Conchiglie





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In giornate di pioggia o di vento, con l’estate che volge al termine, quando il mare trascina a riva i suoi inquilini, troviamo seminate nella sabbia, se non interrate, le conchiglie. Hanno l’aria di essersi salvate dalla bufera, come rigurgiti di Nettuno quando rivolta i fondali. Nelle giornate assolate non è facile scoprire le conchiglie portate dalle correnti, ma in giorni come questi sono sparse sulla battigia. Sono aggrappate alla sabbia, un po’ arrabbiate per essere gettate a riva dal mare, come un padre snaturato. Si scoprono agli occhi di chi cerca i suoni e le meraviglie dell’acqua. Ce ne sono di tutte le forme e le grandezze, l’acqua le ha levigate e scolpite rendendole preziose. Portano sulle loro case raggi, code, puntini, stelle e corolle arrotolate. Hanno dentro il rumore e se appoggiate alle orecchie risuonano del luogo di provenienza. Ed è come se parlassero lì sulla sabbia mentre si asciugano al sole, ancora cariche di sale, ghirigori, intarsi e volute, bisbigliano tra loro, raccontano le paure, la durata della traversata e l’epilogo. Piangono le altre che nel viaggio si sono perse e non hanno avuto la giusta sepoltura, compagne di sempre e ora chissà... Quei puntini, quelle striature ora luminose, ora ruvide, quei contorni, come se li avesse disegnati un pittore, invitano al tocco delle dita  seguendo i bordi delle sagome. Di cosa sono capaci i molluschi! Ora vedi un sottilissimo ventaglio, ora  un capitello corinzio, o pezzi di pasta arrotolata, corpi densi scavati all’interno. Cento forme, tutte stupende che stordiscono e confondono. Sono protette da case più belle che sicure, costruite  da precisi ricamatori e tenaci artigiani! Aspettano che una mano le raccolga nel palmo e le  analizzi, le ascolti, le esamini. Esempi di  riservatezza, si piegano su se stesse a cantare storie di vita. Forse raccontano di un viaggio, come uno dei tanti per mare, magari avranno avuto la stessa odissea e ora sono stanche, vogliono accoglienza senza troppe spiegazioni, né inquisizioni di sorta. Se solo sapessimo decifrare il cupo suono che producono, capiremmo che si sono perdute, sono deluse. Avrebbero voluto spiagge diverse, accoglienze migliori, comprensione, ma a volte siamo sconosciuti anche sulla stessa riva.

Se le infili una dopo l’altra e le poni a bracciale, il suono prodotto ti riporta l’acqua, il suo gioco di onde, con la spuma, la finta rincorsa a riva. Le conchiglie ci parlano del mare anche in inverno, nelle ciotole di casa in cui le abbiamo riposte, con il loro inconfondibile  odore  di salsedine, e di ognuna ricordiamo il luogo e l’ora in cui le abbiamo raccolte. Vivono così in eterno chiudendo nei loro gusci la vita passata. E poi non sono mai sole, portano amici con loro: una stella, un cavalluccio, un cannolicchio, una tellina, un granchio. I bambini sanno come giocarci con le palette nei secchielli pieni d’acqua prendendone le misure come fossero architetti, controllandone lo spessore e la consistenza prima delle capriole. Le conchiglie raccontano delle stagioni tra gli scogli e il fondale, della loro vita silenziosa e, dopo l’abbandono dei padroni, restano vuote, sole, come tanta chincaglieria in bellavista: aspettano di scrollarsi di dosso la grande fatica. Ora abitano terre diverse, non belle come quelle di provenienza, ma finalmente una  tregua alla tempesta ormai alle spalle.

