Tra le nuvole

 


L'aereo mi mette ansia. L'ultima volta, anche se con apprensione, ho cercato di scalzare la paura distraendomi con la lettura e guardando fuori dall'oblò. Ero circondata da nuvole: soffici, ampie, l’una sull’altra.  Tutto sommato era un autobus che sfilava nell’aria o anche una nave in mezzo al mare. Della terra non si aveva visione, se non di tanto in tanto, quando usciva un pezzettino di verde in una nuvola più leggera, per poi perdersi tra gli strati sovrapposti. Il pensiero di sorvolare sulle città, le abitazioni, le persone, faceva una certa impressione. Il display di fronte riportava la rotta seguita passando per Roma, Firenze, Milano... Immaginavo in quel momento la vita a terra: ora di punta, uscita dal lavoro, il traffico cittadino, le corse per la spesa, il rientro, la cena, gli incontri, gli amici, le passeggiate, mentre noi seduti, con lo sguardo ai nostri telefonini, libri, aspettavamo di arrivare a destinazione. Le ali del veicolo, spiegate alla mia destra così a sinistra, mi ricordavano che l’aereo simulava il volo dell’uccello che migra da una parte all’altra del mondo cercando gli habitat più consoni. Anche noi migravamo da una parte all’altra dell’Europa. In un paio d'ore si cambia fuso orario, giungendo in un luogo lontano dalle nostre abitudini e stili di vita.

E volando ho rivisto il mito di Scilla, che tradì il padre Niso strappandogli il capello purpureo per amore di Minosse e causandogli la morte. Fu poi trasformato in avvoltoio mentre sua figlia, rifiutata da Minosse, finì in mare diventando un airone. 

Dall’alto la vita è più leggera, senza affanni, libera. Volare implica solitudine, strappati al resto, soli con le nostre rotte mentali. La vita deve sempre avere una meta, un obiettivo, un punto cui tendere. Vivere per vivere trasportati dagli eventi, secondo le correnti, ci predispone a cadute e avversità. Dobbiamo procedere come il volo, verso un punto preciso con idee chiare, concentrandoci sulla meta. 

Le nuvole intorno si aggregavano e si diradavano al  nostro passaggio, creando un labirinto tra batuffoli e grossi animali che cambiavano forma col procedere degli altistrati e i cumuli. Avvicinandoci alla destinazione e cominciando a scendere di quota, le nuvole  avevano qualcosa dello zucchero filato, lasciando intravedere, tra l'una e l’altra, qualche elemento del paesaggio sottostante. Continuando nella discesa prendeva forma il suolo, la pista di atterraggio, col ritorno alla vita, lasciando tra le nuvole il pensiero libero ispirato dall'altitudine e da quell'ammasso avvolgente di spuma bianca. Le terre assumevano  varie sfumature, emergevano i campi a forma di rettangolo o di trapezio, le case tutte in fila, raggruppate nei  parchi pieni di verde, poco distante il fiume, il ponte, i palazzi più alti. Atterrando il tempo ha ripreso a scorrere, con le ansie della partenza: ciò che bisognava fare usciti dall’aeroporto, il clima cambiato, la stanchezza che saliva al viso, il bisogno di alzarsi da quella posizione. Guardare dall’alto è facile, ci si erge a maestri, ma è scendere tra gli altri più difficile, quando ci si pone al lato degli uomini e si fanno le stesse cose. Dall’alto può avere i suoi vantaggi, tutto è più chiaro da comprendere, ma è immettersi nella realtà che crea fatica. La vita è porsi accanto.

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Lo steccato

 




Sul mio pianerottolo, a destra, gli operai hanno posto uno steccato con tre assi e quattro chiodi per arginare un muro che va rifatto.

