati fanno guerre. Anche il pensiero corre con le tante cose che ci sovrastano. Quel modello di uomo oggi è inconcepibile e poi non ce n’é bisogno, le risposte le abbiamo tutte, ce le dà Google, i dati li seleziona e li convoglia Zuckerberg, le aziende si servono dei dati, tutto in funzione dell’avere. L’essere è sorpassato, siamo oltre i suoi confini, oggi misuriamo l’avere, sulla cui legge si fonda la società. La vera violenza odierna è il consumismo, una guerra nuova. Eppure lo stesso Socrate sottendeva al mondo moderno quando affermava che magari bastasse un solletico per riempirsi lo stomaco, lasciando intendere che ci sono bisogni che si colmano attraverso la socialità ed ogni persona è fatta di essere e di avere. Deve pur cibarsi, vestirsi, vivere e ciò comporta uno scambio. La verità è che è difficile dosare l’essere e l’avere, non c’è più la formazione dell’essere per capire che, non mettendo freni all’avere, si mette in discussione anche la consistenza dell’io che alla naturalità preferisce le leggi della società che lo corrompono. E siamo in piena filosofia Rousseauiana. Serve un parametro indispensabile cui attenersi, per non  andare oltre. E’ tutto l’essere che si è perso a favore dell’avere e in questo stato è sempre più difficile parlare di valori. Secondo Hegel l’illimitatezza è una sorta di supplizio, come insegnano  Prometeo, Sisifo, Tantalo, dove l’eterno ripetersi delle azioni infligge dolore. Anche noi oggi siamo in tempo di supplizi, niente basta, tutto vogliamo. Il supplizio è nell’incessante desiderio. Abbiamo perso i concetti di verità, di legge, di sacro, E’ il tempo edipico, in cui tutto è possibile, un tempo “incestuoso”, secondo Lacan, dell’impossibile a oltranza, del concesso sempre, del dovuto e del tutto. Secondo Erich Fromm, autore di Essere o avere? lo scopo supremo dell’esistenza è la piena crescita di se stessi e dei propri simili; due negazioni: rinunciare al proprio narcisismo, alle illusioni; rinunciare a tutte le forme di avere;  attività positive quali il rispetto di ogni forma di vita, dare e condividere, lo sviluppo della propria capacità di amare e di pensare in maniera critica, lo sviluppo della propria fantasia (come anticipazione di possibilità concrete), conoscere se stessi, essere presenti, far propria una libertà che non sia arbitrarietà, essere consapevoli che nessuno e nulla fuori di noi può dare significato alla nostra vita e che male e distruttività sono conseguenze necessarie del fallimento del nostro proposito di crescere”.

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Se il grande fratello è uno di noi






Siamo nell'era dell'immagine e della fotomania, diventata la nostra principale
preoccupazione. 

