Il ladro


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Il ladro agisce quando meno te lo aspetti! Vogliamo  illuderci che sia uno di passaggio, che venga da “fuori”. Lo vogliamo sconosciuto, non accettiamo che sia uno dei nostri, che magari incontriamo tutti i giorni: dal tabaccaio, dal salumiere, per la città. Cosa ci dice la storia? I più grandi nemici erano prima ancora amici e sono stati capaci di tutto in nome dell’amicizia: Salieri e Mozart, Cesare e Marco Antonio... L’attività del ladro è di togliere agli altri. Ci sono ladri e ladri: quelli che rubano cose e quelli che rubano altro. Questi ultimi sono subdoli, gli altri sono la nostra croce. Dante ne parla nel XXIV Canto dell’Inferno, in una bolgia dal frenetico movimento causato da una “terribile stipa”  di serpenti, con le mani dietro la schiena legate anch’esse con rettili di “diversa mena”. Dante oppone alla sveltezza, che quelle mani avevano un tempo, l’impossibilità ora di agire. Strisciano come hanno vissuto a spese degli altri in vita. Poi si annientano e risorgono dalla cenere, proprio come l’Araba Fenice. Oggi sembrerebbe un’occupazione fuori moda ma il ladro non ha mai smesso di lavorare e arriva con le mani dove mette gli occhi.  Quello d’appartamento toglie la serenità e si aggira come uno spettro a periodi. A volte trova la casa in condizioni favorevoli: magari manca un’inferriata, o il buio favorisce l’impresa, o forse l’occasione fa l’uomo ladro. Se poi ci si comporta come se nulla fosse accaduto, chi andrà a pensare al vicino, al parente lontano, all’amico dell’amico, al conoscente? E poi c’è la filosofia del ladro da non sottovalutare: chi detiene una cosa che non usa, è ritenuto ladro alla stessa stregua di chi entra in  casa e porta via i tuoi beni. Anche Robin Hood rubava, ma per dare ai poveri, per distribuire equamente la ricchezza. Nel Vangelo si legge che “Né si accenderà una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candeliere, perché faccia luce a tutti coloro che sono nella casa”.(Matteo, 5,15) In Matteo la luce ha il valore della testimonianza di fede, ma se volessimo prendere i versetti alla lettera, potremmo dire che la casa va illuminata e non nascosta. Se la chiudiamo al buio per timore che le luci consumino energia elettrica, se non la custodiamo con il ferro, i moderni sistemi di allarme, se non la rendiamo sicura prima noi, come prendersela con chi viene da fuori e in un baleno la apre, la saccheggia e scappa? Il ladro d’appartamento può agire per qualche nostra falla: abitiamo a piano terra e non ci sono gli infissi di ferro o forse abbiamo una serratura fatiscente, un balcone sgangherato, un passaggio incustodito e ci si illude: “Deve capitare proprio a me?” E poi diciamo sempre di non avere niente, dando a quel niente un valore non reale. E se quello che abbiamo è niente perché lamentarci se poi ce lo sottraggono? In casa troverà sicuramente l’oro, quei ninnoli cari di comunioni, battesimi e cresime, che a volte quasi dimentichiamo di avere e ce ne ricordiamo quando vengono a sottrarceli. E poi, che diamine, troverà qualche soldo: una pensione, un anticipo, una pigione, uno stipendio appena preso, un gruzzolo che sta lì e non si tocca.  Da qualche parte del soggiorno uscirà qualche pezzo d’argento, una posata d’epoca, un quadro di qualche pittore conosciuto a nostra insaputa. Mi sono sempre chiesta come mai siano nati tanti negozi di “Compro oro”, per un cambio basta l’orefice. Una volta derubati, state tranquilli che nessuno ci riporterà la refurtiva con tanto di scuse come se si fossero sbagliati. E se vedessimo agire i ladri a casa nostra in un video, sarebbe impressionante prendere atto di come facciano scempio della nostra intimità.  E quando il ladro porta via i nostri beni, che siano ricordi o risparmi, è come una violenza alla nostra vita. E poi vorrei sapere come fa un ladro, che giunge da fuori, a operare in una zona sconosciuta! La figura del palo è inquietante quanto quella del ladro. Più esattamente parlerei di delatori, quelli che passano notizie, portano spie, inducono ad agire dietro lauto compenso. Non bisogna risparmiare sul ferro da mettere alle finestre e alle porte: è l’unica valida contromisura. Il vecchio detto “Chi ti conosce, ti apre!” è sempre valido come l’altro che dice che “Dopo aver rubato, si mettono le porte di ferro!” Il ferro va messo prima e in abbondanza. Meglio più rimedi, uno dopo l’altro, come delle matrioske, a sorpresa per bloccarlo. Il ladro, a meno che non sia un cleptomane, si industria, trova sempre un ingegno per raggiungere lo scopo e quando ha un disegno, prima o poi, lo mette in atto.  Al ladro non bisogna dare la possibilità di arrivare in casa nostra, è questa la migliore prevenzione e l’unico modo di contrastarlo.


