Il padre


   



Che cos'è un padre? Difficile definirlo e tutte le risposte possibili disattendono quello che vogliamo sentire. Metà del nostro patrimonio genetico è sua, e si sarà anche dimenticato il tempo, il luogo e modo in cui è accaduto. Diversamente una mamma conosce il giorno e l’ora in cui concepisce, per lei le date sono segnate in rosso. La madre ci porta alla luce, il padre ci porta per il mondo. E’ un osservatore, un pioniere di una terra sconosciuta che  partorisce in altro modo.  Eppure ci sono aspetti di noi che conosce meglio di ogni altro e in profondità. Una presenza poderosa capace di smuovere i nostri pensieri, cambiare le nostre opinioni, dare ordine e luce alla nostra vita. Nei figli è alla ricerca di se stesso: le passioni, gli ideali, visti come elementi chiari di quel legame. E succedono questioni per  un naso, un carattere, un’aspirazione, un vizio o una virtù del figlio e che vuole appartengano solo a lui,  per ostentare una paternità difficile da costruire. Il genitore si riconosce nel figlio e lo induce a intraprendere quel percorso che gli ha preordinato con la speranza di portare a termine ciò che in lui si è fermato. E una nuova giovinezza prima e maturità dopo ritornano in lui come quelle dei figli, estensione del suo territorio, nuove terre che necessitano di un buon governo. E a tal fine guardano al futuro, alla vita che comincia sempre e non si estingue mai. Sono i guardiani, i fari che illuminano, con tutte le imperfezioni e le mancanze, con i limiti e le cadute. Fanno progetti lavorando sul domani, su cui scommettono per una vita all’altezza dei figli. Sono lungimiranti, profetici, precisi,  a tratti noiosi, ripetitivi, ma efficaci nel ruolo cui assolvono. Anche quando i figli non potranno eguagliarli, per essere esempi troppo alti, o quando la vita non è generosa con loro e non hanno nulla da offrire, o quando non sono pronti e si lasciano trasportare e non sono di esempio, in tutti questi casi non sono da biasimare.  Conoscono sempre il modo di infondere la scintilla d’amore per accendere la nostra vita e che ci permetterà, a nostra volta, di accenderne altre. E’ una fonte, una forza, un gesto di cui abbiamo bisogno così tanto che ci avvinghiamo a lui  come i tralci alla vite, senza temere  il vento che ci sconvolgerà o la pioggia che  ci bagnerà. Ci basta sapere che possiamo appoggiarci e quando spuntano i germogli, sappiamo dove indirizzarli, che forma dargli, quale strada intraprendere. E non esiste tra padre e figlio incomunicabilità che non possa sciogliersi o offesa che non possa cancellarsi in suo nome. Il padre è presenza attiva, testimone e custode della vita del figlio, che deve preservare e supportare. Un ruolo che si arricchisce ogni giorno con un  confronto continuo, che si impara strada facendo, memore anche  della sua stessa esperienza di figlio. Un padre lo è sempre a suo modo, che è unico e inconfondibile. Ed è questa peculiarità che lo rende prezioso: si uniforma al figlio attraverso un canale esclusivo, gli dà ciò che gli è mancato, quello per cui vive. Ogni padre per suo figlio diventa un re, un esempio da emulare. E lo diventa anche se non se ne accorge, se non è d’accordo con lui, se lo contrasta. I figli hanno bisogno di quell’orma nella sabbia per orientarsi e, per quanto l’orma possa essere indefinibile, nascosta o poco chiara, è indispensabile. Un padre va sempre rispettato e onorato, fosse anche solo per averci dato la vita.

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Io, Umberto e Felicina...





