Io e Franca

 


Io e Franca siamo cugine, figlie di due sorelle. Sua madre, Maria, dieci anni in più della mia, partì per l’Australia negli anni ’50 con dei cugini. Di quattro figli, lei era la prima, mia madre l’ultima, tra loro un’altra sorella e un fratello. Sulla nave che la portava a Melbourne incontrò un ragazzo abruzzese e tra loro fu amore a prima vista. Si ritrovarono fidanzati già prima di approdare. Dal Cilento, prima di lei, erano già partiti in tanti della famiglia dividendosi tra l’America e l’Australia. Allora i migranti eravamo noi. Zia Antonietta, la seconda delle sorelle, mi raccontava della famiglia. Quando andavo a farle visita, apriva la sua scatola di foto e tra risa, pianti e silenzi, in base al ricordo, mi riportava i fatti lontani. Ai miei occhi di bambina la zia d’Australia si presentava come una dea, e non vedevo l’ora di conoscerla. Così cominciai a scriverle assiduamente. Raccontavamo le nostre giornate, il mio futuro, il suo lavoro, la vita in famiglia. Mi trattava in modo affettuoso e il nostro era un rapporto, sebbene a distanza, molto stretto. Quando arrivava la posta, mi fiondavo giù sperando in una sua lettera per me. Cominciai anche a collezionare francobolli: non ne avevo mai visti di così belli. Il postino, che teneva sotto controllo le missive, mi chiedeva sempre di poterli avere. E un giorno mia madre, a mia insaputa, glieli diede. Le feci una scenata.

Negli anni settanta mia zia venne in Italia con la famiglia, per la prima volta da quando era partita. Fu un evento straordinario. Si divise tra i parenti del marito in Abruzzo e noi in Campania. Una donna alta, bella, gioviale, affettuosa. Andavamo in giro, a mare, a visitare luoghi stupendi della nostra regione e poi a casa, a cucinare per tutti, come fossimo stati sempre in festa.  Sembrava un sergente che portava al seguito il suo drappello. Mi piaceva sentire poi le due sorelle confabulare in poltrona. Momenti rari di cui mia madre aveva sentito sempre la mancanza. A volte sembravano due bambine. Qualche volta facevano tenerezza a vederle abbracciate in silenzio.

Un giorno mia zia tirò fuori dalla valigia un vestito per me. Era di colore rosa, lungo, lo aveva cucito lei. Alla vista del suo vestito, mia cugina ebbe una crisi di pianto, tanto che la madre dovette riporlo di nuovo in valigia. L’abito serviva per la festa di San Mauro, a Capizzo, nel Cilento. Mio nonno, notato il mio risentimento, in viaggio per Salerno, appena giunti in città, mi portò a comprare un vestito. Lo ricordo ancora: bianco, di lino, con grandi farfalle colorate. Costò cinquantamila lire, una cifra notevole per un abito allora. Fu chiuso in una scatola di quelle con grandi fiocchi come nei film. In macchina andò nel cofano, ma appena ci apprestammo a salire, ci fu un altro pianto di Franca, questa volta per non aver avuto il vestito nuovo.  Questo episodio del vestito fu l’unica cosa che ricordai dopo la partenza di mia cugina. Il giorno di San Mauro fu come la più grande festa di famiglia cui avessi mai partecipato. Nonostante non siano rimaste in giro molte foto di quel momento, è tutto registrato in mente.

 Dopo San Mauro, riprendemmo ad andare a mare e la vacanza continuò tra bagni e passeggiate. Un giorno accadde un fatto increscioso. Mia zia uscì verso le 17 alla ricerca di piante ed erbe aromatiche lungo i sentieri delle campagne. All’ora di cena non si presentò. Scendemmo tutti giù a cercarla. Mio zio furioso, come “Orlando”: andava avanti e dietro come un drago che preparava il suo fuoco. Verso le 10 vedemmo emergere dal buio della strada mia zia. La riconoscemmo dall’andatura, per niente sconvolta, serena, allegra per aver trovato un fascio d’erba miracolosa. Se solo fosse stata più piccola fisicamente, si poteva vedere in lei “la donzelletta che vien dalla campagna in sul calar del sole”. Ma venti di guerra erano già in movimento negli occhi di mio zio.  Ci fu una discussione interminabile tra loro due che non riuscimmo a dirimere. Tra l’altro parlavano in inglese, rispondevano in italiano e ci scappava pure il dialetto. In tutto questo dimenticammo di mangiare. I giorni passarono in fretta e giunse quello della loro partenza. Finiva l’incantesimo. Eravamo stati bene insieme. Anche lei non voleva lasciarci.

