Il pastore d'Islanda



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Ci sono libri che sono piccoli gioielli e leggerli è quasi un dovere per le emozioni che regalano. Il valore di un libro è in quel che resta nell’animo di chi legge lasciando una sensazione di benessere, serenità, pace interiore e per i pensieri prodotti che fanno ancora rumore dentro. Uno di questi è  Il pastore d’Islanda” di Gunnar Gunnarsson.
Il titolo originario era Avvento, una fiaba natalizia,  da leggere come  un canto, una poesia infinita che ci riporta alle immagini del Natale della nostra infanzia. La storia si svolge in Islanda, dove il pastore Benedikt, come ogni anno, da 27 anni, si prepara al Natale andando alla ricerca delle pecore smarrite tra i monti. Un’impresa che si ripete come un rito, un servizio che rende alla comunità. Unici compagni di viaggio i suoi amici animali: il montone Roccia e il cane Leo. Tre anime che si fanno compagnia. Che siano due animali e un uomo non conta, l’affiatamento tra loro è quello migliore, “come accade tra specie diverse”, come dice lo stesso autore. Momenti di ironica complicità sono per il cane Leo, che con le sue mosse rende il racconto denso di umanità. In questi punti la prosa si fa leggera e affettuosa sottolineando ancor di più la solitudine del protagonista che si avventura da solo nella tormenta e dove la fatica sarà ben spesa se riporterà a casa le pecore. Le scorte, il necessario, ogni cosa è razionato per condurre a termine la missione. E quel poco che ha non esita a condividerlo con chi trova sulla sua strada. Tutto è prestabilito, organizzato in tempo e nei dettagli. Chi si avventurerebbe come Benedikt nel deserto di ghiaccio? Egli sente i bisogni della sua terra, dei suoi simili e non può dimenticare la collettività, gli altri, che sono il suo specchio. Si sentirà appagato e pronto per il Natale quando avrà fatto qualcosa di buono per gli altri e non per sé. Il servizio e solo il servizio rende sacri, afferma l’autore. La sua generosità è immensa, tanto che lungo il viaggio divide i suoi pasti con gli altri pur sapendo che, se finiranno prima, morirà di fame. E sa gestire i due animali, lasciando riposare ora uno e ora l’altro, risparmia la luce e ogni bene portato con sé. E’ l’uomo solo di fronte alle forze della natura. L’autore trae spunto da ogni piccolo gesto per  riflessioni profonde, come questa descrizione: “E prima di passare in casa, strinse lo stoppino della candela tra le dita, è un atto di compassione verso la luce, non lasciare che si consumi invano.” E il suo cuore è tutto proteso in quella ricerca, verso quegli animali dispersi nella neve che, se non correrà a salvarli, perderanno la vita. E la sua generosità è ritenuta pazzia. Solo un pazzo può affrontare quel viaggio. E la pazzia si trasforma in preghiera concreta: andando a prendere le pecore. La storia, più che di prosa è fatta di poesia, di versi leggeri, come i fiocchi di neve di cui descrive il volteggiare, al posto del buio e dell’angoscia che la tormenta provoca. Mai si dispera, né teme il pericolo o l’imprevisto, tutto viene misurato col suo cuore e la sua volontà di portare a buon fine l’impresa. Quella montagna da scalare è il suo deserto, il restare con se stesso in una sorta di purificazione prima della nascita del Bambino. E cosa c’è di più vero a questo mondo della solitudine dell’uomo? E di quale valore si può fregiare se non quello di perdersi per gli altri? L’Avvento è questa attesa di riportare a casa le bestie, proprio come attendere il Bambino. Nella scrittura di Gunnarsson c’è l’uomo di fronte alla verità, il suo porsi alla vita sempre con un senso di responsabilità, senza declinare o scegliere le cose a cui dedicarsi, ma seguendo la vita che ci pone innanzi i nostri doveri da assolvere con pazienza, con dedizione, con amore. L’unica strada che ci unisce e non ci divide, che ci rende forti e ci solleva dalla sofferenza. Nella sua solitudine l’uomo sente di dover rendere conto all’altro, al prossimo ed è questo l’unico modo di risalire gli abissi interiori e non provare tristezza al cospetto di noi stessi. Che ci sia nella sua opera un discorso cristiano è fuori dubbio, ma il modo come lo affronta è di una semplicità disarmante. Una simbologia cristiana che rafforza il testo arricchendolo di una fede che non potrebbe avere esempio migliore: tre gli amici alla ricerca delle pecore, come la Trinità, 27 gli anni in cui perpetua questa avventura, cominciando quando aveva 27 anni. E in più parti il numero 27 è quello della caparbietà “Ventisette anni… In fondo ai quali  erano sepolti i suoi sogni. Quei sogni. Quelli che solo lui e Dio conoscevano. E le montagne a cui aveva urlato la sua disperazione. Ma già al primo viaggio li aveva lasciati lassù. Ben nascosti. O forse no? Non comparivano a volte nella solitudine  dei monti, come spiriti inquieti che vivono la loro vita effimera e distorta in un deserto di neve e pietre sregolate? Era a causa loro che  doveva tornare lì ogni inverno? Per vedere se ancora non si erano dissolti e la terra non li aveva inghiottiti?” Il pastore simbolo di guida, le pecore come gli uomini vanno per il mondo. La salita è fondamentale, la solitudine anche, ma la determinazione di farcela, di programmare ogni passo, azione, risparmiare i tempi della fatica e tendere unicamente a riportare a casa gli animali è la vera molla che fa procedere verso la tormenta. Il racconto non è altro che la condizione umana che tende verso un approdo, così il Natale  non è una festa ma un fine cui tendere, una nuova dimensione che scaturisce dalla sofferta conquista dell’uomo. Benedikt riesce nell’impresa grazie anche a un giovane, visto come il legame col nuovo che avanza e che prende lezione dall’esperienza. Uno scritto breve ma intenso dove non basta leggere una sola volta e ogni volta è un nuovo modo di comprendere. E che cos’è Dio se non pastore di pecore che, se alcune si perdono, corre a recuperarle per condurle all’ovile? Il significato del Natale racchiuso in un piccolo scrigno che va letto con calma per capire fino in fondo la lezione di Gunnarsson.



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