Presentazione al Viviani di Castellammare di Stabia




Ieri sera la mia presentazione del nuovo romanzo:"Nel mezzo del tempo" Graus Editore, al Salone Viviani di Castellammare di Stabia. Inserita all'interno dello Stabia Teatro Festival Premio Annibale Ruccello, VI edizione a cura di Luca Nasuto e dell'Associazione Achille Basile Le ali della lettura presieduta e curata dalla professoressa Maria Carmen Matarazzo, è stata una "prima" di tutto rispetto per pubblico e per compagni di presentazione. A cominciare da Ciro Daino, Presidente dell'Associazione Trame d'Autore, moderatore della serata, con una personale riflessione sui luoghi della memoria che riportano alla luce spunti, situazioni e figure da poterci costruire una storia. Franco Gallo, un Ispettore del Lavoro e politico prestato alla letteratura, ha tirato fuori dal testo il vero volto della storia con una disamina precisa. Alcuni passi del libro sono stati letti dall'attore Antonio Novi, che presiede all'Associazione Teatrale Il Faro di Angri, dando alle pagine quella teatralità per immettere il pubblico subito nel contesto. 

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Il pastore d'Islanda



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Ci sono libri che sono piccoli gioielli e leggerli è quasi un dovere per le emozioni che regalano. Il valore di un libro è in quel che resta nell’animo di chi legge lasciando una sensazione di benessere, serenità, pace interiore e per i pensieri prodotti che fanno ancora rumore dentro. Uno di questi è  Il pastore d’Islanda” di Gunnar Gunnarsson.
Il titolo originario era Avvento, una fiaba natalizia,  da leggere come  un canto, una poesia infinita che ci riporta alle immagini del Natale della nostra infanzia. La storia si svolge in Islanda, dove il pastore Benedikt, come ogni anno, da 27 anni, si prepara al Natale andando alla ricerca delle pecore smarrite tra i monti. Un’impresa che si ripete come un rito, un servizio che rende alla comunità. Unici compagni di viaggio i suoi amici animali: il montone Roccia e il cane Leo. Tre anime che si fanno compagnia. Che siano due animali e un uomo non conta, l’affiatamento tra loro è quello migliore, “come accade tra specie diverse”, come dice lo stesso autore. Momenti di ironica complicità sono per il cane Leo, che con le sue mosse rende il racconto denso di umanità. In questi punti la prosa si fa leggera e affettuosa sottolineando ancor di più la solitudine del protagonista che si avventura da solo nella tormenta e dove la fatica sarà ben spesa se riporterà a casa le pecore. Le scorte, il necessario, ogni cosa è razionato per condurre a termine la missione. E quel poco che ha non esita a condividerlo con chi trova sulla sua strada. Tutto è prestabilito, organizzato in tempo e nei dettagli. Chi si avventurerebbe come Benedikt nel deserto di ghiaccio? Egli sente i bisogni della sua terra, dei suoi simili e non può dimenticare la collettività, gli altri, che sono il suo specchio. Si sentirà appagato e pronto per il Natale quando avrà fatto qualcosa di buono per gli altri e non per sé. Il servizio e solo il servizio rende sacri, afferma l’autore. La sua generosità è immensa, tanto che lungo il viaggio divide i suoi pasti con gli altri pur sapendo che, se finiranno prima, morirà di fame. E sa gestire i due animali, lasciando riposare ora uno e ora l’altro, risparmia la luce e ogni bene portato con sé. E’ l’uomo solo di fronte alle forze della natura. L’autore trae spunto da ogni piccolo gesto per  riflessioni profonde, come questa descrizione: “E prima di passare in casa, strinse lo stoppino della candela tra le dita, è