Dopo la sua partenza, riprendemmo a scriverci con assiduità. Ero diventata sua figlia lontana e mia madre era gelosa di questo nostro feeling. Poi crescendo, le lettere diradarono fino a perdere completamente l’abitudine. La lontananza, per quanto si possano avere sentimenti profondi, sembra che, senza alcuna possibilità di vedersi, porti a far scemare l’interesse. E senza i fatti, l’amore si affievolisce, anche se a un piccolo gesto rimonta. La sua nostalgia per i luoghi natii la riportò in Italia di nuovo, questa volta sola, dopo quindici anni dalla prima. Le feci da guida, autista, cuoca, la portavo a spasso, a visitare i posti che amava rivedere. Vedevo nei suoi occhi il desiderio di respirare la sua aria, visitare la terra in cui era nata, ritrovare le cose lasciate in gioventù e soprattutto i suoi defunti. Questa seconda volta respiravo la sua malinconia e ne provavo anch’io, troppe incertezze sul futuro e sapevo che non ci saremmo più viste. Affrontò un viaggio così lungo, da sola, per vedere l’ultima volta l’Italia. È deceduta lo stesso giorno in cui anche mia madre è venuta a mancare, un caso più unico che raro. Il loro rapporto era quello che esiste tra madre e figlia. Mia madre era piccola quando lei andò a salutarla prima di partire per l’Australia. Mancanze che non sono mai state colmate, restano i vuoti anche in noi che ci carichiamo di queste storie. Rileggo spesso la nostra corrispondenza di allora, l’unica cosa che mi resta. Lì dentro scorre la vita che ci raccontavamo piena dei nostri sogni, attese, speranze.

Franca è ritornata in Italia alcuni anni fa, ci siamo lasciate bambine e ritrovate donne. Insieme sembravamo le nostre madri, una sensazione stranissima ma così vera. E la storia si ripete ancora. Abbiamo rispolverato i nostri ricordi e vissuto bene il tempo insieme. Forse lei non ricorderà nemmeno più l’episodio del vestito e nemmeno ne abbiamo parlato. E diamo loro molta importanza, proprio perché sono gli unici da ricordare. In noi vivono le storie delle nostre mamme. E’ come se fossero state sempre presenti tra noi. Un oggetto, un detto, una parola, un ricordo ci riportava a loro. Si spera di rivederci, di rivivere nuove esperienze insieme e oggi riusciamo ad abbattere anche la lontananza. In noi il desiderio di vivere la famiglia, le nostre radici, lo chiedono anche i nostri figli. Senza passato non c’è futuro e il passato è la nostra storia.

Questo è amore

 



Una volta, a un corso di aggiornamento, il docente psicologo dichiarò: “Si può amare anche per un solo motivo il partner, che so, per un bel naso, begli occhi. Non è detto che siano realmente belli. Un naso a patata può sembrarci di una bellezza unica.”  E se la persona amata avesse avuto più cose di nostro gradimento, significava amarla di più? Quando però lo psicologo sbottò di essere divorziato e avere una figlia “stronza” che lo aveva lasciato preferendo la madre, ci fu un silenzio tombale.

Allora, ci si chiedeva se la bellezza esteriore fosse una promessa di felicità. Oggi il corpo deve essere perfetto, anche se mancano lo studio, le buone maniere, il modo di interagire, basta una bella presenza e ci si assicura l’amore. Dell’altro si conosce l’aspetto ma non i suoi punti deboli, il neo tra i capelli ma non i suoi bisogni. Come se guardandolo ammirassimo una statua e non una persona. Basta un corpo per l’amore? Sempre lo psicologo ci confidò che si era innamorato, anni addietro, di una ragazza bellissima, ma tra loro un abisso a livello mentale. Quanti amori sembrano veri e sono invece fatui fuochi. Nessuno conosce il motivo per cui ci s’innamora, sicuramente per quella prima scintilla iniziale che nasce in noi e non sappiano spiegare. E siamo poi fedeli a quel primo momento che ci ha fatto vedere l’altro un dio ai nostri occhi.

L’amore ci vede senza difetti, belli, buoni, bravi, unici. Poi ci si trova a fare i conti con la vita, con la quotidianità, le sofferenze, le incomprensioni, che vanno a scalfire quella prima idea dell’altro che nel tempo si mostra cambiato e quasi irriconoscibile. La coppia di oggi è “cool”, si dice così, frequenta luoghi alla moda, vita mondana, ostenta qualsiasi cosa faccia per dire: “Vedete? Provate a imitarci se ne siete capaci!” Che due persone si amino, si vede negli occhi, non in una foto, alla fine del mondo, in atteggiamento da liceali. Le stesse persone che si sposano in pompa magna, spendendo un capitale, per ostentare foto, abiti, auto, pranzo, bomboniere e viaggio, dopo qualche anno sono già dall’avvocato e pieni di debiti. Spogliati di tutte queste cose, non ci si riconosce più. Provate a conoscere l’altro partendo da voi stessi e vi troverete in un abisso. Dante, Shakespeare, Eco, Tolstoj, Flaubert, Marquez hanno parlato d’amore e sappiamo da loro su quali premesse fondarlo. Non bastano descrizioni, definizioni, ciascuno lo vive in modo personale e diverso, ma di sicuro possiamo affermare che  l’amore non si spiega, e se ci provi, sei già fuori dalla sua aura. La reciprocità è il valore fondamentale per restare insieme, e solo in questo caso possiamo pienamente chiamarlo amore. Il vero amore non muore mai e vuole ogni cosa dell’altro. Molti credono di averne la forza, o meglio di essere portatori di quest’amore, ma spesso non conoscono nemmeno se stessi. E’ difficile trovare coppie che sappiano comunicare, condividere esperienze, ridere insieme, tra loro s’insinua l’abitudine, con una vita più mentale che reale. In un romanzo di Doris Lessing, L’abitudine di amare, la protagonista dice:  “Sai George? Hai proprio preso l’abitudine di amare.” “ Che vuoi dire cara?” Lei lo abbracciò con uno sguardo e sorrise.” Tu vuoi qualcosa da tenere tra le braccia, ecco tutto. Che cosa fai quando sei solo? Ti stringi a un cuscino?”