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Il ponte


La parola riscoperta di oggi è  ponte.  Prima di Genova la usavamo per unire, per creare alleanze, amicizie, ma ci siamo ricreduti da quando ha assunto il valore di rompere, crollare, cedere. Andiamo in giro con gli occhi all’insù per controllare i punti critici dei cavalcavia che facciano pensare a un cedimento imminente.Risultati immagini per il ponte di san luis rey
Brooklyn, London Bridge, Golden Gate Bridge, che destano meraviglia, sono passati in secondo piano, il primato del ponte nero spetta all’Italia, dopo il disastro di Genova, diventando il simbolo dell’Italia che cede. Sto lavorando sulla mia paura dell’aereo da quando la terraferma non mi sembra più così sicura. E se i ponti crollano, ci salva il volo! Al di là delle responsabilità, dei progetti, della manutenzione, delle tonnellate di merci che ogni giorno vi transitano, i ponti, bisogna ricordare, sono elementi antropici, creati dall’uomo e pertanto imperfetti anche quando sembrano opere eccezionali. Dimentichiamo che la terra trema, che la pioggia bagna e lede il ferro, che il vento rode, che il freddo e il gelo corrodono, che la salsedine attacca e consuma. Un ponte, se volessimo dargli una vita pari alla nostra, superata una certa età dovrebbe andare giù ed essere ricostruito. Quando accade una tragedia, prima o poi i colpevoli e gli irresponsabili, anche se si dividono le colpe, con i tempi lunghi della giustizia, trovano i modi per superarle, ormai i morti non ritornano più ed è bene salvare la pelle di chi vive. Affidiamo troppe cose al tempo che invece non può mantenere. Il cemento si sfalda, il ferro si arrugginisce, le tensioni dei tiranti allentano, il peso carica. Ma affidiamo al tempo anche l’oblìo, le promesse, le decisioni, le nuove costruzioni, il miglioramento quando non si traduce in un’altra irresponsabilità. E’ come la nostra vita. Non è che arrivati a una certa età anche se ti curi, puoi  reputarti sano come un pesce come se avessi 20 anni. Sempre quella sarà l’età, magari tenuta bene, ma questo non toglie che possa essere attaccata dai mali della vecchiaia mentre  la gioventù si allontana sempre più. Potrai spaccare le pietre, mangiare senza freno, dormire pochissimo, fare innumerevoli sforzi? No! Anche dopo il “tagliando” devi rispettare la tua età. Così le opere pubbliche. Dopo gli anni di vita consentiti dovrebbero  essere rifatte con criterio senza alcun risparmio. Non siamo bravi come i nostri Romani, maestri di strutture pubbliche che ancora oggi resistono. Gli acquedotti romani, secondo Christer Bruun, professore di storia romana, lingua e letteratura latina all’Università di Toronto, nel libro Roma Imperiale a cura di Elio Lo Cascio, possono aggiungersi alle sette meraviglie del mondo. Oggi si salvano solo le piramidi e gli acquedotti, che non ne facevano parte. In più avevano un’importanza sociale per l’approvvigionamento idrico e sono la testimonianza del genio romano. E’ anche vero che tutte le opere romane rimaste intatte fino ad oggi non hanno avuto l’uso massiccio di quelle moderne. I nostri viadotti sopportano pesi al limite del possibile ed è proprio l’usura a metterli in pericolo. Sulle nostre autostrade viaggiano più merci che auto e persone, ad ogni passo ci sono cantieri aperti a tempo indeterminato mentre persistono cavalcavia insicuri, ponti pericolanti, corsie con manto dissestato, piloni non più agili come una volta, tratti di autostrade non a  norma di sicurezza. Con la dovuta manutenzione sicuramente i pericoli sarebbero stati presi in considerazione e trovate le soluzioni più appropriate. Nel tempo cambia la morfologia del terreno, l’acqua avrà trovato corsi diversi, le intemperie avranno fatto il loro lavoro. Un ponte che crolla porta via con sé le nostre sicurezze e quello che fino a poco tempo prima univa, ora è più distante. Si passa dalla costernazione, alla paura, al perdere la fiducia in chi dovrebbe monitorare e non lo ha fatto per malafede o per troppa superficialità. Morire da un momento all’altro o salvarsi per una frazione di secondo, sono questi i paradossi del ponte. Nel romanzo di Thornton Wilder, Il ponte di San Luis Rey, si narra la caduta del ponte sulle Ande di San Louis Rey nel 1714, che metteva in comunicazione Lima, capitale del Perù, con Cuzco. Muoiono 5 persone e frate Ginepro fa appello alla fede cercando di comprendere quale sia stato il motivo di quella coincidenza: il fatto che siano morte proprio quelle persone e non altre. Crede che ci debba essere una motivazione, qualcosa che le accomuni. E così comincia a scavare nelle vite delle vittime alla ricerca di un elemento che motivi il loro sacrificio. Esclude aprioristicamente la fatalità, mentre è convinto che Dio abbia avuto un suo disegno e che pertanto può essere dimostrato solo con una fede cieca. La sua religione sembra più una scienza. Cerca di analizzare quello che invece non può essere analizzato e il male, che spazza via quelle persone, resta alla fine un mistero. Morire in pochi secondi o salvarsi per un’altra manciata, è questo il rompicapo. Il mistero di Dio che dispensa alle sue creature mali per salvarle da altro che non rientra nella nostra dimensione, così crede frate Ginepro. Ma se quel ponte non fosse caduto, quelle vittime avrebbero avuto altro tempo prima di perdere la vita. A questo punto il ponte diventa strumento di Dio per attuare i suoi piani come se noi non avessimo la nostra responsabilità, che spesso confondiamo con la volontà del Creatore. E se i ponti cominciano a crollare, stando alla teoria di frate Ginepro, ci sono in atto molti piani. Forse Dio non si prende cura della stupidità di chi dovrebbe vigilare e tutelare i cittadini, visto che sarà la stessa stupidità a pagare, quando, capovolgendo le situazioni, chi doveva agire e non lo ha fatto diventa capro espiatorio di tutto la situazione provocata. Quando lo Stato non dà sicurezza, perde la fiducia dei suoi cittadini. La paura porta a evitare i ponti,  quando ci sono strade alternative. Spostarsi porta in sé un pericolo e mai come oggi il progresso ci sembra così fragile, rivela i suoi limiti, e mentre prima poteva  semplificarci la vita, oggi  comincia a rendercela un inferno.