La foto è un “must”, niente passa sotto i nostri occhi che non sia catturato per sempre, anche se, una volta scattata, passa in cartelle strapiene e chissà se mai capiterà di rivederla. Le foto si moltiplicano a vista d’occhio e l’ultima scalza quelle precedenti. Visitiamo i luoghi per fotografarli, blocchiamo i momenti per riprenderli, sempre con lo scatto pronto. A tutti capita di inviare un selfie e dimenticare che, con la foto, inviamo una serie di notizie di noi  cui non diamo peso. Con l’immagine viaggiano dettagli, riscontri, bugie, incantesimi. Spesso anche un innocuo (così pare) selfie diventa una sorta di documento per dimostrare, provare, controllare, documentare. Per quanto sia un facile click, poi ne derivano conseguenze a volte spiacevoli. Un’amica mi ha confidato quello che le è accaduto. Una sua conoscente è andata a casa sua per un caffè. Mentre lei va a prendere dei biscotti, l’altra scatta quattro foto alla sua casa, a quella parte di salone dove erano sedute. Uno scatto per immortalare due stupendi candelabri, una statua di Capodimonte, un mobile del ‘700 e delle tende sceniche. Poi mostra alla mia amica le foto di cui si compiace. Il motivo, le spiega, è quello di prendere idee per arredare la sua casa mettendo i mobili secondo il suo schema. Ci sarebbe da chiarire, a questo punto, che scattare immagini senza consenso, non è lecito. Quanto meno si dovrebbe chiedere il permesso. E non ci si può nemmeno comportare come se fossimo su di un set a riprendere le scene come se stessimo girando un film. Sembra quasi che viviamo per immortalare attimi. “Aspetta, riprendo questo” oppure “Fermati così, sei magnifica” come un rallentatore che fagocita il tempo. E anche l’immagine più spettacolare, in luoghi privati, non è un motivo valido per appropriarsene, col timore di non sapere se mai si vedrà un’altra scena simile.  Ritornando all’episodio, qualche tempo dopo, la mia amica incontrò per strada una conoscente che la fermò e con grande enfasi si congratulava con lei per la bella casa. Le piacevano quei candelabri e quel mobile del ʿ700, per non parlare delle tende. La mia amica andava a ritroso con la mente per capire. Con tutta la buona volontà non ricordò di averla mai ospitata a casa.  La situazione si protrasse ancora quando, dopo alcuni giorni, davanti alla scuola della figlia, una collega, parlandole della bella statuina di Capodimonte, le chiese se fosse d’accordo a prestargliela per il giorno della sua cena di beneficenza, per sistemarla sul mobile delle portate per il buffet. Parlava come se avesse sempre saputo che quella statuina fosse lì, normale chiedergliela e quasi arrogante nel caso in cui si fosse sottratta alla richiesta. Non ci capiva niente. La gente parlava di casa sua senza visitarla. Era veramente strano. Poi, come un’illuminazione, si ricordò degli scatti di qualche tempo addietro, immagini che  sicuramente avevano fatto  un giro ragguardevole e, indispettita,  invitò la conoscente a bere qualcosa al bar. Quella mattina, Giulia non era proprio in forma e lei cominciò a tirare foto, qualcuna anche insieme, davanti al caffè, al mare, ai fiori, per immortalare il momento come piaceva fare all’altra. Quando Giulia si è poi vista su fb con le occhiaie, i capelli non perfettamente in ordine, la carnagione di un colore sbiadito, si è arrabbiata dicendole che la aveva postata senza chiederle il permesso. Ed è stato allora che anche Giulia ha capito, pur non menzionando mai delle immagini di casa sua, facendo buon viso a cattivo gioco.
Attraverso i selfie e immagini varie passano notizie che violano la privacy, sempre che ne abbiamo ancora una. Dovremmo mettere giù il cellulare ed evitare scatti inutili o fatti solo per gonfiare la nostra vanità e l’ostentazione di mostrare quello che di più bello c’è o quello che a tutti i costi vogliamo che gli altri vedano.  Così come accadde pure che la colf di altri amici  fotografasse non solo la casa, ma anche gli abiti della padrona, uno a uno,  per inviarli alla figlia e con lei discutere dei gusti, dei modelli e di quello che aveva la padrona. E ancora, una paziente che andava spesso allo studio del suo medico, fotografò tutte le piante del suo giardino, e poi strappava i rami dai vasi per piantarli a casa sua, lasciando che i rami rinsecchissero assottigliando la chioma. Si venne a sapere da un’altra paziente che a sua volta l’aveva ripresa. E ancora le  videochiamate a casa di ospiti, che invadono in piena norma la privacy, senza porsi il problema che in quell’immagine entreranno i padroni, il loro ambiente, la loro vita. Forse anche qui bisognerebbe chiedere il permesso e non credere che, possedendo lo strumento ormai a portata di tutti, ci si possa arrogare il diritto di usarlo indiscriminatamente. Bisogna mettere un cartello davanti alla porta, accanto a quella del nome, dove si vieti, a chi entra, di non usare in casa altrui la tecnologia che porta al seguito, previo avviso e consenso da parte dei padroni di casa. Niente è normale se non si vuole e non tutto è concesso anche quello che sembra stupido e scontato.