La vita insieme è vivere momenti fortunati e quelli meno. Molti pretendono attenzioni, applausi per quello che fanno, come se accanto avessero la claque.  E poi al primo problema od ostacolo ammutinano, addossando la colpa all’altro. Passato il periodo dell’innamoramento, cadiamo nella razionalità, che ci mostra una realtà lontana dai nostri sogni. Il peggior nemico della coppia oggi è l’egoismo, avere come punto di riferimento solo se stessi, magari servendosi pure dell’altro. E presi dal vortice della quotidianità, nemmeno ci accorgiamo di quello che ci scorre accanto. Quando lo psicologo del corso raccontava del suo divorzio, ne parlava come di una sconfitta fatale, non digeribile per uno che deve aggiustare le relazioni degli altri. E attraverso la sua storia ci indusse, poi, a fare una disamina delle nostre esperienze. Molti stentarono a trovare nel partner un solo elemento di loro gradimento. Quel giochetto mise in crisi parecchi del pubbico.  

Alcuni dicono: ”La amo, è una seria professionista!” Che c’entra la professione con l’amore? “Lo amo perché un bravo ragazzo!” Potrei amare anche uno svitato, o un clochard, un migrante. In un certo senso vogliamo giustificare la nostra motivazione, e crediamo che, attribuendo all’amore altri valori, ne acquisisca esso stesso un altro più alto, sempre in virtù di una promessa maggiore di felicità. E non siamo disposti a dare tutto, siamo sempre pieni di remore, talvolta ci allontaniamo dall’altro se tutto si fa difficile, se ci delude, se ci offende, ci gira le spalle. Invece di provare a costruire, si cerca il percorso privo di ostacoli. Provate a instaurare un discorso di coppia: i primi cinque minuti sono fatali, si è portati a litigare più che a comprendere. Il litigio è funzionale, allora ci sono speranze, nel caso contrario, se prevale il mutismo e non si ha niente da dire, meglio lasciar perdere.

A parlar d’amore, pare di sfociare nella banalità, nel luogo comune. Eppure ci sono autori che ne hanno parlato in modo approfondito.

"Se guardi il cielo e fissi una stella, se senti dei brividi sotto la pelle, non coprirti, non cercare calore, non è freddo, ma è solo amore." (W.Shakespeare)

 Una frase del genere può sembrare stupida, ma se amate, ne capite il senso, perché siete voi a diventare stupidi per esservi innamorati, non la frase. La migliore definizione che ho letto in proposito è di Albert Einstein:"Io non pretendo di sapere cosa sia l'amore per tutti, ma posso dirvi che cosa è per me: l'amore è sapere tutto su qualcuno, e avere la voglia di essere ancora con lui più che con ogni altra persona. L'amore è la fiducia di dirgli tutto su voi stessi, compreso le cose che ci potrebbero far vergognare. L'amore è sentirsi a proprio agio e al sicuro con qualcuno, ma ancor di più è sentirti cedere le gambe quando quel qualcuno entra in una stanza e ti sorride."


 

Le domande, quelle serie



La fattoria, Joan Mirò, 1922


Stamattina mi sono svegliata con idee troppo grandi, nel senso che mi pongo domande a cui non so rispondere. Mi chiedevo come sarà la nostra terra, il luogo in cui viviamo, tra cent’anni, ma anche solo cinquanta.

Queste sono quelle domande che nascono quando hai fatto una bella dormita e ti svegli con tutte le antenne accese. Be’, che dire. Il detto chi vivrà, vedrà, non mi basta. Di sicuro non ci sarò, come voi d’altra parte, ma  questo non ci evita di chiedercelo.