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Il prato in fondo al mare


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Da quando nel lontano anno 2000 lessi il libro di Stanislao Nievo, Il prato in fondo al mare, Premio Selezione Campiello nel 1975, andare per mare mi riporta sempre alle sue pagine. Ricordo  quello che lessi e mai il mare mi è parso così pieno di misteri, vita e storie da rivelare. Tratta della scomparsa del vascello Ercole che nel 1861 partì  da Palermo diretto a Napoli, e su cui viaggiava il famoso prozio Ippolito Nievo. Stanislao, che voleva tenersi lontano dalla scrittura per evitare confronti col famoso parente, fu costretto a prendere la penna proprio per scrivere della sua misteriosa scomparsa, con la speranza di capire cosa accadde in quella notte in cui il mare tirò a fondo il vascello con su lo zio e il mistero che custodiva. A tale proposito intraprese numerose ricerche e, solo quando le notizie divennero interessanti, ne fece argomento per un libro. Dopo una lunga fase d’indagini, l’autore si decise a scendere in immersione col sommergibile PC8 nelle acque tra Capri e Punta Campanella, luogo presunto dell’incidente. Le pagine in cui descrive la vita del fondale, le impressioni che ne ricava nello scoprire un mondo a noi interdetto, la flora e la fauna come bellezza  sommersa, mi hanno riportato al Banco di Santa Croce, il “prato” odierno in fondo al mare, a 300 metri davanti lo stabilimento balneare “Bikini”, in località Vico Equense, poco dopo Capo d’Orlando, al confine tra Castellammare di Stabia e Vico Equense.  C’è qui un’area protetta con una legge per la sua tutela che risale al 1993, netta e circoscritta di una secca formata da 7 formazioni cosiddette panettoni, la cui parte più alta si trova a 10 metri di profondità, mentre le pareti  sprofondano fino a 50-60 metri. Un magico mondo di vita nel mare, ricco di flora e fauna inimmaginabile. Mi chiedo cosa sarebbe stato capace di scrivere Stanislao Nievo se si fosse allontanato dal suo fondale di pertinenza, dove pose campo per le indagini, e si fosse diretto al Banco di Santa Croce, con quale cura avrebbe descritto osservando dall’oblò del suo mezzo marino quel mondo incantato in cui era finito. Stanislao è stato un autore all’altezza del prozio e le sue pagine descrittive del fondale marino sono tra le più belle mai lette. Il sommergibile  gli permise di scoprire cose che non avrebbe potuto conoscere altrimenti, avvicinandosi ai reperti che lo interessavano, ma scoprendo allo stesso tempo  le profondità marine, ricche di pesci in mezzo ai quali si inoltrava come un ospite curioso. Mi chiedevo se non fosse il caso di sperimentare qualcosa del genere per incontri ravvicinati con il Banco di Santa Croce, come la meraviglia del Golfo e più specificamente del mare di Vico, per raccontare come la vita  nasce anche in situazioni impossibili. Un fantastico scenario che non si sa come sia venuto su tenendo conto che a poca distanza c’ è la foce del fiume Sarno che versa a mare le sue acque malsane, oltre all’inquinamento del mare che non è può essere più nascosto. In barba a queste condizioni, pesci e piante si sono uniti in consorzio per darci una lezione e farci sorprendere di come ci si possa rinnovare e affermarsi pure quando la vita sembra impossibile. Spesso del Banco di Santa Croce se ne sente parlare per la pesca di frodo e per le immersioni, due aspetti che non ci illustrano quello che vive in quel fondale ma dell’unico uso che se ne fa. Chiedendo in giro del sito, adulti e ragazzi hanno risposto con una smorfia di meraviglia di chi non conosce. Qualcuno, amante della pesca, mi ha guardato per dire “Cosa vai dicendo?” Poi dopo quello che gli ho raccontato, stupito mi ha risposto: “Abbiamo tutto questo e non ne sapevo nulla?” Molti non sono a conoscenza, né della posizione del sito,  né delle specie che vi proliferano, né del  Comune cui appartiene. Ma prima di essere tutelato il sito va conosciuto. Solo quello che si conosce si può apprezzare e di seguito preservare. Un’area marina così ricca deve farci riflettere come faccia questo arcipelago di 7 panettoni, come vengono denominati, a pullulare di vita con tante specie di pesci e di piante. Per chi ha avuto modo di vedere da vicino con le immersioni, avrà potuto godere di una vista unica di gorgonie rosse e gialle, spugne di colore arancio intorno a cui girano banchi di pesci, gruppi di tutte le forme e colori, come chi conosce la strada e quello che ha da fare. Il silenzio avvolge i loro movimenti e la luce, che nei primi dieci metri cede il passo al buio, rende, oltre questa profondità, tutto uno splendore. La conformazione del panettone più alto si apre a un passaggio verticale nella roccia che fa da via tra una parte e l’altra e in cui si avventurano pesci grandi e piccoli, tra anfratti e caverne, grotte e rocce scivolose o ricche di vegetazione. Vederli sfrecciare confondendosi tra i colori accesi delle gorgonie, tra le immancabili bollicine di chi si avvicina a riprenderli unito al blu marino come diffusore di quel silenzio in cui vagano, rende chiaro quanto sia unico quello che capita di vedere ai nostri occhi. E poi le cernie, le alici, le ricciole, lucide con le branchie a mo’ di corolle tese, diventano come i personaggi di una fiaba mentre cerchiamo di confrontarle con quelle che portiamo in tavola e che mai ci sono state presentate a quel modo. E poi i tonni, pesci luna che non temono le incursioni di quanti vanno a importunarli, loro, da padroni, sfrecciano sicuri come nababbi incuranti dei picchi di inflazione e i cali di borsa. Sono pieni di sé, ma in cuor loro sanno che da un momento all’altro un visitatore potrebbe togliergli la vita e, anche in attesa di questa morte prematura, vogliono vivere il loro giorno più bello. Dovremmo prendere esempio: le azioni dei pesci, che ricamano traiettorie in mezzo a stupefacenti gorgonie, sono incessanti, come se il movimento continuo li rendesse invulnerabili, come se la vita gli chiedesse di non fermarsi ma continuare il ciclo indaffarato e operoso dal quale dipende quello degli altri. Ognuno vive per sé in mezzo agli altri e  per tutti quanti  gli altri. Una catena più forte di ogni avversità. Lì sotto non c’è tempo, solo vita, si perde ogni concezione e congettura, quando davanti si ha un mondo come in un’ampolla santa, e dove vengono meno anche le domande: come può accadere proprio qui, in questo golfo bistrattato, dove le battaglie per  l’inquinamento sono all’ordine del giorno, dove tutto è così difficile da mantenere puro e pulito, che esista questo incantesimo? L’unica risposta possibile è la vita che nasce anche quando non ce l’ aspettiamo e a dispetto di quello che le facciamo. Lei vince sempre. Qui il mare ha trovato la forza di rinnovarsi, un suo habitat ex novo, ha messo mano a una costruzione fenomenale e ci insegna che l’equilibrio è vitale. Stanislao Nievo avrebbe materiale per un libro se fosse ancora con noi, sarebbe certamente attratto dalla perfezione in un mare imperfetto. Questa volta giungerebbe alla genesi della sua formazione, alla bellezza della vita nel mettere in atto le sue azioni disperate pur di non venire meno. Avrebbe osservato come se dovesse trarre la storia di ogni sua parte e da questo la storia del nostro mare. Qui ci sono molti “perché” da chiedersi e molte cose da capire. Invece di speculare dovremmo rendere noto il sito, lo sforzo dovrebbe essere volto alla conoscenza di ogni sua parte. Ci servirebbe un sommergibile PC8 per conoscere il prezioso fondale, che non porta un relitto, ma lo splendore della natura. Non possiamo affidare la conoscenza solo a quei pochi che vanno in immersione, ma farne apprezzare la bellezza a molti, soprattutto ai giovani, per incuriosirli e portarli ad amare il territorio. Poterci girare intorno approfondendo flora e fauna, potrebbe essere un bel modo di tutelare insieme. Dovremmo parlare del Banco di Santa Croce per le sue meraviglie, i suoi colori, la vita silenziosa e piena di luce. Potrebbe diventare un laboratorio facendo moltiplicare le sue specie e arricchire il mare di cui si nutre. Quanti ignorano la vita che scorre sotto le loro barche, che la pesca da quelle parti è come un sacrilegio, che quello scampolo d’acqua non è una normale porzione di mare. E credere di poter fare scempio del sito con la stupida idea che a mare siamo liberi. Se il mare è di tutti allora dovremmo sapere cosa sono le gorgonie, o un’aquila di mare o le spugne o il gattuccio,  quali specie di pesci vivono e quali quelli che mancano. Chi conosce, rispetta. Tutelare è prima ancora scoprire ed educare ai beni del territorio. E questo ne ha veramente tanti, dai monti al mare.