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Genitori e figli





C’è la convinzione, tra gli adulti, che i giovani debbano fare esperienza e cavarsela da soli per rafforzare il carattere. Quei genitori, che a loro volta non hanno avuto le dovute cure, ora, adottano lo stesso atteggiamento con i figli, lasciandoli a se stessi, come se la libertà o lo sbaraglio li forgiasse meglio dell’esempio e del controllo genitoriale.  Se ce l’abbiamo fatta noi, ce la faranno anche loro! Questo il pensiero ricorrente. C’è poi la convinzione tra i giovani, soprattutto tra gli adolescenti, di essere presi in considerazione  solo se si atteggiano a “grandi”, un po’ per spogliarsi del “piccolo” che ancora si portano dentro, un po’ per sperimentare la vita adulta. Come si spiega questa voglia di sfuggire alla propria età, come un abito troppo stretto? I genitori protraggono la loro giovinezza, almeno idealmente, e lasciano che i figli facciano di testa loro, ricordando che, alla loro età, si comportavano allo stesso modo. Sono amici dei figli, li proteggono, li assecondano. Si tengono a debita distanza dalle loro sfere inaccessibili quali sesso, amicizie, amori, progetti. I giovani oggi hanno genitori deboli, come adolescenti che ancora aspettano di dare vita ai sogni e di avere fortuna per i loro progetti giovanili. Attendono cambiamenti e hanno pretese  come se non avessero messo al mondo figli e questi non rientrassero nei loro progetti da portare a termine. Il discorso non cambia per quei genitori che dirigono i figli come marionette,  aspettandosi da loro onori e gloria per sfamare quel bisogno di continuità nel figlio. I giovani hanno bisogno dei loro simili per comunicare, confrontarsi, aiutarsi. E quando non hanno altro, ci pensa la droga, l’alcool, surrogati molto più immediati  e aderenti alle esigenze del momento. L’uso di droga è diventato sfacciato, non si fa più caso se è notte o giorno, se in un posto riparato o in una metropolitana, ogni momento o luogo è quello giusto. A questo punto bisogna chiedersi quando la cosa sia sfuggita di mano, quando la nostra debolezza abbia preso il sopravvento lasciando il figlio in un limbo, da solo, a gestirsi in situazioni più grandi di lui. Conosco una madre andata in analisi per voler aiutare suo figlio, partendo da se stessa, e solo dopo è riuscita a penetrare quel mondo ostile “del suo bambino”. Basta crederli grandi, che decliniamo ogni responsabilità. E non c’entra se li abbiamo forniti di beni materiali, ma solo quanto si sia preso a cuore la loro formazione, quanti pensieri positivi depositati nel loro animo, quanta fiducia accordata, quanto affetto manifestato, quanto siamo disposti a fare per loro senza mettere in primis il nostro narcisismo, arroganza, presunzione di essere il meglio, procurandogli, in questo modo, un danno. Comunicare è trovare un posto nel cuore dell’altro, creare un rapporto profondo. Non dobbiamo promettere ma presentargli la vita nei suoi vari aspetti, evitando di edulcorare le verità. Anche lo scontro è necessario. I sentimenti non vanno né smorzati né esagerati. Se proviamo affetto, dimostriamoglielo, lo stesso se siamo contrariati, se non approviamo, se abbiamo paura per quello che fa. Un genitore non è un dio, cerca solo di sperimentare e capire la strada giusta. Ma quanti hanno il coraggio di chiedere al figlio da dove viene, con chi esce, se sta bene, qual è la sua situazione affettiva, quali i suoi desideri, i suoi sogni e le sue paure? Se queste domande pensate siano troppo personali, immaginate quanto lo sia ritrovarsi un figlio estraneo. I silenzi in certi casi amplificano le difficoltà,  e non fanno altro che indurli a chiudersi in quella scatolina telefono che contiene tutto ciò di cui hanno bisogno e da cui escono fuori proprio i genitori. Fate caso: i figli non seguono i genitori su facebook, non partecipano a eventi con loro, non vogliono che questi vadano a scuola, che si impiccino, che controllino. E’ un atteggiamento dell’età, della crescita, di quel bisogno di mostrarsi adulto. Simulano comportamenti di persone vissute e magari hanno solo paura. A volte è bene invadere il campo altrui, il modo migliore per conoscerlo, mentre a starne fuori si finisce per non entrarci più. Un genitore che non percorre la strada del figlio e lo lascia crescere come una pianta sferzata dalle intemperie, credendo che così si irrobustisca, non sospetta che il vento e l’acqua possano anche abbatterlo non trovando solide radici? La droga non è solo una sostanza, ma una risposta rapida alle emozioni dell’adolescenza. Induce a una sospensione dal mondo, allontana dal quotidiano che a volte è quello che più respingono. Ci sono le mode da seguire, gli altri da assecondare. E poi si cade in trappole, in zone d’ombra, in vertiginosi vuoti e solitudini. Allo stesso modo l’alcool ipnotizza, dona oblio, dà la sensazione di essere grande. Ci sono poi quei genitori che credono di avere figli ineccepibili, al di sopra degli altri, avendo impartito  loro un’educazione esemplare, così tanto che i figli gli nascondono tutto. E’ così che langue la gioventù, sotto gli occhi distratti o meravigliati dei genitori, che quando prendono in considerazione il problema, è troppo tardi. E poi ci sono a questo punto le frasi di circostanze che non servono: ma è un bravo ragazzo, è di buona famiglia, è tanto caro, non me lo sarei aspettato. Chi assume sostanze, lo fa con continuità. La droga va combattuta con forza e non con silenzi o con la speranza che sia solo una brutta esperienza che prima o poi passerà. Bisogna armarsi di pazienza, voglia di farcela, sia figli che genitori. Il vuoto, la non comunicazione, l’indifferenza, la pretesa sono atteggiamenti nocivi. I figli vanno “marcati” come un territorio da difendere. Bisogna averne il controllo come si fa per qualsiasi bene. E mai mollare la presa! Una famiglia che crede di non farcela ha il dovere di chiedere aiuto. La droga è un problema di tutti, non una vergogna. La vergogna è di una società che guarda indifferente alla caduta dei giovani! 