un atto di compassione verso la luce, non lasciare che si consumi invano.” E il suo cuore è tutto proteso in quella ricerca, verso quegli animali dispersi nella neve che, se non correrà a salvarli, perderanno la vita. E la sua generosità è ritenuta pazzia. Solo un pazzo può affrontare quel viaggio. E la pazzia si trasforma in preghiera concreta: andando a prendere le pecore. La storia, più che di prosa è fatta di poesia, di versi leggeri, come i fiocchi di neve di cui descrive il volteggiare, al posto del buio e dell’angoscia che la tormenta provoca. Mai si dispera, né teme il pericolo o l’imprevisto, tutto viene misurato col suo cuore e la sua volontà di portare a buon fine l’impresa. Quella montagna da scalare è il suo deserto, il restare con se stesso in una sorta di purificazione prima della nascita del Bambino. E cosa c’è di più vero a questo mondo della solitudine dell’uomo? E di quale valore si può fregiare se non quello di perdersi per gli altri? L’Avvento è questa attesa di riportare a casa le bestie, proprio come attendere il Bambino. Nella scrittura di Gunnarsson c’è l’uomo di fronte alla verità, il suo porsi alla vita sempre con un senso di responsabilità, senza declinare o scegliere le cose a cui dedicarsi, ma seguendo la vita che ci pone innanzi i nostri doveri da assolvere con pazienza, con dedizione, con amore. L’unica strada che ci unisce e non ci divide, che ci rende forti e ci solleva dalla sofferenza. Nella sua solitudine l’uomo sente di dover rendere conto all’altro, al prossimo ed è questo l’unico modo di risalire gli abissi interiori e non provare tristezza al cospetto di noi stessi. Che ci sia nella sua opera un discorso cristiano è fuori dubbio, ma il modo come lo affronta è di una semplicità disarmante. Una simbologia cristiana che rafforza il testo arricchendolo di una fede che non potrebbe avere esempio migliore: tre gli amici alla ricerca delle pecore, come la Trinità, 27 gli anni in cui perpetua questa avventura, cominciando quando aveva 27 anni. E in più parti il numero 27 è quello della caparbietà “Ventisette anni… In fondo ai quali  erano sepolti i suoi sogni. Quei sogni. Quelli che solo lui e Dio conoscevano. E le montagne a cui aveva urlato la sua disperazione. Ma già al primo viaggio li aveva lasciati lassù. Ben nascosti. O forse no? Non comparivano a volte nella solitudine  dei monti, come spiriti inquieti che vivono la loro vita effimera e distorta in un deserto di neve e pietre sregolate? Era a causa loro che  doveva tornare lì ogni inverno? Per vedere se ancora non si erano dissolti e la terra non li aveva inghiottiti?” Il pastore simbolo di guida, le pecore come gli uomini vanno per il mondo. La salita è fondamentale, la solitudine anche, ma la determinazione di farcela, di programmare ogni passo, azione, risparmiare i tempi della fatica e tendere unicamente a riportare a casa gli animali è la vera molla che fa procedere verso la tormenta. Il racconto non è altro che la condizione umana che tende verso un approdo, così il Natale  non è una festa ma un fine cui tendere, una nuova dimensione che scaturisce dalla sofferta conquista dell’uomo. Benedikt riesce nell’impresa grazie anche a un giovane, visto come il legame col nuovo che avanza e che prende lezione dall’esperienza. Uno scritto breve ma intenso dove non basta leggere una sola volta e ogni volta è un nuovo modo di comprendere. E che cos’è Dio se non pastore di pecore che, se alcune si perdono, corre a recuperarle per condurle all’ovile? Il significato del Natale racchiuso in un piccolo scrigno che va letto con calma per capire fino in fondo la lezione di Gunnarsson.