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L'autismo


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L’autismo rientra nei Disturbi pervasivi dello sviluppo (DPS) e comprende più di una tipologia, tutti sotto la denominazione dei Disturbi dello spettro autistico per descrivere i diversi casi di gravità in cui la malattia può presentarsi.  I casi sono in aumento tanto da parlare di un’epidemia. Tuttavia l’aumento è spiegato con l’abbassamento della soglia d’età entro cui è diagnosticato, contrariamente a prima che avveniva con molto ritardo. 
I sintomi  si avvertono nei primi tre anni di vita e spesso si fa fatica a capire la sua comparsa. Le cause sono di tipo neurobiologico, costituzionali, psicoambientali, ma in che percentuali  queste tre parti interagiscano tra loro, non è chiaro. Ci si accorge della malattia molto lentamente ma in modo inequivocabile. Può manifestarsi con l’isolamento, con una mancata reazione a uno stimolo esterno, con atteggiamenti opposti a quanto richiesto, con difficoltà a esprimersi. L’ambito cui essa attiene è quello sociale, comunicativo, comportamentale. Nei casi più gravi essa è associata a disturbi  del sonno, all’epilessia e a ritardi mentali. I casi presentano caratteristiche diverse pur mantenendo aspetti simili, per cui può presentarsi sotto varie forme che vanno da casi di lieve entità ad altri invalidanti. Prima degli anni ‘90 si sviluppava un caso su 10.000, dopo, 60 casi su 10.000. L’incidenza maggiore è maschile con un rapporto di 4 maschi per ogni bambina.  Dal 2007  i casi sono saliti a un bambino ogni 150 nati. L’eziologia non è chiara. Per la componente genetica,  tra i fattori che la determinano, ci sono possibili infezioni materne durante la gravidanza, alterazioni genetiche dovute a farmaci, depressione immunologica. Sono ipotesi non convalidate ma che entrano in gioco con una  compromissione cerebrale dovuta a crescita anomala di strutture in relazione alle sinapsi e alla  deficienza dei neurotrasmettitori, risposta immunitaria inefficace e disturbi del metabolismo. Queste rilevazioni non bastano a definire la malattia per trovare delle soluzioni definitive con  un protocollo da adottare, così si cerca di studiare i vari casi con soluzioni singole. Si è temuto che fossero i vaccini a influire sull’incidenza, un’ipotesi sollevata da uno studio inglese nel 1998 su The Lancet e poi ritrattata. Si è anche ipotizzato, tra le possibili cause, negli Stati Uniti, l’aumento delle madri che partoriscono in ritardo.  E’ una malattia invalidante che mette l’individuo in un mondo silenzioso in cui si misura con se stesso e non è portato alla vita sociale. Nei casi meno gravi i portatori di questa malattia possono avere una vita sufficientemente autonoma riuscendo a gestirsi, ma in quelli più eclatanti hanno bisogno di supporto continuo. E’ proprio la complessità della malattia a portare complicazioni sociali a carico della scuola e della famiglia. L’inserimento del soggetto autistico a scuola rappresenta uno stimolo anche per gli altri che devono affinare le capacità relazionali, l’osservazione e il controllo per poter interagire con lui. Pur in uno scambio circoscritto e monitorato, la relazione scolastica affina tecniche e modalità per autogestirsi meglio. Il peso grava soprattutto sulle famiglie, assorbite completamente, privandole dello svolgimento di altre attività. L’autistico non è autonomo, ha bisogno di cure e di atteggiamenti affettuosi, di serenità e tempo. Sembra strano ma avvertono notevolmente gli stati d’animo degli altri e si chiudono ulteriormente quando non sentono corrispondenza con chi li circonda.
Grande importanza per lui è la madre, con la quale instaura un rapporto dipendente. Per certi versi si è giunti a credere che le madri possano essere proprio la causa scatenante della malattia,  così come sono le uniche a poter decifrare il figlio. Come dire che sono l’alfa e l’omega della situazione. Esse sono state definite “madri frigorifero”, per relazionarsi con lui con insensibilità, freddezza e razionalità, creando nel piccolo una chiusura in se stesso. Ma poi sarebbero sempre le madri, come afferma Mary Ainswort, a saperli gestire, le uniche a entrare in relazione con i figli e a comprenderli in tutti i loro bisogni ed espressioni.  Alcuni hanno  spiccate capacità analitiche risultando veloci in matematica.  Tutte le spiegazioni che ci diamo non sono mai quelle definitive, mancano riferimenti scientifici validi in una malattia che abbraccia più aspetti. L’autismo dà notevoli  implicazioni sociali per quanto riguarda la comunicazione e l’interazione sociale. Oltre alla comprensione è difficile l’interpretazione del loro mondo chiuso. Bisogna lasciare l’autistico al suo mondo e a noi il compito di entrarci e non volere a tutti i costi farlo uscire dal suo e introdurlo nel nostro per credere questa la normalità. Per l’autistico il suo mondo è quello a sua misura e non potrebbe averne un altro. Il paradosso è che al distacco che provano per la vita, oppongono una sensibilità fuori dal comune.
 Si spera quanto prima di intervenire sul nascere della malattia come unico modo per ridurre le complicazioni e avere maggiori possibilità di guarigione.  E quanto più tempo la ricerca impiegherà per trovare le cause, tanto più si daranno soluzioni approssimative e fuorvianti. L’unica medicina a disposizione oggi, oltre a quelle del caso, è l’amore, l’unico che riesca a scalfire il mondo freddo degli autistici. Non bisogna mai stancarsi di accudirli e vivere quel loro mondo chiuso come una scoperta continua.