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I giochi di una volta




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Sul muretto di fronte un bambino ha tra le mani un telefonino ed è tutto preso dal gioco, gli occhi fissi al display come spilli. Osservo lo spazio intorno a lui, gli alberi, la siepe, le aiuole e non capisco come faccia a non rendersene conto, a non vedere. Il suo collo è completamente sporto in avanti. E pensare a tutta la fatica dell’uomo a mettersi in piedi, in posizione eretta. Ma non è colpa sua, è nato nell’era tecnologica, dei bottoni da pigiare e dell’interazione con le macchine. Davanti a questa scena mi ritorna alla mente quello che io riuscivo a fare in pochi metri di cortile, da bambina. Non ho mai più provato una libertà come quella di giocare all’aria aperta. Si scendeva tutti a un’ora prestabilita e compatibile con gli orari del condominio e subito la scelta cadeva sul gioco della “campana”, detto anche della “settimana”. Si partiva col disegnare le caselle al centro del viale e intanto che si  tracciava la sagoma, gli altri si intrattenevano a contare le catenelle,  a far rimbalzare la pallina, a mostrare  le figurine. Appena pronti, partiva la conta. Era un gioco di abilità, di equilibrio, controllo del piede a non sostare sulle linee, di ginnastica, facendo attenzione a non infrangere le regole. Gli occhi di tutti seguivano il piede del giocatore, con la speranza che finisse in fallo per dare ad altri la possibilità di giocare. Noi ragazze mettevamo i pantaloni per non scoprirci le gambe nei salti. Quando accadeva di indossarla, evitavamo passi lunghi, ci si muoveva come anchilosate e per questo motivo, quasi sempre, il nostro gioco finiva presto. Il tempo passava senza accorgercene. Si scendeva col sole e si saliva col buio, soprattutto in estate. I giochi erano tanti: la palla avvelenata, il nascondino, un due tre stella… Non importava quello che facevamo, ma come stavamo insieme. Si imparava a litigare, a rispettare l’altro, a prendere posizione all’interno del gruppo, ad aiutare i compagni. Il gioco come momento educativo e formativo. Quei rumori di palloni che balzavano, gessi che tracciavano, reti che venivano sistemate erano attività che impegnavano molto e non davano tregua, erano sottofondi alle nostre risa e chiacchiere. C’era una collaborazione e una complicità che fuori dal gioco non abbiamo mai avuto. Si formavano gruppetti a raccontare la giornata, i compiti, gli episodi scolastici.  Era così che si cresceva insieme. C’era sempre tanto da dire e da confrontarci. Oggi un freddo schermo cattura l’attenzione facendo allontanare dalla realtà. E’ finito il tempo di vivere all’aria aperta, di guardarsi intorno e scoprire la natura. Di generazione in generazione i giochi non sono diventati altro che chiudersi in un piccolo spazio, laddove prima si tornava a casa solo per dormire. I nonni avevano giochi ancora più semplici dei nostri. Molti raccontano dello “strummolo”, il gioco della trottola e passavano ore in mezza alla strada a rincorrere il pezzo di legno che girava tirando una funicella. Altri creavano il loro trabiccolo fatto con assi di legno e ruote di ferro per prendere una discesa e correre all’impazzata. Era l’antenato del monopattino. Spesso camminavano tenendo la tavoletta in mano tirata da una cordicella mentre chiacchieravano come adulti lungo la strada. E come non menzionare i giochi con la corda, la staffetta, la cavallina, le biglie…Giocare è sperimentare la vita, conoscere quello che si ha intorno. Il gioco, per il pedagogista tedesco Friederich Froebel, è l’equivalente lavoro degli adulti. Con esso il bambino crea, impara a rapportarsi. Giocare non è un lusso ma un bisogno, così come prevede anche la Convenzione dei diritti del bambino. Oggi i piccoli ricevono solo doni tecnologici. Con un telefonino giocano anche a letto, magari guardando il display sotto le coperte, ancora con gli occhi appiccicati. Il gioco è vita, per i piccoli come per i grandi. Quando sono ritornata al bambino sul muretto, era ancora lì a smanettare convulsamente a telefono. Che tristezza per i genitori che si pongono come unico obiettivo quello di regalare sempre l’ultimo modello alla moda ai figli, un  benessere irrinunciabile. Con telefonino al seguito possono controllarlo, chiamandolo mille volte al giorno, avere in tempo reale sue notizie e posizione, e fornirlo di uno strumento, secondo loro, con cui potersi difendere.  Esprimono così le loro paure e loro angosce che trasferiscono ai figli. Questi, adeguandosi,  giungono a paradossi, come quello di comunicare col telefonino anche da una stanza all’altra. Questo non è gioco, ma un grande fratello che aleggia tra di noi, incrementando il nostro senso di inadeguatezza. Il gioco rendeva autonomi e il bambino si sperimentava, mentre oggi la tecnologia li rende dipendenti.