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Un’orchestra di voci e suoni per gli auguri



Stamattina mi mancano tanto gli auguri affettuosi di mia madre, di mia nonna, di mia zia Tonia e  di mio nonno. I loro auguri erano i migliori mai avuti.
Mia nonna mi faceva gli auguri portandomi la colazione a letto, comprandomi un vestito nuovo, andando a passeggio con lei, dolci e  pranzo speciale. Si ricordava chi mi faceva gli auguri e chi mancava, come se fossi stata un’adulta più che una bambina e cominciava a brontolare chiedendosene il motivo. Mi manca il suo passo mentre saliva le scale con un vassoio pieno di ogni bene facendo tintinnare il servizio buono di tazze, piattini e bicchieri. Cosa non c’era su quel vassoio. Latte appena munto, pane con miele, dolce, frutta tagliata e secca, sfogliatella. In un angolo del vassoio appoggiava sempre un biglietto imbustato con su rose giganti e dietro la scritta.” Buon Onomastico alla mia Filomena dalla nonna e dal nonno”. Mi chiedevo se ce ne fosse bisogno visto che lei era lì con me e mi stava dimostrando quello che aveva segnato a penna. Ma era fatta così. Senza biglietto, per lei, non c’era festeggiamento. Da qualche parte ne ho ancora, con quelle rose enormi di vari colori e forme. Si sedeva con me dopo aver aperto le finestre della stanza e mi cominciava a raccontare la giornata di lavoro svolto. Mangiavamo insieme, dando ospitalità anche ai cani che entravano dietro di lei. Ero una principessa nel letto matrimoniale, alto da terra più di un metro, con 4 comodi materassi. Mi diceva auguri cantando e schioccandomi due baci sulle guance come due panettoni. Lo schiocco mi rombava nelle orecchie per mezza giornata. Lì sedute facevamo festa, mangiando, ridendo, cantando e giocherellando con i cani che la accompagnavano sempre.  Sento ancora il profumo della sua pelle, il modo di porgere le labbra, come mi stringeva. Quando non ne potevo più, mi tiravo sotto il lenzuolo per un altro riposino. Lei socchiudeva gli scuri delle finestre e mi diceva di stare ancora un po’ mentre si lavava e vestiva. Poi sarebbe venuta a fare altrettanto con me per uscire. Andavamo a prendere gli auguri altrove e a darne. Il nonno era meno plateale, più sobrio e silenzioso. Ma quando saliva, prendeva il mio viso con le sue mani enormi e piene di ferite e mi dava due baci affettuosi. Poi mi chiedeva se volevo scendere e io mi tuffavo tra le sue braccia mentre mi stringeva forte. L’unica persona che mi faceva sentire su una torre. Stretta dal suo abbraccio sarei andata alla fine del mondo. Giù in cucina mi metteva seduta accanto al tavolo e lo osservavo mentre faceva colazione. Era la volta di pane e pomodorini con origano, olio e sale, pezzi di formaggio, marmellata e fette biscottate, latte e dolci. Ovviamente piluccavo, avendo già fatto colazione, giocavo con i cani e da quel momento il giorno era mio. Il nonno cucinava per me dopo aver sentito le mie pretese. Già il fatto che cucinasse era una festa. Nonna non era alla sua altezza in cucina ed era un privilegio averlo ai fornelli. Per l’occasione non mancava il pollo ruspante, pasta imbottita e tante cose che non ce la farei a ricordare. Il suo bene lo dispensava in ogni sua azione ed io lo sentivo attraverso la fiducia che mi dava, l’essere orgoglioso di me, il proteggermi con fatti e parole e dandomi sempre il suo sorriso. Un uomo così grande e così buono.
Gli auguri di mia madre erano rumorosi. Partiva col portarmi il caffè a letto, con le sue strofe di canzoni o indovinelli e poesie, conosciute a memoria e che, immancabilmente, mettendo la testa fuori dal cuscino, mi facevano ridere e aprivo gli occhi. Poi la aiutavo a declamare la poesia o a cantare la canzone e quello che mi faceva morire era che, quando mi baciava quasi mi soffocava. Io a dire basta e  lei a rispondere: “Ma chi ti darà più i miei baci? Vuoi mettere il mio affetto? Nemmeno i figli lo faranno, solo la mamma, solo la mamma!” Su quel solo la mamma insisteva, e ci faceva un poema, ricamava parole, portava esempi, modi di dire, fatti e io la ascoltavo come Dante con Virgilio. Per quella giornata le attenzioni erano tante. Si arrabbiava se non mangiavo le cose che proponeva, poi mi vedeva sempre pallida e mi rimpinzava come un uovo. Per la giornata ero dispensata dalle faccende di casa, potevo uscire, accompagnata da lei, avevo un regalo e un pranzo d’onore. Gli onomastici più belli sono stati così e non li ricordo per l’abbondanza quanto per l’affetto vero, forse un affetto come si dava una volta che molti credono eccessivo e cerimonioso, invece era vero e sentito. Oggi, nelle nostre fughe, anche l’affetto è dimezzato. La formalità è diventata essenziale, ridotta, tutti si limitano al pensiero. Forse nei cambi di generazioni si perdono azioni che valevano molto. Mia zia Tonia, per esempio, quando era in vita, mi telefonava ad ogni onomastico anche quando era ammalata e avrei dovuto farle io visita. Mi manifestava il suo affetto, la sua stima, la sua felicità nell’avere questa nipote.  Mi diceva sempre: ”Mi basta sentire che tu stia bene. Riguardati e pensa alla tua vita che nessuno pensa per te. Sono felice di chiamarti e se non lo faccio sto male!” Questo era amore, quello che si prova e si dimostra senza fare conti di alcun genere. Lei mi ha insegnato questo: che il bene non è razionale e se vuoi bene agisci sempre per primo. Tutti dovremmo sperimentare questo. E poi una telefonata sempre gioiosa con sorriso e parole di conforto quando era lei ad averne bisogno. Mi ha insegnato che mentre doniamo agli altri traiamo il nostro conforto, nel dare, abbiamo, nell’amare, riceviamo, nell’esserci, ci siamo. Quattro figure che hanno dato luce alla mia vita. Stamattina, appena mi sono svegliata, non sapevo con chi mi trovavo, se tra le poesie di mamma e le sue prediche o le tenerezze di mia nonna, se tra le braccia forti di mio nonno o con mia zia che mi raccontava, tra una risata e l’altra, le storie di vita. Quando hai un’orchestra  di voci e suoni che nuotano nella mente, come fai a non aprire gli occhi consapevole che sia un giorno buono?