Ore 11.30 al bar con un artista: Umberto Astarita! Io sotto il sole di marzo ad aspettarlo, lui, come sempre educato e attento, mi chiama per dire che sta in leggero ritardo. Lo scorgo da lontano nella sua stazza inconfondibile, dall’andatura dondolante, con la sua cascata di riccioli, immancabilmente a telefono. Di lì al bar. Gli mostro il mio libro e lui cosa fa? Sorride alla vista del disegno in copertina  che racchiude un tratto del sentiero della Sperlonga, la  casa in fondo e in primo piano zia Felicina e lo stuolo di animali al seguito. Un artista lo riconosci dal primo contatto con ciò che ha intorno. Col dito passava sulle linee del disegno, come i bambini che scoprono qualcosa di importante in semplici cose. E solo in un secondo momento mi ha chiesto se lo avessi fatto io. Alla mia risposta affermativa la sua attenzione è andata alla cocorita sulla spalla della zia e alla casa. Credo abbia significato qualcosa anche per lui se ha mostrato di volerci andare al più presto. E così ci siamo immessi virtualmente sul sentiero, avevamo la sensazione di camminarci mentre io gli spiegavo la collina, il panorama, le luci, i profumi. Poi è stata la volta di Zia Felicina. Gli ho parlato di lei, rappresentata così come vestiva, con quello scialletto con i colori del mare come l’ho conosciuta nella realtà, le scarpe basse da montagna, le gonne ampie. L’ho descritta facendo attenzione a non svelare la trama.  E’ rimasto a contemplare la cocorita sulla spalla dell’anziana donna e mi continuava a dire che gli piaceva molto. Un artista è così, trova corrispondenze continue tra la sua vita e quello che gli gira intorno, tra le sue emozioni e quelle degli altri. L’artista Umberto è un fotografo, un pittore, un osservatore attento, con l’animo di un fanciullo, che è poi quello di ogni artista.  Ha messo in moto subito la sua memoria, i suoi desideri, ha parlato della sua tecnica pittorica, dei colori dell’Africa, dell’America Centrale, degli artisti conosciuti lì, di politica, di progetti. E quando ci incontriamo i nostri discorsi si sovrappongono sempre,  presi dall’entusiasmo dei rispettivi progetti a cui vogliamo dare fiato. E non finisce l’uno di raccontare che l’altra sta già parlando e viceversa. E le voci si rincorrono, nascono  idee che si lasciano e poi si riprendono nei discorsi, fatti soprattutto di storie di vita. E non poteva non mostrarmi i dipinti di un pittore conosciuto a  Cuba di cui mi spiegava la tecnica, e io di rimando le tele che sto ultimando e poi il desiderio di dipingere un prato stile Renoir e  lui a parlare di una villa dove abbiamo preparato un servizio fotografico e io a riprendere Felicina e lui a dirmi di volere il primo disegno a matita della copertina del libro, dopo averlo visto sul display del telefonino. E mentre parlava mi rendevo conto del vero artista che avevo davanti. Com’è un vero artista? E’ senza tempo, senza invidia, con un grande cuore, volto al bene, con una generosità immensa,  scopritore di mondi nuovi, universi per altri irraggiungibili, che per l’arte trova sempre tutto: il tempo, l’entusiasmo, i  luoghi, gli spunti, che si accerchia di persone che stima e ammira, a cui non interessano discorsi futili, volto alla contemplazione della bellezza, da quella dell’anima al mondo fisico. Mentre parlava mi rendevo conto del motivo per cui gli italiani sono creativi, con quello che si ritrovano intorno, nel paese del Rinascimento, in una terra unica. Ed è stata la volta poi  di Pinocchio, passando per il Grillo, la Casina Vanvitelliana, gli appunti su Leonardo e il suo metodo di studio e di pittura, alla tecnica del pittore cubano, che sovrapponeva pezzi artigianali sulla tela ricca di uccelli variopinti, ai tramonti africani, alle donne senegalesi, ai bambini che giocano nel fango, ai migranti, alla caduta del Boeing 737, alla necessità di andare in Africa, ai Cinesi che hanno comprato parte del deserto africano, all’Islamismo e ai cimiteri africani, ai pannelli fotovoltaici, ai riposi all’ombra di un baobab africano a disquisire di cavalli, di campi da arare, di gente da sfamare. Che vulcano! E nelle nostre ampie divagazioni  con voci che si accavallavano, con telefoni che squillavano, e noi irremovibili, non avevamo mica intenzione di rispondere e rompere quel filo di parole e risate, ci siamo persi sul sentiero della Sperlonga tra gli alberi e la cocorita, i cani e i gatti, le linee e l’inchiostro di china. Ora la mente pullula di idee, di immagini trasferitemi, di colori e sfumature uscite dalle foto del grande maestro, con quelle atmosfere che rimanda ai Racconti africani di Doris Lessing o Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, un’invasione mentale da digerire lentamente, meglio di qualsiasi altro stordimento. Ma dall’artista  Umberto Astarita emerge soprattutto tanta umanità come non ne trovi negli altri, senza la quale anche la sua arte sarebbe una mera esercitazione. Grazie Umberto.