Tanto è bastato per riportarmi ai miei disegni di steccati di quando ero scolara. Chi di noi non si è trovato a disegnare uno steccato alla fine della casa sul foglio, come un’appendice su cui poggiarci fiori, rami, persone affacciate. Assi affossate nel terreno per delimitare un solco, uno spazio, un confine. Ogni mia casetta ne aveva uno, disegnato con cura. A volte erano approssimativi, altre solo accennati, ma sempre presenti. Un dovere aggiungerlo là dove non sai cos’altro mettere. Cambia in base al legno, alla forma, all'uso che se ne fa. Mi piacciono quelli un po’ screpolati, abbattuti, divelti, hanno sembianze umane nelle nostre varie condizioni. Dicono ciò che hanno subito, quando sono stati costruiti, che cosa hanno attraversato. Un paesaggio, dal vivo o sul foglio, acquista valore se contiene uno steccato. Si percepisce la presenza dell'uomo in quel miscuglio di naturale e antropico.

Un mio dipinto ne mostra uno tra massi laterali a dividere due parti di un prato. Mi è costato molto limare quei sassi intorno, uno sull'altro e dare il colore giusto al legno. In un dipinto che ho prodotto in Cornovaglia, invece, ho perso più tempo a dipingere lo steccato che a rifinire i fiori. La difficoltà era dosare la giusta luce per proiettare la reale ora del giorno. Ma il fascino dello steccato risale alla mia infanzia: ce n’erano tanti nei campi e lungo i sentieri che portavano ai monti. Una volta mio nonno ne costruì uno piccolo sul sentiero del bosco: serviva ad affacciarmi e ammirare il mare dall’alto. A guardare giù avevo le vertigini al pensiero che, se non avesse retto, mi sarei trovata giù. 

 Altro ricordo indelebile le mie passeggiate, da bambina, per i sentieri intorno alla casa dei nonni. Mi intrattenevo spesso a giocare accanto agli steccati, avevo maggiori possibilità di destreggiarmi. Altre volte rovistavo il legno scoprendo corridoi di formiche, tane, file d’insetti, gocce di resina, buche in cui appoggiavo i polpastrelli per capirne la profondità. Altre volte, con un punteruolo incidevo nel legno rappresentando quello che vedevo nei campi. Raramente l'ho visto in veste di divieto, come sul mio pianerottolo. Eppure molti hanno questa funzione. In questo caso indica un pericolo da evitare, mentre altre volte un confine da non varcare. Il mio steccato è un modo affettuoso di accogliere e preservare. Ogni altra sua funzione non la sento mia.

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I Promessi Sposi

 


I cari Promessi Sposi di Alessandro Manzoni non vanno mai in pensione.  Facciamo uso di frasi e nomi dell’opera nel bel mezzo di un discorso o chiacchierata come se stessimo parlando di parenti. Ritornano il famoso “vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di altri di ferro” riferito a Don Abbondio, il “non fare la monaca di Monza”, parlando di Gertrude, “sembri il Nibbio o il Griso”, o l’abusato “Innominato” riferendoci a qualcuno che non vogliamo menzionare. Parliamo dei personaggi come fossero antenati, zii da commemorare, così di episodi precisi riportandoli al nostro tempo. Un indiscutibile grande romanzo storico che caratterizza il nostro panorama letterario.

Ebbe quattro edizioni, dal 1827 al 1840. Comincia con un matrimonio che “non s’ha da fare né domani, né mai!” per bocca dei bravi che si presentano a Don Abbondio che "tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628", per intimargli di non celebrare le nozze, il giorno dopo, tra Renzo e Lucia. Inconfondibile l'incipit, tra i più famosi e riconoscibili della storia della letteratura: “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte…”

La prima redazione risale al 1823 col titolo Fermo e Lucia, nel 1827 esce la seconda stesura dal titolo I Promessi Sposi, detta la ventisettana, fino all’edizione definitiva nel 1840.

Il romanzo è ambientato nella campagna lombarda tra il 1628 e il 1630, durante la dominazione spagnola in Italia. L’autore trova l’espediente di un manoscritto risalente al XVII secolo da cui trae spunto per la storia.  La società è ancora quella della nobiltà feudale con un clero potente e invadente e una parte di società che cerca di gabbare il popolo attraverso la cultura come mezzo di sottomissione. Trentotto capitoli ricchi di avventure, azioni, storie nella storia. I personaggi sono dipinti tracciandone vizi e virtù di ciascuno con toni chiaroscuri per lasciare emergere quanto più possibile la verità. Si attraversano i grandi eventi del periodo, con un realismo alla ricerca della verità e della storicità. Il narratore è onnisciente e procede tra giudizi morali e ironia spesso aggressiva, mettendo un certo distacco tra l'autore e la materia trattata. Una sorta di equilibrio tra i fatti reali e la narrazione soggettiva dell’autore. Si riconoscono, al suo interno, rapporti di forza, analisi di una realtà fatta di azioni e reazioni, contrasti con punti di vista psicologico, materiale e morale. Tutto trova una giustificazione nei piani della Provvidenza e tutto si ricostruisce attraverso la conoscenza del bene e del male. I personaggi, poli di forza del romanzo, sono immersi in uno scenario storico fatto di guerra, peste e carestie. Realismo e tensione emergono per tutto il romanzo.