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Il croccante




Il croccante è il gelato con la stecca ripieno di cioccolato, caramella mou e amarena, nella parte centrale, immerso in una vaniglia e ricoperto di una sfoglia di cioccolato e granella. Tirandolo fuori dall’involucro sono rimasta delusa: piccolo, con la granella rada e senza amarena, con una sottilissima sfoglia di cioccolato. Era una vita che non lo mangiavo, scandiva le mie estati di una volta. Quando ero ragazza era tutta un’altra cosa. Nei pomeriggi assolati, quando non bastava una pennichella per riprendersi dalla calura, ciò che tirava su era un buon gelato. Io e le mie sorelle prendevamo tutti i nostri spiccioli, li mettevano insieme e andavamo a comprare i gelati all’insaputa di mamma. Le mie sorelle preferivano: una il cornetto e l’altra il cuor di fragola. Accovacciate sui nostri letti sembravamo le chiocce a covare uova. Anche col gelato c’era da fare un buon lavoro e si finiva quando in bocca arrivava il sapore di legno dello stecco e non c’era più niente da tirare via. Poi, non soddisfatte, ripetevamo la stessa scena di prima, contando  altri spiccioli e andando una seconda volta a comprarne. Cosa eccezionale, mentre nei giochi litigavamo, il gelato metteva tutte d’accordo, ci rendeva complici, docili, pur in età diverse. Alla fine, ancora con residui di crema e cioccolato agli angoli della bocca, attendevamo di mangiare il secondo. E se mamma ci chiedeva per quale motivo stessimo così assorte, avevamo la bontà di non risponderle. Abbassavamo la testa per non farci cogliere in flagrante visto che ancora ci asciugavamo con le mani. Una di noi aspettava dietro la porta l’altra che arrivava. Lei non doveva sapere per vari motivi. Primo, mia sorella la piccola era grassottella e la sua dieta vedeva pochi dolci e gelati; secondo, avrei preso una bella ramanzina visto che ero la più grande e su di me ricadevano le responsabilità delle altre due; terzo, non volevamo, una volta scoperte, non poterne mangiare per un po’. Eravamo brave a non farci sorprendere. A volte accadeva che mamma, ignara dei nostri gelati appena mangiati, faceva esplodere la sua voglia andando giù e comprandone di tutti i tipi con grande stupore della salumiera che non si spiegava l’acquisto di tanti gelati a più riprese.  Poi mentre mangiavamo, ridevamo a crepapelle per aver ingannato mamma che non sapeva stessimo al terzo. E quando ci riportava le parole di Maria la salumiera, noi la guardavamo come se stesse raccontando cose dell’altro mondo. Ognuna le rispondeva: “Ma quando?”. E non trovando riscontro in quello che diceva, tutto sfumava. Per noi la salumiera stava invecchiando e s’inventava le cose. Spesso le nostre sedute col gelato diventavano vere e proprie riunioni che sfociavano in altri giochi. E in quel contare, controllare le uscite, mangiare, felici di stare insieme, c’era tutto il nostro mondo di bambine in crescita. Altre volte mamma ne faceva provviste e io sapendo che nel freezer c’era un pacco dei miei croccanti, non ci mettevo molto a svuotarlo. A quel punto lei si arrabbiava e finivano i gelati per un lungo periodo. Oggi, quando l’ho tirato fuori dal freezer, l’ho trovato spelacchiato di granella e la delusione è stata grande. La memoria è venuta in soccorso a portarmi quello della mia adolescenza, più ricco e gustoso, con tutte le sceneggiate che facevamo per procurarcelo. Era divertente mangiarlo insieme nella nostra stanza, in silenzio e come in adorazione. Il momento più irresistibile era quando, chi finiva per prima andava a stuzzicare l’altra per averne ancora un po’. La si imprecava, fingendo di piangere fino a quando, più per non sentire i suoi lamenti che per compassione, l’altra cedeva. E allora c’era quella che si lamentava di averne mangiato meno e quella che sapendo di averne avuto di più, faceva finta di stare male per togliersi l’ombra dell’usurpatrice del gelato altrui. Al momento della riunione mia sorella chiudeva la cagnolina fuori la porta della stanza,  senza che la piccola opponesse resistenza, ben sapendo che, se avesse fatto le sue rimostranze, avrebbe perso l’uscita serale. Mia sorella, che era la sua padroncina, l’aveva addestrata anche in quella situazione. Come cambia il croccante così tutte le cose della vita, e al ricco gelato di una volta si oppone quello di oggi, che dopo averlo mangiato in 4 bocconi, ti senti insoddisfatta e preoccupata di aver rovinato la dieta, mentre quelli della nostra infanzia avevano un sapore più intenso fatto di piacere nell’assaporare senza fretta e senza seguire alcuna dieta, condividendo il caldo, il mare, il sonno e i giochi.  