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"Nel mezzo del tempo" alla Biblioteca "Terra" di Angri

L'Associazione il Faro inaugura il nuovo anno con una presentazione letteraria  "Nel mezzo del tempo", mio nuovo romanzo, Graus Edizioni,  che sarà presentato domenica 20 gennaio alle ore 18.30 presso i Locali Centro Polifunzionale - Biblioteca "TERRA", via Incoronati, 32 ad  Angri.
La serata a cura de Il Faro sarà moderata dalla giornalista e associata Concetta Mainardi, con interventi degli attori che  rappresenteranno alcuni passi del libro.Interverranno gli attori de Il Faro con la lettura di brani tratti dal libro.
Il Faro ringrazia l' Associazione IL Quadrifoglio e l'assessore Maria D'Aniello per la disponibilità. 
Vi aspettiamo con un altro emozionante incontro!





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Bonea




Bonea è un piccolo borgo lungo la strada Raffaele Bosco, direzione circolare sinistra. Un grappolo di case tra la collina e il mare. Per la stradina interna si giunge a Vico. E’ un passaggio obbligato per chi sale tagliando la zona a metà. Questi paeselli appoggiati alle colline  non si vedono dalla strada principale e pertanto non si ha la percezione di un luogo abitato. Tutto è ben nascosto, si sviluppa all’interno, come un gheriglio nel suo guscio e poi nel suo mallo. E’ il luogo che ha dato inizio alla mia storia. A Bonea mio nonno conobbe mia madre, ancora bambina, sulla porta del convento dove fu condotta dai parenti dopo la morte di sua madre. Fu così che venne adottata. Lei mi raccontava sempre di quando mio nonno, scendendo verso Vico, a piedi, la trovava sull’uscio ad aspettare. Ascoltando il suo racconto immaginavo il luogo, il convento, la stradina. Mio padre mi condusse sul posto. Ho rifatto il percorso del nonno, arrivando al punto di quel che restava del convento. Oggi non rimane che una scarna casa con balcone  e sotto il portone d’ingresso su cui si affacciava mia madre. Un po’ distante un muro con su la scritta del convento. Ho provato tenerezza a vedere l’uscio chiuso, l’orto, i muri spessi del colore del tramonto, il verde intorno. Più in là bambini che giocavano a pallone facendomi ricordare quando ero io a giocare come loro,  nel giardino sotto casa. Mi sono seduta sulla scala di un uscio e ho ammirato la bellezza dei maestosi portoni, la maggior parte rifiniti con arco. I pomelli di ferro lavorato, la cornice ovale intorno, le pietre scure su pareti rossicce. Mi figuravo da qualche curva Renzo con i polli che andava da Azzeccagarbugli, o Don Abbondio che veniva “bel bello” dalla sua passeggiata. Guardavo gli scorci e il sole che penetrava nelle strette vie lasciando in ombra zone interne, con un gioco di luce che cambiava ad ogni ora. Ho percorso a piedi tutta la strada, per un tratto assolato, intorno alberi di noci e altri frutti. Il posto è così pittoresco che non solo ne ho fatto ampie descrizioni ne L’albero di noci, ma ci sono ritornata anche nel nuovo romanzo. La