Più che pronostici, restano solo domande. Intanto il verde esisterà ancora? Voglio dire, lasceremo quello vero o si creeranno aiuole sintetiche, finto inglese, abolendo gli alberi? E le scie chimiche avranno modificato il nostro cielo? Potremo godere ancora dei colori che ci circondano? Ma poi, mangeremo qualcosa di genuino, ancora il latte, la mozzarella, la frutta o sarà tutto sintetico anche quello? E il sole avrà subito qualche variazione? La sua luce sarà diversa? E come si viaggerà, ancora con l’auto o potremo atterrare con l’elicottero personale sull’attico. Il cielo sarà oscurato dagli aerei, droni e quant’altro da farlo sembrare buio e tenebroso come quello nel dipinto della Gioconda? E il mare? Prenderà gran parte delle spiagge, troveremo ancora la costa di oggi, o rientrerà inglobando tutti quegli scempi costruiti nel tempo?

   Ma chi lo può dire? Come possiamo immaginare di non trovare i monumenti nel posto che occupano oggi o come cambierà la geografia dei luoghi, e le strade saranno ancora asfaltate? E il mare? Sarà di un altro colore, forse sulle tonalità di nero, poiché il cielo sarà buio e cambieranno poi anche i nostri pensieri guardando il mare o forse non lo vedremo più? E forse non ci saranno più le belle giornate di sole ma tutto sarà foschia, tetro e immobile come quando ci s’immerge in un sonno? Io mi preoccupo dei fiori e degli alberi, degli uccelli e delle api, certo detto così mi sento un po' San Francesco, ma immagino i luoghi che abito e non posso vederli diversi da quelli di oggi. Siamo così assuefatti ai paesaggi e ai panorami che ci circondano che anche l'immaginazione si rifiuta di lavorarci. 

 Ci sarà un inverno dei luoghi dell’anima con un buio anche dentro? E mangeremo ancora ciliegie, ci saranno ancora le rose, gusteremo ancora la pizza o non la avremo più per mancanza d’ingredienti? E se poi ce li propinano sintetici, voi li mangerete? E se andranno via i sapori e i profumi, come ci orienteremo? Possiamo semplicemente dire che noi non ci saremo e toccherà ai posteri scoprire tutto questo. Ma i posteri verranno dopo e quello che penseranno dipende da noi, oggi. Ed è per questo che i pensieri vanno curati, coltivati, ascoltati e noi siamo i precursori degli uomini di domani.

 Svegliarsi dopo una bella dormita può essere anche pericoloso se mi ritrovo con riflessioni del genere, che m’impelagano in discorsi così profondi. Sarà bene dare una risposta a ciascuna domanda,  se il domani si fonda su quello che decidiamo oggi.

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Guerra e pace



Guerra e pace è un romanzo storico di duemila pagine, in quattro libri, ognuno dei quali suddiviso in quattro o cinque parti, 361 capitoli in tutto, con 400 personaggi, scritto nel 1860. Il romanzo apparve a puntate su una rivista tra il 1865 e il 1869, con uno sfondo storico sulle campagne di Prussia e di Russia tra il 1805 e il 1820. Tra i personaggi storici reali abbiamo lo zar Alessandro I, Napoleone Bonaparte e il generale Kutuzov. Il romanzo comincia in francese, la lingua dei nobili a Mosca a quel tempo e tra le prime righe si menziona Genova e Lucca. Un incipit che rispetta la nobiltà, come del resto lo stesso Tolstoj discendeva da una famiglia nobile, figlio di una principessa e di un conte. Un’impresa unica, la più grande in termini letterari. L’autore, Lev Tolstoj, nasce nel 1828 e narra fatti già passati, tra cui la campagna di Napoleone per conquistare la Russia. All’interno ci sono intere pagine di guerra con una dovizia tecnica che lascia intendere la conoscenza dei campi di battaglia. Tolstoj aveva partecipato come ufficiale alla guerra di Crimea, quindi conosceva l’arte bellica che non era diversa da quella al tempo di Napoleone. Metà romanzo è volto a raccontare la guerra. Chi volesse fare uno studio approfondito di quel periodo e in particolare della campagna russa di Napoleone con i retroscena della diplomazia e dei fatti, la lettura del romanzo colma ogni curiosità e dettaglio in proposito. L’autore descrive minuziosamente gli aspetti psicologici di chi vive la guerra. Si chiede cosa passi nell’animo e nella testa dei soldati sul campo di battaglia. Gli ufficiali sono nobili passati all’azione, conservano l’orgoglio dei cavalieri medievali e dei mercenari del Rinascimento. Si va alla guerra perché bisogna obbedire, c’è un onore da mantenere e dei beni da tutelare.