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Io mi prendo cura



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Vi è mai capitato di osservare come le persone hanno cura delle loro cose? Da questa rilevazione emergono elementi per comprendere quanto amore una persona porta dentro. Questa parola, di cui ci riempiamo la bocca, non è un carico di baci o di abbracci, ma una luce che illumina la vita. L’amore che mettiamo nel prenderci cura di una piantina sarà la stessa che dispensiamo al nostro cucciolo o alla persona amata. Conosco persone che fanno appassire ogni cosa passi sotto mano: gli oggetti come le persone. Mantenere pulita la casa, riordinare cassetti, far sbocciare un rametto che sembrava avvizzito, curare un figlio aiutandolo a crescere, dare una mano a un amico, sono azioni che possono apparire molto dissimili tra loro ma che hanno tutte la stessa fonte: prendersi cura che è l’opposto di dire  “me ne frego”. Di solito facciamo una selezione  delle cose di cui occuparci e quelle di cui fregarcene, e anche senza distinzione netta, ci interessiamo solo di quello che ci porta un tornaconto. Se il nostro interruttore è posto su “on”, questa selezione non potrà mai esistere e mai ci freghiamo di niente, così come se siamo in posizione “off”, in qualsiasi circostanza non siamo amorevoli. E’ un “modus vivendi” che ci prende completamente. Definisce il nostro essere, caratterizza il bene di cui siamo forniti. C’era un uomo, quando ero ragazza, che non lavava mai il suo cane, nemmeno se si rotolava nel fango per spulciarsi. A vederlo quel cane faceva male: spelacchiato, zoppicante, un occhio semiaperto, lento nell’incedere, con lo sguardo assente. Il suo padrone esigeva, però, che accorresse sempre al suo richiamo. E il cane correva. Si catapultava a casa solo a sentire il suo fischio. Ma la sua dedizione non era corrisposta. Il padrone continuò a trattarlo senza prendersi cura di lui.  Ma a pensarci bene aveva lo stesso atteggiamento per la sua auto. Se il finestrino cadeva, lui inseriva un tappetto all’interno, ma non lo aggiustava. Con la casa faceva allo stesso modo, lasciandola nell’incuria totale. Tutto quello che aveva era in uno stato pietoso. Solo col tempo ho capito la sua aridità, il motivo per cui vivesse da solo, come mai nessuno andasse a trovarlo, ammantandosi di un alone di mistero per il suo distacco dal mondo. Lo stesso valeva per il suo campicello: quattro piante stecchite che non potava, non dissodava né metteva in ordine i solchi. La desolazione avvolgeva tutte le cose intorno a lui. Credo che in quell’uomo la luce fosse del tutto spenta. Al contrario conosco persone che illuminano intorno tutto quello che capita sotto mano: hanno attenzioni per se stessi come per la vicina di casa, il conoscente che incontrano tutte le mattine, il gattino entrato nel loro cancello e qualsiasi altra cosa che irrompa nella loro vita. Irradiano una luce con la quale accendono, si occupano e si preoccupano del prossimo, delle persone vicine, intorno e dappertutto. Non è questione di tempo per fare le cose, ma di atteggiamento, di predisposizione, di indole, di vita che si è disposti a vivere e a dare. Crediamo che dando luce a tutte le cose perdiamo la nostra, ma chi dona luce viene a sua volta illuminato. Molti vanno a risparmio, si limitano, non agiscono, non si impegnano, non producono, non sono stimolati e se si chiede loro  il motivo di questa apatia, rispondono che non vale la pena sbattersi per il mondo, che tanto ognuno pensa per sé, che la vita è breve e del “doman non c’è certezza” come diceva Lorenzo il Magnifico. E’ questa la filosofia del “me ne frego”, “non è un mio problema, che siano gli altri a pensarci”. Quando fate amicizia, rendetevi conto delle persone, quanta cura hanno per la loro vita, quanta ne mettono nelle cose, controllate i loro giardini se sono curati, se lavano le loro auto, se si occupano dei bambini, se giocano con loro, se si preoccupano, se aggiustano una sedia, un tetto, come si comportano con se stessi, da questo capirete la quantità di luce che emettono. E se per caso risultassero “insolventi con l’Enel” e quindi messi al buio, fate qualcosa per loro. In qualche ganglio della loro vita si annida un corto circuito che ha fatto perdere loro l’illuminazione. Sono persone demotivate, cosiddetti “santi che non fanno miracoli”, perché hanno perso quella luce, forse per averne data tanta senza riceverne, per  non credere che la gioia di vivere possa essere contagiosa. Non credono più nel miracolo della vita, nella sua bellezza, e diventano da rose a cactus nel deserto. Queste persone fanno terra bruciata intorno, fanno in modo che gli altri le tengano alla larga, e continuano così a vivere con la convinzione di bastare a se stessi. Ma quale vita si può condurre se non si condividono con gli altri le febbri e i collassi che la sua luce produce? Quando abbiamo cura della vita, avvengono miracoli come quando coltiviamo un campo rimasto incolto per anni. Sulle prime non si sa da dove cominciare o cosa fare. Poi basta rivoltare le zolle, la fatica più dura, per capire che il grosso è fatto e si può anche seminare. Dopo, quando mangiamo i frutti del lavoro svolto, non ricorderemo più la fatica fatta per condurre il campo a quei risultati, ma il piacere di mangiare tante cose buone. Leggevo le pagine di un libro dove una donna aveva fatto della sua casa, semplice e umile, una reggia di bellezza e di comodità,  la stessa cura che aveva per le persone intorno. Leggendo queste pagine ho percepito che è quello il modo di rendere amore verso ogni cosa, non ce n’è un altro o uno diverso per ogni azione. L’amore che mettiamo nell’annaffiare i fiori la mattina sarà lo stesso che doniamo alla persona amata, all’amica, alla mamma, anche se a noi sembrano tanti aspetti diversi l’uno dall’altro e che teniamo in una scala di valori dal più al meno importante. L’amore è quella forza, impegno che profondiamo nelle nostre azioni, l’interesse che abbiamo per la vita che scorre accanto, l’educazione e il rispetto reciproco che ci doniamo. Mi giungono, a tale proposito, i versi di The Waste Land,  La terra desolata del 1922 di Thomas Stearns Eliot, uno dei massimi poeti del Novecento europeo e americano, personalità di spicco del modernismo, per quel senso di insoddisfazione da cui siamo afflitti nel mondo moderno e che fa spegnere quella luce di cui siamo portatori. Il poemetto traccia la crisi della cultura occidentale come perdita della fertilità naturale, e l’autore formula un itinerario per uscirne. Di solito, afferma, a una speranza frustrata, un desiderio insoddisfatto, al mondo che appare arido, segue un momento interiore, un ascolto che richiede anche un cambio di registro. Secondo l’autore: "E’ questo il modo in cui finisce il mondo/ non già con uno schianto/ ma con un piagnucolio”, un’insoddisfazione perenne che ci allontana e ci isola, e dove mancanza di fede e spiritualità inaridiscono le esperienze. La nostra luce non ha una batteria autonoma ma siamo intercollegati: l’uno fornisce energia all’altro, se lo dimentichiamo, se ci illudiamo di bastare a noi stessi, di essere tanti mondi distanti l’uno dall’altro anni luce, la nostra esistenza  diventa arida e vuota.