protagonista, Margherita, percorre Bonea a piedi dopo essere stata dal parroco, nella Chiesa di San Giovanni Evangelista, “che venne restaurata dalla famiglia Balsamo agli inizi del ‘600. Quella attuale fu costruita nel 1734 dismettendo quella antica. Il campanile sormontato di merlature in tufo lanceolate è molto simile a quello di Santa Maria del Toro, con ulteriore funzione di avvistamento e difesa del territorio. Il portale di tufo racchiude nella parte centrale  dello stipite l’immagine della vergine” (13 chiese casali, arte territorio fede a cura di Luigi Vanacore, Catello Arpino, Domenico Leonetti). La protagonista scendendo ammira le tonalità dei muri che si ergono ai lati della strada.”Cominciò a scendere a piedi da Bonea. Il bello del suo paese era che ti potevi nascondere nelle stradine strette che dalle colline scendono verso il centro. Si ha l’impressione di essere presi tra le mani dai muri laterali che cingono i vicoli, così alti, chiusi al sole, quasi come un abbraccio protettivo.” (Nel mezzo del tempo, Graus Edizioni.) In quest’ultimo romanzo i luoghi sono grandi protagonisti. Affido a Bonea e alla chiesa di San Giovanni Evangelista un momento particolare quando la protagonista, ricevendo una lettera, supportata dal parroco, va alla ricerca di un posto per leggerla in santa pace e scende per la stradina che le fa da culla ai pensieri. Bonea merita di essere menzionata anche per un personaggio di cui mia madre parlava spesso rievocando il periodo al convento: Don Pinuzzo, Giuseppe De Simone, sacerdote e giornalista, nonché poeta. A casa dei nonni si sentiva spesso il suo nome. Mia madre raccontava aneddoti e fatti relativi a quel periodo. Bonea e Don Pinuzzo, un binomio indiscindibile. Qui era nato il 5 aprile del 1907. Diede grande impulso al luogo con attività che coinvolgevano gli abitanti e soprattutto i giovani. Bonea è un luogo simbolo, come se racchiudesse molte verità a me taciute e mi piace girarci intorno, conoscere fatti e ricordi che mi parlino di mia madre. Un luogo che sa di antico, di echi del passato riportando persone, libri letti e situazioni vissute. E’ uno scenario da cartolina, ovattato per le sue mille possibilità di sfuggire ai ritmi serrati di oggi e crearsi percorsi a misura d’uomo. Un borgo a metà collina con il mare davanti e Faito alle spalle, con ulivi, viti, noci, con il sole che la abbraccia donandole riflessi  presi a prestito dal cielo e dal mare, con i roseti sparsi e nascosti, con i silenzi, i versi di animali e di uccelli, con i gatti che miagolano riscaldandosi al sole, con i pensieri che si appoggiano sui lidi di fronte. Bonea è un bottone chiuso alla sua asola sulla facciata di un abito verde, sempre rigoglioso. Il vento serpeggia tra i vicoli non solo a marzo, ma porta brezze serali e mattutine. E quando di mattina si aprono porte e finestre sull’azzurro di fronte, da queste parti, si ha sempre il sorriso migliore: abitare  un posto unico al mondo che sin dal mattino ti mette il buon umore.