Sin dalle prime pagine abbiamo una caratterizzazione ben precisa del personaggio di Don Abbondio, un pusillanime, ignavo, incapace di prendere alcuna iniziativa, frenato dalla paura e privo di ogni contributo da parte sua. Accanto al curato si erge Perpetua, la donna che cura la canonica, abile a trovare soluzioni, impicciona, sempre a confabulare. La protagonista è Lucia, la ragazza di paese che ama Renzo in modo devoto e sincero. Il suo promesso è un ragazzo del popolo, semplice, buono, gran lavoratore. E poi ancora Agnese, madre di Lucia, donna concreta. Il personaggio prepotente è incarnato da Don Rodrigo, signorotto della nobiltà feudale, e poi la figura lugubre e tragica dell’Innominato, atto alla violenza, che supporta le malefatte di Don Rodrigo, per il quale farà rapire Lucia. Tra le altre figure del mondo ecclesiastico, oltre a Don Abbondio, abbiamo Padre Cristoforo, la monaca di Monza, il Cardinale Federigo Borromeo.

Della gerarchia ecclesiastica Federigo Borromeo rappresenta il volto buono, che tende al bene con autentica nobiltà d’animo. Accanto a questi personaggi principali ne ruotano altri importanti e meno, tutti inconfondibili, diventati simboli ora del bene ora del male: i bravi, Azzeccagarbugli, il Conte zio, il Griso, il Nibbio, l’oste, Donna Prassede, Don ferrante, il gran cancelliere Ferrer…

La genesi del romanzo fu una lunga gestazione nata negli ambienti culturali tra Milano e Parigi. L’autore fu a contatto con l’illuminismo francese. Numerosi i romanzi confluiti poi nei Promessi Sposi, tra cui La nouvelle Eloise di Rousseau, La Religieuse di Diderot, l’Adolphe di Constant. Al Manzoni interessò il romanzo psicologico per gli aspetti genuini e demoniaci come Clarissa di S. Richardson. Un motivo ritornante nella letteratura settecentesca era quello satanico valorizzando il ribellismo di Lucifero e l’eroismo malefico. Di questa lunga tradizione fanno parte: I masnadieri di Schiller, dove il personaggio Karl Moor incarna l’enigma del bene e del male in una rivolta contro l’ingiustizia;  Messiade di Klopstock, una severa condanna illuministica di società corrotta; Il corsaro di Lord Byron, dove troviamo l’eroe demoniaco tra le ribalderie presenti e il rimorso del passato; e ancora Le relazioni pericolose di Choderlos di Laclos, La filosofia del Boudoir del Marchese De Sade…

Accanto al motivo della seduzione c’è poi anche quello della persecuzione con: Il castello d’Otranto di Horance Walpole, Il monaco di G.M. Lewis,  Melmoth l’errante di C.R.Maturin.

Il Manzoni s’immerse in queste letture, desideroso di nuovi spunti. Tra gli altri predilesse il romanzo di Tommaso Grossi, Marco Visconti, dove il protagonista ama Bice e la perseguita ma Bice, a sua volta, è innamorata di Ottorino. Si riscontra qui un’analogia tra la cavalcata notturna del protagonista, folle di gelosia per Bice, e Don Rodrigo di Fermo e Lucia trascinato a morte da un cavallo imbizzarrito.

Dopo la conversione, il Manzoni non accettò tutta la letteratura francese e si faceva scrupolo di liberarsi di alcune opere non consone alla sua nuova condizione di credente.