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Liberi di leggere






In estate c’è chi legge di più e chi invece non riesce a prendere un libro. Chi si prepara la lunga pila come una montagna da scalare e chi per leggerne uno impiega tutta una stagione. Che l’estate sia un periodo di relax è risaputo, ma che questo coincida con la lettura non sempre è vero. Eppure non mancano i buoni propositi quando giriamo per le librerie alla ricerca del testo giusto, attirati dalle copertine, dall’argomento, dall’autore per poi, una volta comprati, metterli in bella vista sotto l’ombrellone. Siamo ben motivati e convinti di avere un’ora per cominciare l’impresa tra mille distrazioni, richiami, chiacchiere. Spesso passano giorni prima di aprire un libro nuovo, sono tante le cose a cui dare precedenza. Ci vuole una buona dose di concentrazione in mezzo al caos per leggere. Se succede, gli altri ci guardano come alieni, noi immersi nelle pagine, magari a sorridere o a corrucciarci, allontanandoci mentalmente da tutto quanto ci gira intorno. Sempre preferibile il libro al telefonino che ormai rappresenta un’appendice della mano. Nessuno più lo molla, sono più i momenti di connessione che di posizione off. La lettura mantiene allenata la mente, immerge in mondi lontani, come andare in vacanza stando nello stesso posto. Porta in luoghi e stagioni diverse, età giovanili o senili, con argomenti nuovi, situazioni mai lette o del tutto sconosciute. E quando si esce dalle pagine, è come tornare da un viaggio restando nello stesso posto. Questo effetto è garantito solo a chi la lettura la prende come un esercizio continuo, mentre saltuariamente non darà gli stessi effetti. Chi non è abituato a leggere, già alle prime pagine avvertirà come una delle fatiche di Ercole e troverà sempre tanti pretesti per evitarlo, quasi come quando si ara un campo e mi vengono in mente i versi dell’indovinello veronese: Se pareva boves, alba pratalia araba, albo versorio teneba, et negro semen seminaba: “Teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati, e un bianco aratro teneva, e un nero seme seminava”, il più antico testo in lingua romanza e uno dei documenti di nascita della lingua volgare. L’indovinello sottende l’atto dello scrivere, ma vedo che nella stessa situazione ci si trova chi non legge mai. La fatica di leggere è, per chi non è avvezzo, simile a quella di arare. Ci sono persone che non riescono a tenere aperto un libro, che non si concentrano, non entrano nella storia, e fanno fatica a rappresentarsi il contenuto. Il segreto per leggere è scoprire letture che fanno per noi, che sentiamo possano piacere. Si può andare a fiuto o a caso, secondo la necessità e il gusto così come attirati dalla curiosità. Se un buon libro può essere sostituito da un buon amico, ne vale la pena, altrimenti meglio leggere che è l’arte del relazionarsi, del frequentare gente senza muoversi, dell’apprendere e aggiornarsi. Quando diciamo leggere non intendiamo  guardare le parole nel loro ordine, ma farlo secondo i molteplici piani che il testo ci offre e soprattutto non porsi davanti alla lettura col pregiudizio. Non si leggono libri solo per trovarci dentro idee consone alle nostre, così come non ci si confronta solo con le persone che pensano come noi. Sono quelle che pensano diversamente da noi ad esercitare un lavoro più laborioso, fornendoci opinioni e riflessioni mai conosciute prima. Il pregiudizio inficia il contenuto e tutto il resto. Bisogna essere liberi per leggere secondo l’idea di chi parla e porci in atteggiamento di ascolto e non di avversione per principio. Man mano che la lettura procede, si aprono in noi dei nuovi contesti, nuove domande, e di conseguenza si va poi alla ricerca delle risposte. A lettura completa, procedendo allo sfoltimento di quello che è sovrabbondante, essenziale e non quello che volevamo dire noi, di quello che realmente è stato detto e non riuscivamo a farlo nostro perché diverso dalla realtà e soprattutto dalla nostra esperienza, resta l’essenza del libro che ci ritornerà nel tempo e in varie occasioni. Un buon libro matura con noi, è come un seme che cresce, mette radici  dà i suoi frutti. Ci ritornano le frasi, le parole, le immagini e tutta la nostra fantasia messa in moto per rappresentarcelo. Può essere una metafora, una visione, un aspetto che ci ha colpito che congiunto al nostro pensiero allarga gli orizzonti. Questo processo avviene lentamente. La lettura è un pretesto per scavare in noi e conoscerci meglio, scandagliare i nostri sentimenti, i pensieri rispetto agli eventi e ai fatti che accadono nella vita. E’ un fondamentale esercizio di confronto col quale ci mondiamo da tutto quello che può essere zavorra e appesantisce concezioni e visioni di vita. E’ l’unico modo per accendere pensieri e azioni, un carburante pulito per incentivare, creare, riflettere. La natura poi concilia la lettura e leggere un libro distesi sotto un albero, al fresco, pronti per i nostri voli, è un’immagine che prendo a prestito dai versi delle Bucoliche di Virgilio:“Tityre tu patulae, recubans sub tegmine fagi, silvestrem tenui musam meditaris avena”. Titiro lì modulava i versi con un esile flauto, mentre io creo immagini nate dalla lettura all’ombra di un ampio faggio. E se invece fosse in spiaggia, sotto l’ombrellone con granellini di sabbia che si appiccicano alle dita rendendole attaccaticce, senza farci caso per come si è immersi nella storia, produrrebbe lo stesso effetto benefico. Il libro è un percorso: una pagina, mezza, due o dieci per volta non contano, vale lo sforzo di incamminarsi come con un amico. Leggere non ha età né stagioni, né divieti, e in estate ha un fascino maggiore per sentirci più liberi. Potremmo quasi sconfiggere l’ansia da telefonino mantenendo in una mano il libro e nell’altra il nostro nemico numero uno e chissà che un buon libro non vinca la mania di connettersi continuamente. Ogni tanto chiudere la comunicazione col mondo per aprire quella interiore potrebbe pareggiare i conti, se non vogliamo che il telefonino diventi il nostro “grande fratello”.Virginia Woolf diceva:” L’unico consiglio che una persona può dare a un’altra sulla lettura è di non accettare consigli, di seguire il proprio istinto, di usare la propria testa, di arrivare alle proprie conclusioni”.