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Nel mezzo del tempo alla Ubik di Vico Equense, articolo di Claudia Squitieri- Agro Today

 Grazie a Claudia Squitieri per l'articolo sulla presentazione di ieri alla Ubik di Vico Equense.

Un ricordo custodito nella mente che riaffiora, durante una passeggiata nei luoghi dell’infanzia, diventa l’ispirazione per una storia della scrittrice Filomena Baratto che alla Ubik di Vico Equense ha spiegato così, la nascita del racconto “Nel mezzo del tempo”, Graus Edizioni. La figura di una donna “diversa” perché non accompagnata, che vive sola, oggi si definirebbe single, bollata come folle e un po’ stramba, probabilmente proprio per questa contrapposizione con l’idea di donna sposata e con prole in auge qualche anno fa, attirano l’attenzione di una Baratto-bambina che recupera quell’immagine per raccontare la vita di tre donne, legate tra loro da un legame di sangue.
E le esperienze dell’una si intrecceranno con quelle delle altre, delineando i pilastri di una crescita personale sempre in bilico tra ciò che si desidera e ciò che non è, ma potrebbe essere. Una storia al femminile, che dovrebbero leggere anche gli uomini perché i sentimenti appartengono a tutti, dove gli intrecci affettivi descritti svelano un percorso che si traduce in un itinerario sentimentale volto alla ricerca di uno spazio dove riuscire ad esprimere in un modo nuovo quell’arcaico che sopravvive al tempo. Già , il tempo, citato nel titolo, quello che caratterizza l’età di mezzo e diventa l’occasione per tracciare bilanci, come sottolinea l’autrice. La protagonista e i personaggi di cui si narra, sono nell’età in cui la sincerità è una possibilità concreta che scaturisce dalla conoscenza e dall’accettazione di sé. L’amore invade le specifiche esistenze, e ognuno ama nel modo che gli è proprio e, per questo, ne accetta le conseguenze. C’è una maturità in questa consapevolezza che supporta una crescita che riconcilia con la vita stessa. I luoghi sono quelli che la scrittrice conosce bene perché sono quelli dell’appartenenza, delle radici che nutrono e ormeggiano al presente. Il Comune è quello di Vico Equense, il più vasto della Penisola Sorrentina, che con i suoi squarci sul mare dalle infinite cromature incanta, da sempre, stranieri e residenti e dove “ un manto verde di ulivi e macchia mediterranea a perdita d’occhio finivano a mare come una coperta sulle colline sotto i suoi piedi”.
                                                                                       Claudia Squitieri

I Re Magi


Quando riponiamo i pastori nella scatola per riprenderli l’anno successivo, immancabilmente qualcuno può rompersi e tra questi di sicuro uno dei Magi. La posa regale, il peso del mantello, il copricapo, l’abito sontuoso, i doni in mano, sui cammelli in atto di avanzare, tutto contribuisce a fargli perdere l’equilibrio e facilmente si perde una testa, una zampa di animale, un piede. Sono troppo massicci rispetto agli altri pezzi del presepe. Che capanna sarebbe senza i Magi? Così vuole la tradizione e noi gli diamo un posto d’onore sulla scena. E poi offrono al Bambino doni speciali: oro, incenso e mirra. Li precede la stella cometa che li porterà dritto alla capanna. Sono duemila anni che raccontiamo questa storia, la rappresentiamo. Accanto al testo sacro dei Cristiani, la Bibbia, la cui conoscenza releghiamo alla lettura