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Nel mezzo del tempo alla Ubik di Nocera Inferiore



 Libreria Ubik di Nocera Inferiore (Sa) di Vincenzo Grimaldi per presentare Nel mezzo del tempo, giovedì 28 febbraio 2019. Con me Rosa Gargiulo, direttrice artistica della rassegna Nuovi scrittori scrivono













Abbracciami ancora



Oggi guardavo le foto dei miei figli da bambini. Dovevo riporre delle cose e sono finita nel cassettone dei ricordi. Con le immagini tra le mani, ho fatto delle amare considerazioni: il tempo passa e la vita capovolge le situazioni. E poi i fatti accaduti, alcune persone delle foto che non ci sono più, i momenti belli sfumati come aria al vento. Oggi fotografiamo la vita per fermarla e non ci rendiamo conto che così la perdiamo. Immortaliamo tutto per custodire un ricordo. Ma a cosa serve se proprio quel ricordo ci farà del male riportandoci cose che non ci sono più? Le foto mostrano i bambini  che mangiano, succhiano, giocano  e poi i compleanni, le comunioni, i compiti, il catechismo… Che fatica crescerli, stargli accanto in ogni momento, assistere alle loro esperienze:  la caduta del primo dente, il primo giorno di scuola, la prima volta lasciati da soli, il sonno sfumato, le bottiglie di latte preparate, le paste, le sogliole, i dolci, le torte, gli amici. Quante cose riportano le foto, e poi tensioni, paure, ma pure gioia. Sembra ieri ma sono passati decenni. Adesso sono cresciuti, ormai uomini e donne forti, non hanno bisogno  di guida e ne sanno più di noi. E a questo punto ho pensato alla mia amica con la madre in avanzato stato di demenza, che non la riconosce e non le parla più. Che ingiustizia anche per i figli che curano i genitori come fossero bambini sapere che non avranno più da loro quelle attenzioni di un tempo. La mia amica insiste nel cercarle, vorrebbe che la chiamasse ancora per nome, che la riconoscesse, che fosse la mamma di sempre, di quando era bambina. E’ diventata tutto un meccanismo. Sua madre ora è come una bambola con cui gioca: la lava, la pulisce, la imbocca, la pettina e si chiede che fine abbia fatto la donna di prima. Forse la vita stessa ci ripara da certe amarezze e dispiaceri mettendoci davanti realtà dure per prepararci al peggio. Quella stessa madre l’ha cresciuta, l’ha educata. Un tempo era bella e forte, ora è un involucro privo di reazioni. Sarebbe bello se sua figlia si sentisse dire ancora una parola dolce, ricevesse un abbraccio, una carezza. L’affettuosità ormai non c’è più. E’ lei che la abbraccia e la accarezza, la aiuta, le cucina, le fa compagnia. Le mamme non dovrebbero essere mai avare di baci e carezze coi loro bambini anche da adulti. Non sono solo i figli a dare preoccupazioni, anche i genitori lo diventano per i figli quando non sono più autonomi e perdono la capacità di relazionarsi come solo loro sanno fare, con tutte quelle stupide raccomandazioni, un modo infantile di manifestare l’affetto. Le mamme  si preoccupano solo se mangi, perché il cibo è una forma d’affetto. Chiedere se hai mangiato è come fare una dichiarazione d’amore. I figli ne sono infastiditi e pensano che ci si preoccupi di loro solo per il cibo, come se l’affetto lo dovessero far cadere nello stomaco e solo dopo un’indigestione, sentono di volergli bene. Poi quando diventano genitori li guardano con occhi diversi, comprensivi, riconoscenti. Ora sono diventati  i loro tutori e rendono quello che un tempo hanno ricevuto. La vita è una ruota che gira e riporta indietro quello che è stato dato. E  in questo ciclo a volte duro e inaccettabile, essa ci difende, rendendoci la verità un po’ per volta.  La  freddezza  della malattia li allontana  da noi, facendo scemare la sofferenza per il distacco. Ora vivono con la leggerezza dei bambini, bisognosi solo di cure e attenzioni. E ci troviamo a rifare esattamente quello che un tempo fecero a noi. E mentre ci hanno visto crescere, noi dobbiamo assistere alla loro fine. Sarebbe già una fortuna se vivessimo la loro età, e così accettiamo per amore di noi stessi, con la speranza che a nostra volta qualcuno si prenda cura di noi quando non saremo più capaci di vivere autonomamente. E guai a pensare che non ne avremo bisogno! La vita evolve e ci cambia senza chiederci il permesso!

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