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Carta canta

  

Oggi che il mondo  corre veloce e ogni cosa cambia in breve tempo, affidiamo alla carta i passaggi della nostra vita. Carta canta! Le parole devono avere un luogo, non basta più proferirle, si sa, verba volant, dicevano i Latini, scripta manent. Ma da un po’ di tempo alle carte abbiamo dato un archivio: il computer e tutto finisce lì dentro. E’ uno strumento di vita sociale, un contenitore, un fortino. Urge catalogare, conservare, mettere agli atti, informare, mantenere. Eppure si tratta di un parassita che si ciba della nostra intelligenza prendendosi ogni foglio su cui depositiamo i fatti. Il danno che ci rende è quello di farci perdere la memoria. Scatti una foto? E la immagazzini qui dentro, e poi la potrai vedere solo in miniatura, mai tra le mani in una bella carta color come si usava una volta. Il posto migliore per tenere le foto non è nel buffet o il cassetto della libreria, ma qui dentro. Scrivi a un ente? Non devi proprio disturbarti a mandare il protocollo per posta, qui dentro ci sono caselle, box, celle, che possono contenere le nostre produzioni giornaliere. I francobolli hanno finito la loro carriera, sono diventati pezzi da collezione. Una volta tra francobollo e carta c’era un rapporto d’amore e la sua fine era lì tra le braccia della busta, e mai ci fu cosa più eterna se ricordiamo come si tenevano i resti delle missive. Sono sopravvissute alla guerra, agli amori, ai cambiamenti. C’erano le più belle parole, scelte con cura ma soprattutto col cuore. La carta raccoglieva un corredo di emozioni e, ogni volta che si rileggevano, era come averle scritte in quel momento. Oggi il computer  fagocita senza sosta. Eppure il consumo di carta è aumentato, per forza, se poi quello che immettiamo dovrà uscirne all’occorrenza. Allora vomita atti, richieste, lettere, notizie, modelli, è un continuo emettere quello che gli affidiamo. Ma a chi servono tutti quei file che si scrivono e che mai nessuno andrà a vedere, che nascono per tutelarci e finiscono per non essere nemmeno conosciuti? Abbiamo creato un cimitero infinito di tempo, di creatività, di scritti vari, di relazioni su relazioni, di articoli su articoli, di gran lunga superiori a quelli che leggeremo o conosceremo. Molti tra questi dormiranno sonni beati, nessuno mai ne prenderà atto. Stanno  lì per tutelarci, dove troveremo sempre un verbale, una postilla, un registro, una data che farà il caso nostro. Una volta esisteva il block notes, il diario, quelle belle agende annuali che attiravano per i colori e le immagini che invogliavano alla scrittura. Anche il salumiere aveva il suo dove scriveva i debiti protratti dai clienti, con la penna sull’orecchio quasi a darsi aria di scrivano, uscito dalle pagine del libro Cuore che sfornava i suoi racconti mensili. I bei quaderni colorati e quelle computisterie ruvide che sapevano di  muffa stretti negli scaffali. Custodivano sempre una frase d’effetto, un disegno significativo, uno scarabocchio di quelli che si fanno mentre parli o ascolti qualcuno. Lo si sfogliava con gli occhi desiderosi di scoprire quello che avevi dato ai fogli, qual era lo stato d’animo, l’epoca, il giorno. Tiravi da quel foglio il vissuto. Carte ingiallite, mangiucchiate dal tempo, con l’odore della scuola, col profumo dell’insegnante impregnato su o quello di legno dello scaffale da cui veniva giù. Ma la carta serve a registrare ogni nostro passaggio su questo pianeta, una testimonianza  delle nostre imprese. Ci consegna premi, affetto, onorificenze, soldi, conoscenze… Ma da quando c’è la macchina computer la carta è diventata gelosa.
I fogli non si contano e talvolta si sprecano sotto le nostre mani a raccogliere idee. Forse in un futuro prossimo le parole si racconteranno da sole. Quelle che  resisteranno al buio, senza vedere il sole, i colori, gli arcobaleni, i prati, faranno di nuovo capolino tra le righe. E la carta si immolerà per essere imbrattata, come sta facendo da un po’ da quando il computer le ha rubato le parole. Esse sono diventate frettolose e approssimative. Quando depositiamo tutto sulla carta, stiamo più tranquilli, senza, i nostri rapporti sono vuoti o inesistenti. La parola data non ha valore e anche se l’avesse, crediamo alla carta, all’atto, al protocollo che nessuno potrà contraddire.  Eppure una volta Tommaso Moro diceva che non ci sono contratti che tengano quanto quelli dei sentimenti. Ed è possibile che questa massiccia produzione che regaliamo al computer nasca da una mancanza di valori e sentimenti diventati labili e veloci, di una vita che cambia continuamente rotta e desideri. Il tempo dell’incertezza esige che si contratti di più per acciuffare i rapidi mutamenti. Aumentano le nostre azioni e la necessità di protocollare. La burocrazia e l’economia, i moderni tiranni, chiedono atti. La scuola, il comune, il tribunale, gli uffici sono centrali di produzioni. E aveva ragione Pirandello con il suo Mattia, che persa l’identità, con la sua presunta morte, non esisteva per nessuno. Senza la carta che affermi chi siamo, noi non esistiamo. E se con la carta abbiamo bisogno di controllare le nostre azioni, senza non abbiamo fiducia dei nostri gesti, ci sentiamo in un continuo inganno. La carta è la memoria mentre le parole evaporano, sfumano, si riducono, diventano vane. La carta racchiude la storia e la storia è nata quando abbiamo cominciato a scriverla. Col tempo forse non ne avremo più bisogno, quando il computer più che mandare atti, ci parlerà con la sua voce e forse molte cose si ometteranno, si occulteranno, rendendoci solo in parte quello che gli avremo affidato. E forse prenderà il sopravvento diventando lui la mente e noi gli scrivani, con un ritorno al passato!