Tra i personaggi principali incontriamo Andrej e Pierre, che insieme costituiscono l’alter ego di Tolstoj. La storia è un intrigo possente con un filo che lega tutti i personaggi. Tutta l’opera si fonda sul mistero del cambiamento, affrontandolo col destino di tre o quattro famiglie. Per cambiamento l’autore intende “scuotersi”, affermando che nulla cambia ma tutto si trasforma. E’ come un mescolarsi della vita tra ciò che sperimentiamo personalmente e ciò che accade intorno a noi e che non possiamo in alcun modo dominare. Tutto ciò che, sfuggendo al nostro controllo, continua a vivere ha il potere di modificarci a nostra insaputa. E tutto ciò che ci tocca, si mescola in noi e ci cambia. Ogni uomo attraversa continue mutazioni poiché ogni incontro che facciamo scalfisce le nostre certezze e dobbiamo ripartire dal punto in cui siamo giunti. La trama è ricca di drammaticità e violenza ma anche di una struggente poesia. Viene in mente la parte in cui Andrej ferito guarda il cielo, un intero mondo si dispiega davanti a lui per la prima volta.

Guerra e pace pone domande intorno alla vita, all’uomo e alla sua esistenza. In esso si trovano anche risposte, come quando ci si chiede che cosa sia la storia, cui Tolstoj risponde che “è ciò che ci capita”. Ma poi continua con la domanda su cosa sia il destino e risponde ancora dicendo che “è ciò che facciamo mentre siamo immersi nella storia”. Il titolo non riprende solo il discorso della guerra in atto ma anche le agitazioni dell’animo umano in tempo di pace: quello che accade in noi quando interiormente ci poniamo continue domande cui non si può rispondere e le risposte arriveranno solo col tempo. L’autore avverte che la vita contiene in sé una fase nascosta. Tra i quattrocento personaggi menzionati, si dedica a quattro famiglie in particolare, tra cui i conti Rostov, i principi Bolkonskij, i conti Bezuchov e i principi Kuragin.

 Tra queste famiglie possiamo isolare tre personaggi: il conte Pierre Bezuchov, il principe Andrej e Natasha. Tutti i personaggi appartengono alla nobiltà. La lettura porta con sé una tensione altissima, su tutto si erge la guerra che genera catastrofe, costringe i personaggi in uno spazio ristretto e li induce a mettere fuori la verità. L’autore parla col cuore in mano, per cui difficilmente può bleffare, tutto ciò di cui fa menzione è a sua disposizione, accade sotto gli occhi.

Tolstoj cominciò a scrivere il romanzo all’età di trent’anni e lo ultimò pressappoco verso i quaranta. La trama porta insita la scansione della sua vita che egli racchiuse: in una prima fase “poetica”, fino all’età di quattordici anni, poi si avvicendarono gli anni dell’orgoglio, dai diciotto in poi ripercorre dal matrimonio alla rinascita e infine il periodo della rigenerazione morale. Poiché non poteva far confluire in un solo personaggio questi quattro momenti, trovò l’espediente di servirsi dei due protagonisti ai quali suddivise i ruoli: metà della sua vita fu caricata sul principe Andrej Bolkonskij e l’altra metà sul conte Pierre Bezuchov. A quel tempo, quando iniziò il romanzo, si sposò con la diciottenne Sofia.

Il principe Andrej è coinvolto in due guerre: nella battaglia di Austerlitz e in quella di Borodino. In entrambe è gravemente ferito, nella seconda in modo grave.

A Borodino si compie la disfatta dell’esercito russo e illuderà Napoleone di poter sconfiggere il grande impero. Questa battaglia occupa all’interno del romanzo più di cento pagine.

Altra protagonista Natasha dei conti Rostov che all’inizio della storia ha sedici anni. Andrej s’innamora di Natasha ma se ne stacca continuamente quasi a voler provare i loro sentimenti. Nel frattempo Napoleone giunge a Mosca ma qui è umiliato. Tutta la nobiltà è andata via dalla città, resta solo il popolo che non conta niente e diventa un peso per gli invasori. E’ stato lasciato proprio per creare confusione e indebolire il nemico. Ed è nella Mosca in fiamme che assistiamo all’incontro tra il moribondo Andrej e Natasha. E proprio il loro amore è il nucleo di Guerra e pace su cui confluiscono tutti i temi del romanzo. Il fidanzamento tra i due, avvenuto verso la metà del libro, resta un momento fondamentale: il principe divideva il suo mondo in due parti, l’uno, quello cui apparteneva Natasha e l’altro in cui confluiva tutto il resto.

Altro personaggio fondamentale Pierre Bezuchov, uno sbandato, figlio illegittimo di un aristocratico da cui eredita una grande fortuna. Pierre è un idealista, corre dietro a tutte le utopie. E’ lui lo scapolo più ambito di tutta la Russia, combatte a Borodino e conosce l’orrore della guerra. Incarna tutte le domande esistenziali di Tolstoj. Egli è presente nella Mosca in fiamme, dove va con un preciso compito da compiere: uccidere Napoleone. Ma fallisce nell’intento ed è fatto prigioniero dai francesi. Quando Napoleone, per salvarsi, lascia feriti, prigionieri e salmerie per alleggerire il ritorno, Pierre  viene rilasciato. In questa fase incontra Platon Karataev. L’uomo, attraverso il racconto della sua storia gli dice che è il destino che sceglie uno invece di un altro. “La felicità, amico, è come l’acqua in una rete: la butti e si gonfia, la tiri fuori e non c’è nulla”. La storia è ciò che accade in presa diretta della vita intrecciandosi con migliaia, milioni di vite diverse, una materia complicata da tenere in mano. In ogni istante si compie un destino e non esiste un solo destino al mondo che non meriti ascolto o non abbia meritato di esistere.