Per quanto riguarda la monaca di Monza è lampante l’analogia con La religieuse di Diderot. In entrambe le opere le novizie prendono i voti forzatamente, ma mentre Diderot incolpa il monastero per le sevizie della suora, il Manzoni fa ricadere la colpa su Gertrude. Entrambi usano “scomposta” riferito a bellezza, con un uso prettamente estetico in Diderot, con un carattere psicologico che traccia l’incoerenza dell’animo e l’incostanza del carattere in Manzoni. Alla fine le due opere sono completamente antitetiche, in comune solo la monacazione forzata, con una tragedia umana e morale in Manzoni che Diderot ignora del tutto. Nella creazione del personaggio di Egidio, amante della Monaca di Monza, hanno contribuito il personaggio di Lovelace della Clarissa di Richardson e il Dolmancè di De Sade. Mentre il Dolmancè spiega a Eugenie che non vi è alcuna azione che sia veramente criminale e nessuna che possa dirsi virtuosa, Egidio inculca a Gertrude che tutto ciò che lo aveva portato alla violenza e alla perfidia era un’invenzione dell’astuzia, un’arte per godere a spese altrui.

Padre Cristoforo, nello sfidare Don Rodrigo, ricorda l’abate Clerville che affronta il signor Franval in De Sade e ancora i rintocchi delle campane che scuotono Franval ricordano lo scampanare che colpì l’Innominato nella terribile notte della sua conversione.

Nella letteratura francese le monacazioni forzate, la corruzione del clero, la cupidigia dei preti rispondono a un’esigenza denigratoria e scandalistica, mentre per il Manzoni a un’intima esigenza di erudire la moltitudine, per avvicinarla al bello e all’utile. Il Manzoni riconosceva all’uomo i valori di libertà della ragione ma ne moderava l’azione con i precetti morali e le norme evangeliche. Pur partendo da un concetto illuministico d’indipendenza del singolo, respingeva la totale emancipazione. C’è nell’Innominato un processo di riscatto dalla prepotenza a differenza del personaggio Karl Moor nei Masnadieri di Schiller e del Corsaro di Byron, dove non c’è alcuna possibilità di conversione. Il Manzoni procede a un’opera di restauro sociale religioso concedendo la Provvidenza per cui la sventura è provvida, come dirà nel coro dell’Ermengarda, come prova voluta da Dio. Il romanzo non è una propaganda religiosa, come affermava Moravia, ma profondo sentimento religioso che aiuta l’autore a compatire l’uomo, come certezza di fede e volontà di redenzione cristiana.

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La terra fonte di cibo

 


L'agricoltura in Italia ha subito notevoli cambiamenti rispetto al passato. Una volta si basava su metodi tradizionali e su una gestione familiare. Negli ultimi decenni sono stati introdotti macchinari agricoli moderni e nuove tecnologie, incrementando la produttività e l'efficienza. L'agricoltura italiana si è integrata sempre di più nel mercato globale, con un aumento dell'interesse per quella biologica e sostenibile.

Nonostante i cambiamenti, l'agricoltura rimane un settore di grande importanza per l'economia italiana, ponendosi al terzo posto in Europa dopo la Francia e la Germania.

Parallelamente allo sviluppo dell’agricoltura, si sono assottigliati i terreni. Di questi, gran parte restano incolti, col pericolo di diventare discariche quando non lasciano il posto al cemento. Le nostre pianure risentono dei cambiamenti climatici con alluvioni e dissesti idrogeologici. Sfide che hanno costretto i contadini a costruire terrazzamenti, bonificare zone, rassodare e spianare. Anche la Pianura Padana, la più estesa d’Italia, va incontro ad allagamenti e bonifiche ricorrenti. Molti i terreni espropriati, da nord a sud, trasformati in abitazioni, strade e autostrade. Difatti, l’unico modo per assicurare la vita a un appezzamento di terreno è coltivarlo, altrimenti, prima o poi, sarà occupato dal cemento. Il futuro della Terra è dato dalla quantità di cibo che riusciremo a garantirci già nei prossimi anni.