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Il cielo di Napoli



Ieri, sono arrivata a Napoli dopo pranzo e ho parcheggiato l’auto di fronte all’Università a Via Porta di Massa. Ero ancora frastornata dalla velocità sostenuta in autostrada e la musica che mi accompagnava. Ho dato le chiavi al parcheggiatore, che dico, al maggiordomo,  che con tanto di educazione, tatto, ha atteso che mi sistemassi prima di prendere l’auto in consegna. Con quello che si spende mi sarei aspettata anche un caffè e forse qualcosa di buono, come diceva la signora in giallo ad Ambrogio.
Quando ho mosso i primi passi verso l’esterno del garage, la luce mi ha indotto a inforcare gli occhiali. A Milano avrei dovuto mettere quelli per la vista, qui devo proteggere gli occhi dalla luce: ce n’è troppa!

Il primo impatto l’ho avuto con la struttura universitaria. E mentre i tacchi si infilavano negli spazi dei lastroni di basalto, ho provato ad alzare gli occhi. Quanti giorni passati là dentro, tra i vari piani, dipartimenti, professori, libri, amici. Puntando a una delle finestre che va verso Via Marina, ho ricordato i miei affanni a salire le scale a piedi per paura di restare nell’ascensore. Allora mi fermavo a quel punto e guardavo giù i passanti dall’alto, mentre il cuore batteva all’impazzata per l’esame più che per la salita. Passando davanti all’ingresso, ho sbirciato dentro: ragazzi con volti pallidi, alcuni tesi, con i libri in mano, gruppetti che si muovevano verso l’esterno, qualche professore che usciva, alcuni a parlottare di esami sostenuti o di dispense, di tesi. Mi sono emozionata a  pensare ai sacrifici, ai pianti, alle ansie, ai caffè, ai mattini freddi quando arrivavo a Napoli e il sole ancora non era spuntato e davanti all’ingresso dell’Università c’ero solo io e qualche piccione… Ora i venditori ambulanti sul lato sinistro danno una ventata orientaleggiante e la strada sa di spezie, di caffè, di polvere e di olezzo dei contenitori della spazzatura. Il cielo di Napoli lo conosco dalle aule dell’Università. La più bella vista mi è apparsa durante gli esami. Alcune aule avevano vetrate ampie e io guardavo fuori cercando tra l’azzurro e i tetti dei palazzi, le antenne e i raggi del sole, le parole adatte. Il sole mi metteva un ardire addosso facendomi trovare le parole giuste e ricordare i passi più difficili. E quando ormai capivo che l’esame andava a buon fine, mi gonfiavo di sorrisi, distogliendo lo sguardo dalle nuvole o quell’aria incipriata ancora di sonno se di mattina, o dai colori caldi se nei pomeriggi d’estate. Dopo avvertivo un senso di libertà, scaricando lentamente la tensione e avvertendo tutta la stanchezza accumulata. Appena giù all’ingresso, pensavo che portare a compimento un esame era meglio di qualsiasi droga. Non c’è adrenalina più sana. E guardavo il cielo, lo stesso da cui avevo tratto forza mentre parlavo. Solo allora mi rendevo conto delle condizioni atmosferiche, di poter correre vicino al mare, di festeggiare anche solo andandomene in giro a perdere tempo per i negozi. E invece mi incamminavo subito per tornare a casa. Il cielo di Napoli ha accompagnato i miei studi. L’ho visto ridente e luminoso, con pioggia battente, col vento a sventolare il bucato