Ho incontrato Giovanni Manganaro per una piacevole chiacchierata sulla sua arte. Noto subito uno sguardo tranquillo con due occhi ridenti ma sconfinati, un limen tra mondo esterno e un altro più vasto, interiore. Al cospetto di un artista si ha sempre la difficoltà del tipo d’approccio da scegliere per sondarne l’animo, se di tipo psicologico, approfondendo l’uomo o di tipo sociologico, partendo dall’impatto della sua arte sui contemporanei. Entrambi gli approcci possono coesistere e presuppongono l’enigma dell’artista, che rimane anche dopo aver compreso la sua indole, il suo pensiero, la sua storia. Mi cattura la semplicità con cui esprime concetti rilevanti gesticolando con le mani, per lui la parte più preziosa del corpo. Le muove come le bacchette di un direttore d’orchestra, sicuro di ciò che va dicendo. A cosa serve l’arte? E’ emozione, ed emozionarsi serve a metterci in contatto con la parte più profonda del nostro essere, fornendoci la pura essenza della vita. Ci si chiede quali caratteristiche e predisposizioni mostri l’artista per condurlo alla creazione. Alla base c’è una ricerca di se stesso e della vita e, in questa inquietudine costante, l’artista crea. Davanti all’opera, l’emozione di chi osserva è più importante della motivazione che ha spinto l’artista a quel contenuto.
Giovanni Manganaro mi parla del suo percorso artistico,
risponde alle domande raccontandomi le sue esperienze, il rapporto col suo
territorio, il contatto con la natura, le persone, le cose, la sua realtà
quotidiana. La mia attenzione nei suoi confronti è data dalla curiosità di
voler conoscere il suo talento, le tecniche adottate, il pensiero che precorre
a una determinata idea, la genesi delle opere, tutti argomenti che si rincorrono
nel corso della conversazione. In mano i cataloghi bloccati sulle immagini che
catturano per i colori e l’armonia. Su quest’ultima parola l’artista ammette
che bisogna riportare sulla superficie una certa musica. Molti i dettagli che
emergono dalle immagini: segni, combinazioni, ma anche ossessioni, come quella
per le mani a sei dita che l’artista spiega essere quelle del pittore, proposte
in molte sue opere; o il colore bianco, suo prediletto, in tutte le sue
sfumature. Il colore dei marmi che l’artista ha visto tante volte da bambino,
quando andava in cattedrale a Vico Equense a riportare sui fogli bianchi le
immagini dei dipinti della chiesa. Sfogliando e osservando ci si pone molti
interrogativi e tutte le possibili risposte sono plausibili, sono valide. L’artista percepisce le mie domande e parte
con le risposte prima ancora che io le formuli, quasi presagendo le mie
possibili richieste solo a guardare una determinata immagine. L’emozione prodotta
da un’opera d’arte ha un principio di universalità e non di soggettività e
l’unico modo per esprimere questa percezione, per trascrivere il percepito, è
la riduzione geometrica. La geometria riesce a tradurre il disordine che sta fuori
in ordine sulla superficie di lavoro, come affermava Morandi.
Giovanni Manganaro ha
frequentato l’Accademia delle Belle Arti a Napoli, da cui esce nel ’71. La sua
passione si manifesta in tenera età, quando, vedendo un film su Amedeo Modigliani,
capì che voleva dipingere. Fu attratto dai colli lunghi del pittore, segno, a
suo dire, di elevazione, posti tra cuore e mente. E mentre progettava di
diventare pittore, faceva il falegname, ancora bambino, all’età di sette
anni. Nelle sue opere si affollano e si
respingono, sulla superficie, colori e forme desunte dalle ombre che incontra
durante le sue passeggiate mattutine, quando se ne va da Moiano a Ticciano per
i suoi cinque chilometri. Lungo la strada ombre indefinibili attraggono la sua
attenzione, fornendogli l’idea su cui lavorare. Tutto nasce all’impronta, senza
schizzi, le macchie cadono come vogliono, facendosi largo sulla superficie, pur
mantenendo il principio di un colore base. L’ispirazione parte così,
direttamente sul cartone, poi con vinavil sul compensato, dove l’immagine resta
fissata più che sulla tela. Prepara i suoi colori a polvere. E mentre dipinge
ascolta musica classica. Prevalgono, nelle sue opere, sfericità composte e decomposte,
linee desunte da una natura sempre nuova e diversa, con colori che
rappresentano armonia e legame stretto, figure umane che si moltiplicano e si
dividono in logiche sequenze declinandosi nelle loro varie parti e all’infinito.
E tra i suoi pittori preferiti ci sono i futuristi Boccioni e Kisling. Contro
la maniera tradizionale di costruire quadri con elementi immobili, i futuristi
decidono di proiettare lo spettatore al centro del quadro, interpretando corpi,
cose, oggetti che possono avere un’anima con espressioni di dolore. Un
passaggio che si forgia attraverso una spiritualizzazione del pensiero che può
avvenire solo con la purezza di colori e linee. Tra gli altri predilige
Modigliani e Chagall.
Racconta di dipingere con uno specchio posto alle spalle, una
sorta di giudice rivelatore di errori che vanno corretti. La geometria che si
dispiega nell’immagine deve avere un’armonia, una continuità e un equilibrio,
tutto ben dosato. Si preoccupa, durante l’esecuzione, di capire quando l’opera
deve terminare e quando il colore è ormai saturo nelle sue espressioni. Le sue
mostre in tutta Italia e all’estero gli hanno permesso di scoprire città d’arte,
tra tutte la più amata è Venezia.
Il maestro afferma che l’arte ha sempre cose nuove da
proporre, combinazioni da creare, molteplici gli spunti e le ispirazioni, in
un’immaginazione inesauribile. Il carattere di un suo quadro è dato dalla distribuzione
dello spazio, colori, forme e dalla sinergia tra le parti, servendosi di
aspetti della sua quotidianità e del suo passato. Quando vuole riportare
episodi del tempo andato, lo fa servendosi di dettagli che gli ricordano quel
determinato fatto. Attraverso l’osservazione di un dettaglio come ad esempio un
festone, gli giunge l’estratto di un momento di ieri, un ricordo lontano che
affiora alla memoria e si trasforma in elemento artistico. Ogni immagine porta
una sua lingua e una sua codificazione. Per l’artista tutti gli elementi devono
cooperare per tramutarsi in un’espressione. Prima di approcciarsi a riempire
una nuova superficie deve misurarsi con quanto va componendo in mente e questo
può richiedere tempo. “Credo che il mio lavoro possa concentrarsi in un cerchio
magico, e che l’immagine non sia altro che ancora immagine. Questa è l’intimità
del mio lavoro”, afferma tra le righe di un catalogo. La nostra chiacchierata
volge al termine, ma continuerebbe ancora per tante emozioni di cui parlare
osservando le opere. I suoi occhi, a fine incontro, sono sempre sorridenti, più
accesi di prima, consapevole di avermi coinvolto nel suo mondo creativo. E ha
ragione quando afferma: “Vorrei catturare lo sguardo dell’osservatore per
soffermarlo in ogni angolo, su ogni colore, in ogni curva dei miei dipinti, per
farlo partecipe della mia felicità.” La stessa felicità la riscontro a fine
incontro.
Stringendogli la mano raccolgo anche il sesto dito, dove è
racchiusa non solo la sua arte, anche la sua umanità, senza la quale ogni
artista produrrebbe solo sterile esercizio tecnico.