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Un'altra estate


In estate mai perdere il ritmo!
Mantenere lo stesso standard dell’inverno anche se la sveglia suona più tardi. Il rischio è trovarsi nel pieno gorgo della noia, quando, venuta a mancare la nostra routine, non sappiamo cosa fare. Il riposo è la parola d’ordine, che può produrre effetti strani e calarci nella più profonda incapacità di godere il tempo senza impegni di lavoro. Molti fanno progetti strani, insoliti, altri vogliono fermarsi, altri ancora promettono di fare l’impossibile. Poi, con tutti i buoni propositi, si finisce  in nuovi e strani ritmi come dormire poco e male, saltare i pasti, raffreddarsi, beccarsi il colpo della strega, curare le punture degli insetti, far fronte a un’orticaria. Sì, in estate  facciamo tutto tranne quello che vogliamo. Gli amici, che dovrebbero accompagnarci nei giorni di relax, hanno altri impegni o vanno lontano, i figli costringono a orari a loro vantaggio e ci accorgiamo di prendere  nuove abitudini che non avevamo in inverno. L’estate è sempre diversa, soprattutto è ingestibile. Dipendiamo dal tempo, dall’umore, dal benessere psicofisico, dagli altri. E’ come chiedere la luna mentre il mondo ci resta appiccicato e non possiamo prendere in considerazione i nostri bisogni. E’ un male anche aspettarsi troppo, o fare progetti credendo possano andare a buon fine. Basterebbe non essere legati a orari, avere un po’ di gente intorno, ma non troppa, vivere di più all’aria aperta e non farsi problemi, essere flessibili, forse più accomodanti, e mettere giù il dito che molto spesso puntiamo contro gli altri. Cerchiamo gli amici di sempre,quelli che ci sopportano o ci conoscono bene, il divertimento, le serate in compagnia come se, facendo il pieno di quello che non possiamo fare in un altro periodo, stessimo tranquilli e soddisfatti della nostra vacanza. A tirarci in impaccio ci pensano gli insetti che si nutrono di noi, il mare mai pulito quanto vogliamo, le scottature, le congestioni, l’insonnia, le provviste, il gelato serale, i parenti che ci fanno visita, gli amici che partono. Una stagione attiva quanto mai, per niente serena, né tranquilla. Così il libro da leggere attende, l’abbronzatura stenta, il  caldo ci opprime, la pigrizia ci prende e non sappiamo più se siamo ammalati o siamo gli stessi di quando avevamo i nostri ritmi. Dovremmo fare vacanze a piccoli sorsi durante tutto l’anno. E pensare che in inverno rimandiamo tutto all’estate quando ci promettiamo di fare grandi cose, così da mantenere alte le aspettative e sopravvivere alle giornate buie e corte. E quando arriva l’attesa estate non vogliamo altro che dare sfogo ai nostri progetti. L’ingiustizia poi è  una stagione calda di pochi mesi e un inverno lungo. Se almeno avessimo stagioni  di pari durata, sarebbe già diverso. In tre mesi vogliamo concentrare l’impossibile e si finisce per avere risultati inconcludenti. Alla fine le giornate indimenticabili sono quelle all’aria aperta col frinire dei grilli e delle cicale e il ronzare delle api, con fiori e verde che invade i sentieri e le colline, con i nostri giardini ricchi di aiuole ben curate o orti dove raccogliere frutta e verdura. Le giornate  afose  ci impediscono di pensare, i pasti saltano per mancanza di appetito, qualche volta  il menù ammette il gelato  a pranzo come premio o dieta improvvisata. L’estate è seguire il piacere di non stressarci, spesso controcorrente, come salmoni risalendo il fiume. Il cosiddetto perdere tempo in cose da nulla, in contrattempi non è poi un fatto grave. E’ il corpo che ce lo chiede, stanco di essere svegliato dalle suonerie, di sentire i colleghi, di mangiare sempre al solito orario, di non potersi permettere di fantasticare, concentrati sul da farsi, con sorrisi sempre tirati, arrabbiati, pensierosi. E’ tempo di guardare il cielo e rendersi conto di quante nuvole ci sono, come cambiano le foglie sugli alberi o notare le sfumature  del mare con occhio insolito. L’estate è guardare le persone senza la fretta dell’abitudine e del dovere, ma scoprire le loro espressioni, i segni del tempo che passa, il bisogno di ascoltarsi. L’estate è il nostro tempo che trascorre inesorabilmente e non dobbiamo dargli troppe incombenze o esigere molto, solo viverlo lentamente per ricaricarci, lasciando che i pensieri vaghino e trovino un nuovo assetto. Dobbiamo imparare ad ascoltare il corpo che manda segnali inequivocabili di ciò che abbiamo bisogno. Esso non dimentica, tutto passa addosso a questo miscuglio di sangue e pelle e tutto segna, annota, resta dentro come i cerchi di linfa all’interno di un albero. Metterci in suo ascolto potrebbe essere il modo più semplice di capire cosa vogliamo.  Bisogna trascorrere l’estate come un tempo ordinario, ma nuovo e più disteso. Anche questo è   tempo che passa e  non torna più. Dovrebbe essere un tempo vuoto, straordinario ma  che riempiamo per renderlo normale, incapaci di sottrarci alla routine e alle abitudini e alla paura di sprecarlo o perdere la continuità tra prima e dopo.

Dipinto di Mauro Valori



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