steso sui palazzi, le antenne a muoversi, foglie alzarsi a cumuli. E puntavo al cielo ogni volta che mi sedevo davanti a un professore a conferire: avevo bisogno di un punto su cui appoggiare gli occhi e la memoria e parlare senza guardare l’interlocutore, un modo personale di riordinare il discorso. Guardando le nuvole emergevano i personaggi, a uno a uno, come se li risvegliassi da un lungo sonno chiamandoli all’appello, o i concetti. Ma in quei momenti non pensavo solo a loro, avevo la possibilità, come un percorso mentale alternativo a quanto accadeva, di ammirare i mille colori che coprivano il cielo lasciando sempre qualcosa di nostalgico. Il cielo sotto il quale si vive ha sempre un colore intenso. Ho conosciuto le sfumature delle giornate dalle ombre e dalle luci che apparivano o sparivano sui palazzi. Napoli, un Caravaggio, dove l’ombra non è altro che la voce di chi Napoli la vive e la respira tutti i giorni. Davanti alle librerie tante tesi in vetrina e sulle ante dei negozi,  tutte in fila; e poi subito dopo vetrine con pizze, pizzette, brioche con profumo di mozzarella e pomodoro misto a carta e colla delle stampe. Al semaforo un folto gruppo pronto per attraversare. Napoli impara ad aspettare. Dalla mia posizione vedevo le auto sfrecciare e la gente ferma sulle strisce, dietro di me ragazzi a raccontarsi. Napoli è questa: una grande vecchia città che pullula di vita in ogni antro, in ogni androne o lungo le strada, nei vicoli, al semaforo, nei bar. E’ ricca di voci, di suoni, sorniona, pigra ma anche frenetica, sveglia, pronta, rapida, sa cogliere l’attimo. La vedi negli occhi del tabaccaio uscito a prendere una boccata d’aria e con rapido sguardo sa perfino l’ora senza sbagliarsi sui minuti. E i baristi scattanti dietro i banconi con caffè in mano a tutte le ore. Il fioraio non si scolla dalla guardiola, gli vanno a mettere in mano le monete e impassibile osserva il traffico che scorre. Napoli vive in un contesto che è difficile spiegare, molto meglio osservare: la conosci con gli occhi, ne senti gli odori e ne osservi i mutamenti. Palazzi con ombre leggere scolpite dal sole a formare intarsi, colonne, volute, come uno sfarzoso salotto, è una città che accoglie nel suo corpo pieno di vita. Passando di nuovo davanti l’Università, ho visto un cane  abbandonato. Subito si è formato intorno un capannello di ragazze: chi lo accarezza e chi lo coccola. Eppure è sporco, pieno di fango. Si sono guardati intorno, forse era stato lasciato lì ma nei paraggi non si vedeva l’ombra del padrone. Altri si sono fermati come se lì ci fosse stata una star e il cane a scodinzolare in segno di riconoscenza. Mi sono fermata presa dalla scena. Sono riusciti a organizzargli un pasto in poco tempo. Ecco, questa è Napoli. E con tutta la fretta che ci portiamo addosso nelle nostre frenetiche giornate, qui c’è chi il tempo lo perde per questioni che sembrano di secondaria importanza. E sono i giovani che prendono l’iniziativa. La scena, durata una decina di minuti, è giunta al suo epilogo quando un signore  ha deciso di portarselo via. Quando in macchina mi sono immessa su via Marina e il sole ancora donava sfumature di giallo ai palazzi, mi sono detta che Napoli è sempre uguale a se stessa! 