domenicale in chiesa, c’è anche la scienza che si pone domande quando la  leggenda e l’aspetto letterario delle sacre scritture, col potere di incantarci da secoli, non collimano con fatti storici o scientifici realmente accaduti. Dopo un’attenta analisi le cose non stanno proprio così. Ci piace che i Magi siano tre, forse per rappresentare il numero perfetto. Si chiamavano Gaspare, Melchiorre e Baldassarre e abbiamo fatto sforzi di memoria e di pronuncia a imparare questi nomi strani. Siamo sicuri che si chiamassero così? E se fossero stati di più o di meno? E ancora i doni, solo tre, come il numero dei Magi. Insomma la faccenda non è semplice da dipanare. Sappiamo per certo che se ne parla solo nel Vangelo di Matteo (2,1-12), 12 versetti in tutto, gli altri non fanno menzione dei Magi, a meno che non si faccia riferimento ai Vangeli apocrifi. E chi sono i Magi? Dei re? Da dove venivano realmente? Sicuro che portavano solo oro, incenso e mirra? Essi erano astrologi, capaci di interpretare sogni e leggere gli astri e tra loro qualcuno fu re. Possiamo dire che nel Vangelo di Matteo si fa riferimento ad “alcuni” e non a tre. Il dubbio sul numero ci viene da immagini dove se ne trovano a volte due, altre, quattro. E poi la cometa. Di quale stella parliamo? Secondo Plinio il Vecchio diverse stelle con la coda si videro molto prima della nascita di Gesù. Il fatto che giunga a noi una cometa sarà tutta colpa di Giotto che dipinse la stella con una scia così come aveva osservato il fenomeno della stella di Halley nel 1301, rappresentandola poi nel 1303. Ma quando nacque Gesù non ci fu nessuna cometa. Il fenomeno di cui si parla è da identificare come una congiunzione dei pianeti Giove e Saturno che in un anno furono molto vicini. Questa è la tesi di Corrado Lamberti direttore della rivista Le stelle. La possibilità che si tratti di questo fenomeno la si riscontra su tavolette babilonesi che preannunciavano l’avvenimento. Accadde verso il 4 a.C. e quindi dobbiamo anticipare la nascita di Gesù che molto probabilmente avvenne entro l’8 a.C. e non così tardi se Erode morì nel 4 a.C. e fu colui che ordinò la strage degli innocenti. Fu proprio in base al calcolo della stella che la nascita di Gesù è stata anticipata. Per quanto riguarda l’Oriente questo potrebbe essere l’Iran, per il fatto che era il paese che  possedeva i tre doni dei Magi. Ma poteva essere anche l’Iraq o l’Arabia, cioè paesi percorribili con i cammelli e ricchi di merci preziose. Secondo altri scritti i Magi non trasportavano solo i doni di cui sappiamo, ma vere e proprie carovane di ogni genere di merce. Ma tutto questo a noi non interessa se sono tanti anni che continuiamo a posizionare i nostri Magi nel presepe, fanno parte della nostra tradizione con i loro doni di rilievo come la mirra: una pianta medicinale da cui si estrae resina, simbolo della cura; l’incenso simbolo della purezza e l’oro che rappresenta la regalità. Ecco il motivo per cui quando li sistemiamo, lo facciamo con la massima cura: sono i pezzi più importanti dopo la Famiglia e adorano il Re dei Re. Quel Re di cui ebbe paura Erode il Grande, così tanto da emanare un editto con cui ordinava la morte di tutti i primogeniti maschi. Non sempre la scienza e lo storia insieme riescono a scalfire quello che la tradizione e la leggenda hanno costruito in noi: una capanna intoccabile dove ogni pezzo ha un ruolo fondamentale.

