Delle tre cantiche di cui è composta la Divina Commedia, l’Inferno è la prima. Il viaggio inizia nella notte tra giovedì e venerdì santo dell’8 aprile del 1300. Comincia con la discesa all’Inferno, che Dante immagina a forma d’imbuto, una voragine prodotta da Lucifero sprofondato al centro della Terra, angelo traditore con Giuda, Bruto e Cassio. La porta dell’Inferno è posta a Gerusalemme. La terra, a quel tempo, era vista come una sfera immobile al centro dell’universo, abitata solo nel nostro emisfero, concezione tolemaica che ripercorre tutto il Medioevo fino a essere soppiantata dalle scoperte di Copernico e Galileo. Dante distribuisce i dannati in base ai loro peccati, per cui, man mano che si scende, aumenta la gravità del peccato e la pena inflitta segue la legge del contrappasso, secondo il cui principio si sconta infliggendo il contrario della colpa o per analogia.
Nell’Inferno vige il
peccato, l’assoluta negatività. L’uomo cade come nel sonno, dove avvengono i sogni, decodificabili attraverso i
segni che rappresentano la volontà di Dio. Per mezzo di un codice decodificatore
possiamo mettere in luce il significato. Il codice che dà significato è Dio.
Tutto il viaggio di Dante è un’allegoria: si dice una cosa per rimandarne a
un’altra. Nei nove gironi si alternano, lungo la discesa: lussuriosi, golosi, avari e
prodighi, iracondi, eretici, violenti, fraudolenti, traditori.
Dante narra che a metà della sua vita si trova al buio perdendo la via maestra, cioè qualsiasi orientamento. Il buio è rappresentato dalla selva, ai piedi di un colle, alla cui sommità splende il sole. È difficile ricordare “esta selva selvaggia e aspra e forte.” Il buio che v’incontra lo
spaventa, provando smarrimento e paura.
Il canto esordisce con “nostra vita” per indicare ammaestramento e poi ritorna in prima persona con “mi ritrovai” per richiamare all’esperienza personale.
Il nome selva incute
paura e domina per gran parte del canto che s’ispira al modello biblico, con un
linguaggio trasognante. Il luogo oscuro richiama il libro della Sapienza e
dell’Ecclesiaste. In questa prima atmosfera si passa dal sogno al profetismo.
Superata la paura, si appresta a salire ma tre fiere glielo impediscono: una
lonza, un leone e una lupa che rappresentano rispettivamente la lussuria, la superbia
e l’avarizia. Dopo l’apparizione e lo sbandamento prodotto dalle tre fiere, gli giunge
in soccorso Virgilio. L’autore latino assurge qui a guida perché il suo poema
celebra l’ordinamento politico di Roma e vaticina la pace universale
nell’Impero, perché profetizzò, nella quarta egloga delle Bucoliche, l’ordine eterno, cantò il regno dei morti, era romano,
era un uomo giusto e la sua vita era coincisa con la presenza di Cristo sulla
Terra. Nato ad Andes presso Mantova nel 70 a.C. sotto i consoli Crasso e Pompeo, nella sua opera maggiore, l’Eneide, celebra le vicende di Enea, eroe troiano che
giunto nel Lazio diede origine a Roma e al popolo romano. Morì nel 19 a.C.
Il testo si legge in
chiave allegorica. Il vate gli dice di seguire un’altra via. La prima terzina, “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi
ritrovai per una selva oscura, chè la dritta via era smarrita» è divenuta
simbolo della Commedia. Dante affronta il discorso con grande difficoltà
poiché non è facile parlarne. Non ricorda nemmeno come sia giunto a tanto. Ai piedi
del colle vede la strada illuminata dai raggi del sole, quella da intraprendere
per risollevarsi dal peccato. La lupa ha natura così selvaggia che non lascia
passare nessuno. “Non è sola, perché si
ricongiunge a molti animali, che saranno ancor più numerosi in avvenire, finchè
non venga il Veltro”. Il veltro è un veloce cane da caccia capace di
mettere in fuga la lupa. Per quanto concerne il simbolismo del Veltro, ci sono
interpretazioni varie. Secondo un’interpretazione mistica rappresenta Gesù
Cristo, confutata poi da Boccaccio; altri propendevano per Cangrande della
Scala, condottiero e signore di Verona oltre a vicario imperiale; secondo altri
l’autorità Papale, mentre per Dante Benedetto XI. Questi portava nello stemma un
veltro. Il veltro pare che germogli dal profetismo biblico e dall’oracolismo
pagano, suggerito dal VI libro dell’Eneide
con la discesa di Enea negli Inferi e dalla II epistola ai Corinzi. Ma nella
successiva terzina parla di feltro: “Questi
non ciberà terra né peltro, ma sapienza, amore e virtude, e sua nazion sarà tra
feltro e feltro”. Ma essendo il feltro un cencio, un panno, si ipotizzava anche
un personaggio nato avvolto da
cenci. Resta pertanto il mistero intorno
al Veltro. Virgilio si presenta a Dante come guida e gli dice di seguirlo per
il suo bene. Gli anticipa: “udirai le
disperate strida,/vedrai gli antichi spiriti dolenti/ che la seconda morte
ciascun grida/ e vederai color che son contenti/nel foco, perchè speran di
venire/ quando che sia alle beati genti”.
Il vate gli parla del passaggio nell’Inferno e
poi nel Purgatorio e se poi dopo avrà voglia di proseguire, giungeranno in Paradiso.
Lì sarà affidato a Beatrice, poiché Virgilio è pagano e non potrà accedervi.
Dante gli chiede di condurlo là dove gli ha detto per mostrargli la porta del
Paradiso custodita da San Pietro. “Allor
si mosse, e io li tenni retro”.
Quello di Dante è un
viaggio interiore, il perfezionamento di se stessi e si affida alla tradizione
che è posta sul filo di Arianna da intendersi come il cammino dell’uomo verso
Dio. Il pianto di Virgilio di fronte ai dannati è un linguaggio: non piange
tanto per loro ma per la pietà che prova per se stesso. Il pianto è la prima
forma di conversione appena entra nel buio dell’Inferno, della coscienza e ciò
che avverte per primo è lo sgomento. Le anime hanno perso la ragione, che è la
facoltà per cui l’uomo sceglie. L’uomo, come afferma Aristotele, è un animale
ragionevole. E la ragione serve a indicare la strada. Conoscere la verità non
significa averla scelta e seguirla.
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