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La letterina




Una volta, a scuola, i bambini preparavano la famosa letterina a mamma e papà,  un biglietto augurale come voleva la  buona educazione per le Sante Feste di Natale e Pasqua. La letterina aveva uno schema  ed esordiva con “Cari genitori” e finiva “dal tuo/a e il nome del figlio”.  
Era una letterina preziosa con la prima pagina piena di glitter, pulcini, uova colorate, casette immerse in  un prato fiorito, con il campanile  e due campane ben in vista. Il foglio custodito nella busta veniva letto  il giorno di festa dopo il pranzo  ai genitori e agli ospiti. Era come un debutto, quando il bambino saliva sulla sedia, perché tutti potessero vederlo, a leggere quei quattro pensierini che aveva partorito, corretti e riveduti. E tra  i parenti c’era chi sorrideva, chi si commuoveva lasciando spuntare una lacrima, di solito le nonne. La mamma mostrava un’espressione di orgoglio a vedere la sua creatura capace di produrre un testo, mentre il papà,  ironico, si aspettava che da un momento all’altro sbagliasse, sciogliendosi solo alla fine in un sorriso. E anche se leggeva balbettando, se perdeva il segno, se ripeteva due volte lo stesso rigo, l’applauso era assicurato, con bacio finale da parte di tutti. Come premio qualche soldino da riporre nel salvadanaio, frutto del lavoro scolastico di una settimana. La tradizione permane ancora, ma sono cambiate tante cose. Le letterine moderne sono essenziali, poche righe per ringraziare  i genitori di quello che fanno, di quello che comprano, delle cure nei loro confronti. I bambini fanno  richieste, sottolineano i momenti di affetto ricevuti. Una volta si scriveva solo di questo, delle promesse da mantenere, e si disegnava accuratamente la pagina iniziale, colorando come un’opera d’arte. La fretta oggi vuole fogli scaricati dal web per poi colorarli e spesso spetta alle insegnanti rifinirli. I bambini  stentano a imparare le poesie, per loro  è troppo stare seduti a memorizzare, come se fosse una fatica di Ercole. Sì, perché all’interno, oltre al testo da leggere, c’è anche la poesia da declamare.  Ai piccoli solo il compito di uno scritto: quattro frasi che dicano qualcosa. Ne esce fuori un biglietto che va continuamente aggiustato. Scrivono poco e non sempre in modo autonomo per non avere molte cose da dire. Sono molto più diretti di una volta, senza freni inibitori e chiari su quanto si aspettano. Oggi è un bel rompicapo far scrivere la mitica letterina, tra genitori separati, papà o mamme lontani, altri passati ad altra vita… E poi ci sono i patrigni, i compagni,  il dividersi ora con un genitore ora con l’altro. Situazioni familiari delicate per cui scrivere  “Cari genitori” sembra una mancanza di rispetto dell’insegnante che, pur conoscendo la situazione, insiste. Ma se vogliamo  “Cari genitori” è scritto in riferimento alla nascita del bambino che avviene per forza da due persone anche se strada facendo cambiano le cose. Bisogna usare delicatezza, lasciare le loro espressioni senza correggerle, non tanto per l’aspetto formale, quanto per il contenuto.  C’è chi non vuole che si parli del papà per tutto il male fatto alla mamma e a quel punto non uscirà mai fuori il “caro papà”, o chi non avendolo,  al solo pensiero,  va in ansia. Vale anche per la mamma. La letterina non è un modo tanto per scrivere qualcosa. In queste occasioni escono fuori delle frasi e considerazioni che non uscirebbero in altri casi.  Una volta una bambina di otto anni scrisse in una letterina di  Natale “ Cari genitori, se non la smettete di litigare, preparo la valigia e me ne vado”. Quando le feci notare che non era una letterina ma un’avvertenza per i suoi, lei mi rispose che voleva proprio quello. Un altro bambino chiedeva alla mamma di non aver paura della pioggia e che da grande  avrebbe fatto il medico per curarla. Notai solo in seguito che nei giorni di pioggia il bambino si assentava. Un’altra bimba rifiutava il vero padre che restava fuori per lunghi periodi di navigazione e si era affezionata a uno zio, vicino di casa, cui lesse la letterina, ostinandosi a crederlo suo padre, con grande rammarico di quello vero, sentendosi colpevole per le continue  assenze. La letterina è un modo o un pretesto per dire le cose liberamente e l’unico scritto che resta ancora con penna e carta e nelle forme più creative nel mondo digitale. Ed è un momento di ascolto per gli adulti, uno dei pochi, sempre che i biglietti augurali vengano poi letti e non solo sbirciati velocemente, senza più quel rito di salire sulla sedia a declamare mentre gli altri ascoltano, riducendolo a un insignificante momento.


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