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Ieri pomeriggio al "Centro Anziani Papa Francesco" di Moiano con il mio romanzo "Nel mezzo del tempo"

 Ieri pomeriggio, a Moiano, presso il Centro Anziani "Papa Francesco", ho presentato il mio romanzo "Nel mezzo del tempo". Il Presidente, Salvatore Buonocore, mi ha accolto presentandomi  la struttura e il percorso da lui svolto prima di giungere a questo impegno. Moiano è una delizioso casale aggrappato al versante di Faito, giungendo da Vico per via Raffaele Bosco, molto caratteristico per la sua conformazione, i colori delle sue case, le stradine strette e ricche di verde, l'aria leggera, satura di profumi, per i suoi favolosi tramonti visti dall'alto e le sue prospettive uniche di scorci e scene pittoresche di terre e abitazioni. Il centro è una struttura nuova, nata per dare spazio e  interessi agli anziani. L'accoglienza è stata calorosa e inaspettata. L'incontro era fissato per parlare dei luoghi del territorio partendo dal mio romanzo che li contiene quasi tutti. 



                                                   

Nel mezzo del tempo è la storia di tre donne della stessa famiglia, tra loro delle sconosciute, ciascuna con un segreto. L'ambientazione riprende posti diventati unici, rincorsi e frequentati non solo dagli abitanti ma anche dai turisti che invadono la penisola nei fine settimana e in estate. Ci sono descrizioni minuziose del Sentiero degli Dei, della Sperlonga, dei casali tra cui Moiano, Massaquano, San Salvatore, le marine, Montechiaro, Ticciano, Preazzano, Arola... Le descizioni nascono seguendo gli eventi e le vite dei personaggi.

Il racconto si snoda tra l'approfondimento delle protagoniste e il loro passato che ancora le perseguita. Margherita Sasso, la protagonista, è single, ed è la nipote di zia Felicina. A queste si aggiunge la madre di Margherita, sorella di Felicina. Tra le tre emerge l'anziana zia, una donna fuori dagli schemi che non ha più nulla da perdere e pertanto senza freni inibitori. Ma allo stesso tempo si mostra  materna, saggia, concreta, a tratti ironica, logorroica. Felicina è l'unico personaggio realmente esistito in vita, contrariamente agli altri di fantasia. Una donna vissuta durante la mia infanzia, che se per un verso allora mi era indifferente, col tempo ho avuto modo di apprezzarla analizzando la sua vita.

L'incontro è partito dal testo, per poi lentamente affrontare altre tematiche di grande interesse del pubblico, in un confronto intenso e con contributi reciproci. Si sono toccati argomenti afferenti alla vita di una comunità, alla trasformazione della famiglia nel tempo, al ruolo dei genitori, all'educazione dei figli, alla condizione della donna e al suo sovraccarico di lavoro all'interno della famiglia. I luoghi sono diventati così il pretesto per una disamina delle difficoltà della vita moderna, tra ieri e oggi, anche alla luce del vissuto dei presenti in sala. È stata la dimostrazione di come un libro possa accendere altri percorsi, far incontrare e progettare, darsi delle alternative, creare alte possibilità. Il tempo è passato così velocemente che ci si è ripromessi di incontrarci di nuovo. 

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La moka

 

       

La moka per me è un sogno, non la uso da almeno trent’anni. Eppure non mancano: da due, sei e più tazze e di diverse marche. Tra queste preferisco la mitica Bialetti. Mi ricorda la mia adolescenza, quando preparare il caffè era come dire: “Chiacchieriamo un po’”. Quando lo bevo, sono lenta, non mi piace bollente ma nemmeno freddo. Lo bevo amaro. Purtroppo al posto della Bialetti c’è una macchina che occupa lo spazio di un forno a microonde, sì, tipo bar. Richiede il caffè in grani, acqua decalcificata, riscaldamento prima di partire e una serie di accorgimenti. Il caffè è ottimo ma io preferisco la moka.