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La cattiveria umana




Cattivi si nasce o si diventa? Il male impariamo a farlo o lo abbiamo dentro? A sentire gli psicologi  gran parte della cattiveria è insita in noi, come se fosse un antidoto di cui siamo dotati nel nostro modello base. Questa dotazione, che molto probabilmente serve a bilanciare il bene, spesso aumenta in maniera esponenziale e diventiamo cattivi a oltranza. La vita odierna non permette di abbassare la guardia e siamo tendenzialmente cattivi e aggressivi, riuscendo, a volte, a essere veramente riprovevoli. Una buona dose la manteniamo per contrastare le fregature del prossimo, un’altra ce la procuriamo quando dobbiamo affrontare le offese gratuite, altra ancora per mantenere lo standard per difenderci. Di questo passo non possiamo mai cedere al bene se dobbiamo continuamente  pararci dal male. Buttiamo fuori la nostra cattiveria quando in noi c’è rancore, astio, rabbia, odio, che ci lasciano in uno stato di nervosismo e avvilimento. Siamo capaci di infliggere il male pur di difenderci dalle usurpazioni degli altri e da tutti gli atteggiamenti che ci feriscono. Lo siamo molto più con chi ci sembra debole, e poi con i superiori per il gusto di contestare.
La cattiveria, poi, unita all’aggressività non è mai sana, ma giunge da un motivo profondo che tocca l’insoddisfazione, la paura, il vuoto in cui viviamo. Una persona insoddisfatta, rancorosa, arrogante, supponente non sa fare di meglio che scagliare cattiverie. Albergando in noi lo stato di profonda insofferenza, siamo portati a perseverare in atteggiamenti cattivi contro gli altri, per il gusto di infliggere un dolore fregandocene di quello che procuriamo al prossimo. Un cattivo non è empatico, non si mette nei panni degli altri, stenta a relazionarsi, è egocentrico ed egoista. Scaricare sugli altri è un modo irresponsabile di competere. Alla base c’è anche invidia, il non sopportare i successi degli altri, indice questo di insicurezza, di cattivo rapporto con se stessi. A volte, per non aver ricevuto considerazione nel momento di maggiore bisogno di attenzioni, come accade nella prima infanzia fino all’adolescenza, ci si trascina dentro un senso di malessere che si trasforma in pessimismo, cattiveria, negatività. Può essere anche subdola quando manipoliamo gli altri, senza palesare le nostre intenzioni. Oggi cattiveria e aggressività sono sempre gratuite. Si fa quasi a gara a chi contesta di più e molto spesso, chi agisce in tal senso, forse è in difetto. Chi non teme il confronto non attacca, ma si relaziona. Attaccare è sempre più la moderna modalità di parlare. “Fare rumore” sperimentare la  forza con l’assalto è ritenuto, stupidamente, un punto di forza. Il cattivo batte i piedi come i bambini capricciosi. I ragazzi per mancanza di esperienza, gli adulti per credere quella la forza contro le avversità, i vecchi per non voler lasciare il mondo che era loro fino a poco tempo prima. Questi, per attribuirsi meriti, per evitare confronti, credono di essere i migliori al cospetto degli altri. Alzare la voce e dispensare il male un po’ qui un po’ lì, non è indice di forza. La cattiveria aumenta con la presunzione e l’arroganza. Può presentarsi anche attraverso la debolezza, la mancanza di obiettività, di serenità d’animo. Il cattivo passa il tempo a non perdere occasione per dire la sua e ad aizzare il prossimo, a tessere situazioni come reti in cui far cadere gli altri, a tramare contro, a screditare, a criticare, a mentire.