I contadini vedono il loro lavoro ridotto a spiccioli, perdendo anche quella piccola speranza di salvare un’alimentazione naturale. Accanto ai finanziamenti ormai ristretti, dobbiamo ricordare gli scempi che avvengono nelle coltivazioni con l’uso massiccio di pesticidi e sostanze varie per accrescere la produzione o mantenere a lungo i prodotti, oltre ai semi modificati.

La concorrenza di mercato vede prodotti provenienti da vari paesi, con il rincaro dei prezzi e l’abbattimento dei profitti, altrimenti si assiste al macero di frutti e ortaggi. I consumatori mangiano banane perfette, dopo che queste ultime hanno sostenuto lunghi viaggi, o mele farinose, o arance che appena riposte nel cesto fanno la muffa, fragole che sanno di niente, limoni che spremuti non danno succo e pere che, appena sul tavolo, si mostrano marce. Un frutto non si riconosce più dal profumo. Se non fosse per la differenza di polpa, sarebbero tutti uguali tanto da ingurgitare qualsiasi cosa senza sapere se si tratta di mela o di pera o di altro. Quanti trattamenti ci vogliono prima di mangiare un frutto? Venti giorni per liberarsi del veleno ricevuto come quello riservato ai parassiti. E le erbacce? Ogni tre giorni bisogna passare e ripassare nei solchi per tirarle, ma la mano d’opera costa e ci si affida al diserbante che, una volta nel terreno, arriva anche alle piante. Nel passato sapevi che le arance erano di Sorrento o di Sicilia, l’olio di Sapri, parlando della Campania, ma oggi? Un’arancia può venire dal Portogallo o dal Marocco o da Creta, tutto tranne che dal tuo paese e non c’entra il nazionalismo, solo la freschezza del prodotto. Se arriva da paesi lontani, sarà pessima e senz’altro finirà nella spazzatura. Avete idea del cibo che finisce nell’umido? E di questo, gran parte sulla tavola non ci arriva poiché, prima di essere cucinato o mangiato, deperisce. La legge di mercato impone di acquistare i prodotti provenienti da altri paesi, perché se ti mangi le tue arance, non fai commerciare quelle del Congo e intanto le tue, quelle a quattro passi da casa, non sono più curate come una volta, tanto ci sono quelle del Portogallo, della Turchia, e dove prima c’erano le nostre arance di casa, oggi ci sono le strutture ricettive: si guadagna di più, ma intanto si mangia peggio. E se vado in Svizzera, mangio kiwi italiani al modico costo di un euro e cinquanta l’uno, circa venti centesimi a fettina, mentre in Italia ci sono quelli che arrivano da paesi lontani.

Questo è il mercato. E ancora, dei frutti esotici importati che passano più tempo nelle stive delle navi che sulle nostre tavole e costano più dei nostri frutti, ne mangiamo la metà, l’altra marcisce durante il viaggio o subito dopo. Ma c’è il rischio che arrivino anche in perfetta forma, segno di aver subito trattamenti prima dell’imbarco. Qualcuno crede che basti il piccolo orto di casa per stare tranquilli, finirà anche quello, inglobato dal grande business, ma poi ci toccheranno le pillole di cavoli o di carote magari fornite de grosse aziende farmaceutiche a caro prezzo per renderci le nostre vitamine quotidiane senza passare per alcun terreno. La preoccupazione di oggi non è l’atomica, come si pensava nel passato, il futuro è già qui e ci dice che sarà la fame, per mancanza di terre da coltivare mentre gli abitanti della Terra saranno appena dieci miliardi. I paesi del mondo stanno già oggi andando a caccia di terre da coltivare, lo fanno già i cinesi, che si sono spostati in Africa con la speranza di colonizzare nuove terre. Pescano nel mare del Senegal assicurandosi parte della costa atlantica così come altri paesi si stanno adoperando per trovare luoghi dove dirigersi. E si stanno facendo ricerche per quando sulla Terra mancherà del tutto la possibilità di sfamarci, studiando il cosiddetto piano B. 