Intanto bisogna lavarla bene, senza lasciare residui nella guarnizione. L’operazione di carico richiede una certa esperienza: dosare l’acqua, sistemare il colino e il caffè, posto con cura, e quando la base è colma non premere troppo. Ogni volta si diventa più esperti fino a ripetere gli stessi movimenti in modo automatico. Da ragazza mettevo una tovaglietta sul tavolo, su cui appoggiavo ciò che mi serviva. Non si richiedeva solo la bravura nel fare il caffè ma di lasciare anche in ordine la cucina. Una volta sistemata la moka sul fuoco, avevo qualche minuto a disposizione per guardare fuori dalla finestra, osservare il sole mentre nasceva, come inondava i campi dei suoi raggi, la luce che rifletteva nei vetri e il mio viso riflesso ancora addormentato. Mi giravo solo al borbottio dei primi sbuffi di caffè che mi facevano avvicinare per controllare che i fiotti non finissero sui fornelli e abbassavo il coperchio. Sul piccolo vassoio era già pronta la caffettiera, dove raccogliere e zuccherare il caffè. Mentre lo versavo nelle tazzine, ne apprezzavo il colore, la schiuma, la densità e il profumo.  Poi lo portavo a mia madre, ancora era a letto, e si beveva insieme.

Adesso il caffè è fatto con questa macchina da bar. Di mattina, appena scendo dal letto, mi dirigo verso il piano su cui è posta, dove, le varie spie accese mi segnalano di svuotare il contenitore dei fondi o di aggiungere l’acqua o di caricare i grani, operazioni che richiedono alcuni minuti e mentre le svolgi ti chiedi perché  ogni volta che devi fare il caffè toccano sempre a te. Dopo scelgo la mia tazzina nella vetrina: una colorata, sempre la stessa.  Però ce n’è un’altra che tutti amiamo, reduce da un servizio che lentamente è andato assottigliandosi fino a lasciarla superstite: di porcellana doppia, intorno indigene che ballano. I colori sono caldi, un arancio rifinito di marrone e giallo con gocce sfumate blu. È ricercata poiché rappresenta l’estate, le vacanze. Il primo che fa il caffè, la prende. È la star della vetrina. Quando la vedo “m’illumino d’immenso”. È possibile diventare così bambini davanti a queste sciocchezze? Ebbene sì. È diventata famosa da quando, in un momento di rabbia, stringendola in mano dissi che sarei andata in Brasile, all’altro capo del mondo, provocando le risa di tutti che sanno della mia fobia per l’aereo. E da allora, ogni volta che mi capita di berci il caffè, la rigiro tra le mani accarezzandola, come a voler ricordare il viaggio da organizzare. La stessa scena va avanti da anni. Se non la trovo, mi accontento della sua vicina, ma non è la stessa cosa. Quando invece da ragazza riportavo il piccolo vassoio in cucina, dopo aver bevuto il caffè nel letto con mamma, era d’obbligo lavare tutto e mettere in ordine. Allora era come vivere in collegio a casa mia. Tutto splendeva, niente sostava nel lavandino per più di un minuto e dopo mezz’ora, se fosse entrato qualcuno, del caffè fatto nemmeno l’ombra, solo il profumo per la casa. Lo stesso rito si ripeteva se veniva qualche ospite, con una cura maggiore. Sceglievo il vassoio, il tipo di tazzine, il cucchiaino inglese, la zuccheriera piccola d’argento. Guai se, mentre la moka era sul fuoco, si notava qualche residuo di nero provocato dai fornelli dal precedente caffè, o fuoriusciva qualche goccia d’acqua a significare che non era stata stretta bene. Mia madre, senza pietà, lo faceva rifare, diceva che in quelle condizioni non sarebbe venuto un buon caffè. Avevamo quella moka tra le mani tutta la giornata: o per fare il caffè o per pulirla. Raramente era al suo posto tra le pentole. Adesso, quando la macchina tipo bar di casa va in riparazione, ce n’è un’altra di riserva. A nessuno viene in mente di usare la moka. La guardo e quasi mi scuso per lasciarla da tanti anni chiusa lì dentro, invecchiata dalla solitudine e non dall’uso. E se capita di prenderla per nostalgia, mi sento un’incapace a ripetere un vecchio rito.  Come se non fossi più abilitata al suo uso.

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In viaggio con Dante (1)

 



La Divina Commedia è croce e delizia di ogni studente. Perché studiare oggi la Divina Commedia? E’ da leggersi per tre motivi: è storia del Medioevo, storia della lingua volgare ed esempio di sublime poesia. In ambito mondiale, Dante occupa un posto di prestigio, rappresenta non solo il padre della lingua italiana ma è tra i grandi della letteratura mondiale, accanto a Shakespeare, con il quale si contende un posto d’onore. Harold Bloom, massimo esperto mondiale di letteratura, definisce Dante “il più aggressivo e polemico tra i grandi scrittori occidentali, capace, da questo punto di vista, di eclissare persino Milton”. Ed è così poderoso sul piano retorico, psicologico e spirituale da minare la fiducia di tutti gli altri. L’unico poeta la cui originalità, inventiva e straordinaria fecondità facciano davvero concorrenza a Shakespeare. Bloom definisce il poema una profezia da aggiungere al Vecchio e  al Nuovo Testamento.