A volte si nasconde dietro a un fittizio senso di giustizia, a difesa di quello che dice. Molti cattivi si presentano sotto false spoglie, con atteggiamenti da finti buoni, protettivi, umili, ma nascondono un animo inquieto e volto al male, come il personaggio di Uriah Heep di David Copperfield. Anche il fisico risponde ai sentimenti di cattiveria mostrando  tutta la sua deficienza. Uriah è alto, snello, con diastonia muscolare, asciutto, malaticcio nel corpo e nello sguardo. Lo stesso Uriah da piccolo era educato ad atteggiamenti meschini, striscianti. Di Catilina, uomo corrotto, descritto da Sallustio in De Catilinae coniuratione, l’autore afferma che aveva “un animo audace, subdolo, simulatore e dissimulatore”. Cesare Borgia, figlio di Papa Alessandro VI, il Principe a cui si riferiva Machiavelli nella sua opera, viene descritto coraggioso, forte, incline all’astuzia, proprio come il leone e la volpe. In questi personaggi il male è radicato, sembra aver preso radici e diventate così forti che niente li annienterà se non la morte. La cattiveria a lungo andare, albergando troppo nel corpo e nell’anima non riesce più a individuare la strada del bene e allora sì che estirparla diventa un’azione quasi impossibile. I cattivi della storia e della letteratura ci insegnano che il male finisce per uccidere chi lo esercita. Caino è sempre in agguato se gli lasciamo la porta aperta permettendo che il male si insinui in  noi. Per contrastarlo è necessario avere un’ampia visione delle cose, allargare gli spazi interiori e includere gli altri nel nostro piccolo condominio mentale. Pensare che il nostro orticello abbia dei confini più simili a mura di cinta, è come non sentire ragioni e avere una vista corta. Si può iniziare a contrastare il male anche solo reprimendo il nostro tasto di battaglia. Alimentare nervosismi, tensioni, contro azioni è come voler fare la guerra e di solito non porta altro che distruzione a tutti: a chi la innesca e a chi la subisce.

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NEL MEZZO DEL TEMPO





Un romanzo nato in un luogo, un disegno venuto fuori dalla mia matita, un titolo che dà il la per inoltrarsi nelle pagine.Il mio nuovo libro è nato con prepotenza, come quei figli che arrivano e non sai quando e come è successo. La vita nasce senza preavviso e un libro si mette in fila per avere voce. Ho ascoltato quello che aveva da dirmi e insieme ci siamo messi in cammino. Scrivere, come leggere, è un esplorare nuove terre ed esserne il pioniere. Ho viaggiato sulle ali della fantasia unita alla memoria ed è risultata un'esperienza unica. Non solo chi legge ma anche chi scrive, quando esce da una storia, dalla trama a cui ha dato vita, è come se avesse vissuto anche quella. Senti tutto il percorso fatto, conosci nuova gente, vivi con i personaggi che cominciano a starti accanto e non ci stai a crederli sfumati nel nulla appena giungi alla fine. Se poi tra questi ce ne sono di speciali che mi hanno insegnato qualcosa, sì, proprio a me che gli ho dato vita, allora è come aver avuto un'altra vita da spendere oltre a lasciarci dentro una parte di me. Nel mezzo del tempo...


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