Lester Russell Brown sostiene che la più grave minaccia agli equilibri geopolitici sta “nel mix esplosivo tra competizione per le scarse risorse idriche e agricole, alti prezzi del cibo, aumento degli affamati, effetti del cambiamento del clima e pressione demografica. Ogni sera si siedono a tavola a cena 216.000 persone in più rispetto al giorno prima, ed è una crescita destinata ad accelerare". Si pensa, da più parti, a colonizzare Marte, il pianeta che più si adatta a ospitare l’uomo, ma non è stato ancora sperimentato. Sembra fantascienza ma ci siamo già dentro, quando assistiamo all’abbattimento di alcuni prodotti solo per il gusto di non venderli, viste le condizioni di mercato, allo sperpero di quello che facciamo a tavola, agli schizzinosi davanti a un frutto che presenta una piccola parte marcia e lo buttiamo mentre altrove qualcuno cerca il cibo tra i rifiuti. Dovremmo avere più cura del terreno come fonte di cibo per la vita. E anche lo squilibrio tra paesi ricchi e poveri diventa uno schiaffo alla miseria mondiale. Se a questo aggiungiamo una politica marcia, peggio di una mela bacata senza possibilità di cavare dall’interno il verme, siamo oltre la fantascienza.

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Tra reale e virtuale

 