La Commedia nasce da un proposito oratorio, di persuasione e non poetico, ma diventa qualcosa oltre questo semplice intendimento. La poesia investe ogni cosa e resta poco di quell’iniziale progetto riuscendo a trasfigurare il contenuto, imprimendogli un valore più personale e affettivo. Nasce un poema allegorico secondo la tradizione medievale, rivolgendosi a un pubblico quanto più vasto possibile con un metro quale: la terzina del serventese, su sistema di tre strofe di tre endecasillabi ciascuna a rima incatenata. Commedia poiché alla tristezza iniziale si giunge poi a un lieto fine. Ma Commedia anche per descrivere un mondo vario, dal carattere composito, con punti di vista contrastanti, che mescola livelli stilistici diversi. L’aggettivo “Divina” fu apposto da Boccaccio nella biografia dantesca e fu solo dal cinquecento che si aggiunse a Commedia. Il proposito dell’opera nasce già alla fine della Vita Nova, tra le prime opere di Dante, dove l’autore si propone di parlare di Beatrice quando sarà capace di farlo degnamente. Un’opera in attesa di completarsi con qualcosa di più ambizioso. Qui deve affrontare un viaggio per niente facile e, seppure nato dalla fantasia di un uomo, la costruzione dell’Inferno, Purgatorio e Paradiso resta per il mondo cristiano, la rappresentazione per antonomasia dell’oltretomba. Per questo si ricollega alla tradizione medievale dei viaggi allegorici e morali oltre a quelli dell’aldilà.

E’ costituito da tre Cantiche: Inferno, Paradiso e Purgatorio, dove l’Inferno è quella più corposa, varia, umana e drammatica. La struttura dell’opera si basa sul numero tre, numero perfetto, operazione simbolica a cominciare dalla Trinità. Ogni canto è costituito da un insieme di terzine per un numero di versi massimo di centosessanta. Ogni cantica consta di trentatré canti ciascuna, l’Inferno ne ha uno in più per il Prologo, in tutto cento Canti.

All’inizio del viaggio immaginario si fa esplicito riferimento a due viaggi esemplari: quello intrapreso da Enea e da San Paolo, uno portatore della civiltà pagana, l’altro della religione cristiana.

Dante attinge tra le altre opere al Somnium Scipionis di Cicerone, le Metamorfosi di Ovidio e dalla letteratura religiosa al De contemptum mundi di Innocenzo II, le Vitae patrum, la Legenda aurea. Poi dai testi in volgare i poemetti di Giacomino da Verona, Bonvesin da la Riva, il Libro delle tre scritture, Bono Giamboni con Il libro dei vizi e delle virtù. Per quanto concerne la struttura della Commedia, la costruzione etica e fantastica è basata sull’Etica Nicomachea e sulla Retorica di Aristotele, San Tommaso, Fulgenzio, il De Officiis di Cicerone, Boezio. Il numero tre ha un simbolo di unità e trinità di Dio: l’allegoria del poema è il viaggio dal peccato alla salvezza con più guide: Virgilio, Beatrice, San Bernardo. L’allegoria è posta in modo così tenue da non intralciare mai lo svolgimento delle azioni. La struttura esteriore al racconto è data da Beatrice che, scomparsa dal mondo, porta il poeta a smarrirsi in una selva oscura. La stessa Beatrice invia a Dante una guida a soccorrerlo, Virgilio, che lo accompagnerà attraverso l’Inferno e il Purgatorio per poi lasciarlo a lei nell’Empireo. Il suo viaggio è simbolo del cammino dell’umanità. L’Inferno è costituito da una voragine conica di nove cerchi che, attraverso la porta sotto Gerusalemme sprofonda fino al centro della Terra, luogo deputato a Lucifero. Agli antipodi di Gerusalemme, s’innalza la montagna del Purgatorio, costituito da nove cerchi ruotanti attorno alla terra, oltre la quale si trova l’Empireo. I peccatori nell’Inferno sono distribuiti in base alle colpe dello schema aristotelico: alle porte dell’Inferno stanno gli ignavi, il primo è il Limbo dove ci sono coloro che morirono senza battesimo e gli spiriti magni, cioè vissuti fuori dalla rivelazione cristiana; seguono, nel secondo, i lussuriosi, nel terzo i golosi, nel quarto gli avari e prodighi, nel quinto gli iracondi e accidiosi. Nel sesto cerchio gli eretici ed epicurei, al settimo i violenti, l’ottavo i fraudolenti, al nono i traditori. Nel Purgatorio i peccatori sono disposti in sette balzi seguendo lo schema dei sette peccati più l’Antipurgatorio, sede di chi tardò a pentirsi e attende di essere ammesso a espiare la colpa. Nel Paradiso si ritrovano i Beati distribuiti nei singoli cieli. I peccatori sono assegnati ai luoghi in base ai peccati. Le pene seguono la legge del contrappasso, da intendersi come una corrispondenza o un’opposizione tra la pena e peccato.

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