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Nel mezzo del tempo alla Ubik di Vico Equense

Domani, giovedì, 3 gennaio 2019, alle ore 18.00, alla libreria Ubik di Vico Equense ci sarà la presentazione del mio ultimo romanzo "Nel mezzo del tempo", Graus Edizioni. Con me ci saranno la professoressa Alberta Maresca mentre le letture saranno affidate all’attore Antonio Novi. Il nuovo romanzo, uscito il mese scorso e alla sua seconda presentazione, ambientato a Vico Equense e Costiera, è la storia di un amore che ritorna in età matura riportando alla luce i nodi e le situazioni non risolti di un tempo. In seguito a questo evento ritornano alla luce dubbi e incertezze e la stessa protagonista, Margherita, deve confrontarsi col passato delle due donne più importanti della sua vita: la madre e la zia. E’ un romanzo introspettivo che analizza gli animi dei personaggi davanti alle loro scelte e quanto queste dipendano dai loro sogni, dalle loro mancanze, ferite, delusioni. Ogni vita si costruisce giorno per giorno, dove i passi precedenti sono le premesse per quelli futuri. Gli errori, inevitabili per crescere, diventano un passaggio indispensabile per costruire le difese necessarie a dare impulso alle scelte e ai cambiamenti della vita. E in questa ruota si innestano le attese e le speranze di progetti futuri. La storia procede in modo scorrevole, ironico, dove la trama è un supporto a un discorso più profondo e incisivo che mette il lettore di fronte a se stesso senza possibilità di arretrare. I luoghi hanno un valore di primaria importanza, assolvendo a una funzione lenitiva e consolatoria quando curano le ferite, o di rimprovero quando annunciano tempeste, e ancora di scoperta quando racchiudono parole, profumi e voci che rievocano momenti felici. E non potevo esimermi dal ripercorrere i luoghi dell’anima della mia terra, che io rincorro e loro si lasciano afferrare in un gioco di eterna riconoscenza. Un libro “da leggere e rileggere”, come affermava Franco Gallo, relatore della sua prima presentazione a Castellammare di Stabia, “per quello che dice tra le righe ma soprattutto per i ritorni di riflessioni che arrivano come echi continui pur avendolo finito.

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