La parola riscoperta di oggi è ponte. Prima di Genova la usavamo per unire, per
creare alleanze, amicizie, ma ci siamo ricreduti da quando ha assunto il valore
di rompere, crollare, cedere. Andiamo in giro con gli occhi all’insù per controllare
i punti critici dei cavalcavia che facciano pensare a un cedimento imminente.
Brooklyn, London Bridge, Golden
Gate Bridge, che destano meraviglia, sono passati in secondo piano, il primato del
ponte nero spetta all’Italia, dopo il disastro di Genova, diventando il simbolo
dell’Italia che cede. Sto lavorando sulla mia paura dell’aereo da quando la
terraferma non mi sembra più così sicura. E se i ponti crollano, ci salva il
volo! Al di là delle responsabilità, dei progetti, della manutenzione, delle tonnellate
di merci che ogni giorno vi transitano, i ponti, bisogna ricordare, sono
elementi antropici, creati dall’uomo e pertanto imperfetti anche quando
sembrano opere eccezionali. Dimentichiamo che la terra trema, che la pioggia
bagna e lede il ferro, che il vento rode, che il freddo e il gelo corrodono,
che la salsedine attacca e consuma. Un ponte, se volessimo dargli una vita pari
alla nostra, superata una certa età dovrebbe andare giù ed essere ricostruito.
Quando accade una tragedia, prima o poi i colpevoli e gli irresponsabili, anche
se si dividono le colpe, con i tempi lunghi della giustizia, trovano i modi per
superarle, ormai i morti non ritornano più ed è bene salvare la pelle di chi
vive. Affidiamo troppe cose al tempo che invece non può mantenere. Il cemento
si sfalda, il ferro si arrugginisce, le tensioni dei tiranti allentano, il peso
carica. Ma affidiamo al tempo anche l’oblìo, le promesse, le decisioni, le
nuove costruzioni, il miglioramento quando non si traduce in un’altra
irresponsabilità. E’ come la nostra vita. Non è che arrivati a una certa età anche
se ti curi, puoi reputarti sano come un
pesce come se avessi 20 anni. Sempre quella sarà l’età, magari tenuta bene, ma
questo non toglie che possa essere attaccata dai mali della vecchiaia mentre la gioventù si allontana sempre più. Potrai
spaccare le pietre, mangiare senza freno, dormire pochissimo, fare innumerevoli
sforzi? No! Anche dopo il “tagliando” devi rispettare la tua età. Così le opere
pubbliche. Dopo gli anni di vita consentiti dovrebbero essere rifatte con criterio senza alcun
risparmio. Non siamo bravi come i nostri Romani, maestri di strutture pubbliche
che ancora oggi resistono. Gli acquedotti romani, secondo Christer Bruun,
professore di storia romana, lingua e letteratura latina all’Università di
Toronto, nel libro Roma Imperiale a
cura di Elio Lo Cascio, possono aggiungersi alle sette meraviglie del mondo. Oggi
si salvano solo le piramidi e gli acquedotti, che non ne facevano parte. In più
avevano un’importanza sociale per l’approvvigionamento idrico e sono la
testimonianza del genio romano. E’ anche vero che tutte le opere romane rimaste
intatte fino ad oggi non hanno avuto l’uso massiccio di quelle moderne. I
nostri viadotti sopportano pesi al limite del possibile ed è proprio l’usura a metterli
in pericolo. Sulle nostre autostrade viaggiano più merci che auto e persone, ad
ogni passo ci sono cantieri aperti a tempo indeterminato mentre persistono cavalcavia
insicuri, ponti pericolanti, corsie con manto dissestato, piloni non più agili
come una volta, tratti di autostrade non a
norma di sicurezza. Con la dovuta manutenzione sicuramente i pericoli
sarebbero stati presi in considerazione e trovate le soluzioni più appropriate.
Nel tempo cambia la morfologia del terreno, l’acqua avrà trovato corsi diversi,
le intemperie avranno fatto il loro lavoro. Un ponte che crolla porta via con
sé le nostre sicurezze e quello che fino a poco tempo prima univa, ora è più
distante. Si passa dalla costernazione, alla paura, al perdere la fiducia in
chi dovrebbe monitorare e non lo ha fatto per malafede o per troppa
superficialità. Morire da un momento all’altro o salvarsi per una frazione di
secondo, sono questi i paradossi del ponte. Nel romanzo di Thornton Wilder, Il ponte di San Luis Rey, si narra la
caduta del ponte sulle Ande di San Louis Rey nel 1714, che metteva in comunicazione
Lima, capitale del Perù, con Cuzco. Muoiono 5 persone e frate Ginepro fa
appello alla fede cercando di comprendere quale sia stato il motivo di quella
coincidenza: il fatto che siano morte proprio quelle persone e non altre. Crede
che ci debba essere una motivazione, qualcosa che le accomuni. E così comincia
a scavare nelle vite delle vittime alla ricerca di un elemento che motivi il
loro sacrificio. Esclude aprioristicamente la fatalità, mentre è convinto che
Dio abbia avuto un suo disegno e che pertanto può essere dimostrato solo con
una fede cieca. La sua religione sembra più una scienza. Cerca di analizzare
quello che invece non può essere analizzato e il male, che spazza via quelle
persone, resta alla fine un mistero. Morire in pochi secondi o salvarsi per
un’altra manciata, è questo il rompicapo. Il mistero di Dio che dispensa alle
sue creature mali per salvarle da altro che non rientra nella nostra dimensione,
così crede frate Ginepro. Ma se quel ponte non fosse caduto, quelle vittime
avrebbero avuto altro tempo prima di perdere la vita. A questo punto il ponte
diventa strumento di Dio per attuare i suoi piani come se noi non avessimo la nostra
responsabilità, che spesso confondiamo con la volontà del Creatore. E se i
ponti cominciano a crollare, stando alla teoria di frate Ginepro, ci sono in
atto molti piani. Forse Dio non si prende cura della stupidità di chi dovrebbe
vigilare e tutelare i cittadini, visto che sarà la stessa stupidità a pagare,
quando, capovolgendo le situazioni, chi doveva agire e non lo ha fatto diventa capro
espiatorio di tutto la situazione provocata. Quando lo Stato non dà sicurezza,
perde la fiducia dei suoi cittadini. La paura porta a evitare i ponti, quando ci sono strade alternative. Spostarsi
porta in sé un pericolo e mai come oggi il progresso ci sembra così fragile, rivela
i suoi limiti, e mentre prima poteva
semplificarci la vita, oggi comincia a rendercela un inferno.
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