La generazione dei Baby Boomers si è abituata alla vita virtuale lentamente con un approccio diverso dalla Generazione Z. Pur usando i social i Boomers sono nostalgici e fanno il confronto con i tempi andati. La Generazione Z e Alpha non hanno queste remore. Sono nate con i bottoni in mano, col virtuale già nel loro DNA e non hanno difficoltà a vivere i social. Lo fanno con disinvoltura, scegliendo di volta in volta il canale più adatto per una determinata azione. Eppure è proprio la generazione dei Baby Boomers, i nati tra il 1946 e il 1964, che vive sui social molto più degli altri, leggendo quello che c’è di nuovo, postando, interagendo con commenti e pubblicando contenuti personali. Scruta ogni meandro del web, bazzica su ogni piattaforma, scopre ogni giorno nuovi territori da conquistare. Sono pionieri appassionati e costanti, perdendo spesso la cognizione tra reale e virtuale. Ricordo ancora i primi anni che ero su fb, quando un giorno una mia amica fece un post dove diceva di stare male. La chiamai preoccupata e lei candidamente mi disse che lo aveva scritto per “creare un contenuto”, ma non era vero. Come quella volta che d’estate postai una foto che mi ritraeva in vacanza e scrissi che in quel momento tornavo dal mare. Tornavo realmente dal mare ma non avevo la foto del momento per cui ne misi una dell’anno prima. Altra volta posto una foto di qualche mese prima e nei commenti mi scrivono che, sebbene la foto mi ritraesse da giovane, ero uguale a oggi. Mi chiesi da quali elementi i contatti deducessero di trattarsi di una foto vecchia se era solo di qualche mese prima. E come facessero a trovare elementi differenti dalla realtà se mai, quelli che commentavano, mi avevano visto da vicino. In quei casi mi sarei dovuta mettere a spiegare che la foto era stata scattata appena un mese prima, e non anni addietro, che ero così come mi riportava l’immagine, che non uso filtri, perché credo abbiano un effetto peggiorativo e non mi va di apparire diversa dalla realtà. A voler precisare è come giustificarsi ed evitai. Solo piccoli esempi per dire che tra la realtà e la virtualità ce ne passa. Molti sui social cercano l’effetto straordinario, qualcosa di diverso, come l’esagerazione, la goliardia, l’umorismo e vagano da una parte all’altra lasciando commenti di ogni genere, dicendo la propria per ogni piccola sciocchezza, partendo a  raffica come se non avessero mai avuto la possibilità in vita loro di farlo. E in questo continuo sproloquio no stop gli errori non si contano, non solo ortografici ma proprio di comprensione, incorrendo in ciò che non si vorrebbe. Non si paga alcuna tassa a stare zitti e non siamo delegati in alcun modo a dire la prima cazzata solo per fare colpo sui nostri amici. Si scrive se abbiamo da dire qualcosa di valido senza ledere nessuno. Cosa difficile poiché chi legge i post lo fa con lo stato d’animo di quel momento: per cui se si trova in uno stato di grazia, non ci leggerà niente di male, ma se l’umore è sotto i piedi, non si fa che peggiorare la situazione credendo sia un’antifona per lui. La gente si offende per niente e s’incavola anche per meno, travisa spesso gli scritti, ti prende in considerazione solo quando in quel momento ciò che dici rispecchia il loro animo o sei riuscita a dire quello che avrebbero voluto in quel momento. E poi ci sono quelli che come cecchini, sparano su tutti e per ogni contenuto. Se ci confrontassimo nella vita reale così come in rete, sarebbe un bel problema. Nella realtà non affrontiamo niente e nessuno, poiché dovremmo misurarci con l’altra persona in modo serio e non attraverso scritti e immagini. Quando scrivo un post mi chiedo a chi possa interessare un fatto mio, forse a nessuno, e desisto. Se quell’idea mi rincorre, ci ritorno su e ne comincio a scrivere. Strada facendo mi vengono in mente i miei contatti, chi potrebbe dire cosa, chi forse prova la stessa cosa e non sopporta di leggere ciò che pensa, chi leggendolo potrebbe pensare di avercela con lui. Certo sembra assurdo fare queste riflessioni ma credo chiunque l’abbia pensato. Mi partono mentre inizio a scrivere tanto che spesso cancello tutto mettendomi nei panni di chi legge. Il motto di oggi potrebbe essere: “Penso, dunque scrivo”. Scrivere anche solo un post richiede empatia, capire le circostanze, evitare di ferire qualcuno, anche se quel qualcuno ha ferito te. Chi scrive deve preoccuparsi di dire cose utili, interessanti. Molti parlano e scrivono a “schiovere”, vale a dire a vanvera, giusto per il gusto di colpire, di lanciare frecciatine, di fare apologie, monologhi senza fine. E non è che se sei giornalista, professore, politico sei abilitato a scrivere e dire di più rispetto agli altri per requisire i fatidici like che ti abilitano a diventare un leader. Con tanti like diventi influencer, e questo è l’unico sogno di molti, per cui si parte con i post a raffica sperando di acchiappare consensi anche con una semplice stupidaggine. Ed è per questo che bisogna fare attenzione a ciò che si dice, perché legge anche chi non metterà mai un like ai tuoi post, poiché gli sei antipatico, si contrappone a te ma tutto sommato pensa ciò che scrivi. Le dinamiche che si presentano sui social sono tante e il traffico è maggiore che nella realtà. Abbiamo trasferito il reale nel virtuale tanto che nella realtà non siamo più naturali, ricordiamo quello che l’altro ha scritto, che cosa ha postato, quali commenti ha fatto e se ci incontriamo faccia a faccia non sappiamo che dire. Restiamo degli sconosciuti. Una volta un sacerdote, passato ad altra vita, mi mandò a dire che voleva conoscermi perché leggeva i miei post ed era contento, ogni mattina, di trovarmi in bacheca mentre beveva il caffè. Al like preferisco chi mi legge e scrivo quando ciò che dico non sia un editto o un’arringa e nemmeno una filippica. Quelle le riservo al confronto reale e non virtuale. Anche per scontrarsi con una persona, come si fa ad affidarsi a una tastiera? Avete mai contrattato quella persona? Può darsi abbiate solo dei pregiudizi nei suoi confronti, forse se la conosceste, diventereste veri amici. Le tempeste non sono per il virtuale, qui sopra ci vogliono giornate leggere e ritrovi piacevoli. Il virtuale non deve diventare la brutta copia della realtà. Scrivere rispettando gli altri. Ma nel tempo i social si prediligono alla realtà poiché mascherano, amplificano le parole, riducono di molto ciò che si dice e soprattutto ci rende volubili: chiedere amicizie o cancellarle è diventata un’operazione quotidiana come quella di mangiare. E quando i bambini hanno in mano un giocattolo, prima o poi lo rompono. A volte il silenzio è terapeutico.

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Don Carlos: Atto I




 Carlos, solo sulla scena nella foresta di Fontainebleau, mentre è scesa la notte. Segue una romanza, un assolo, unico in tutta l'opera, un pezzo romantico.

Vi è un realismo e una dimensione onirica che si interrompe bruscamente dopo l'arrivo di Tebaldo con la notizia che annulla la felicità degli amanti. Lo stato d'animo dei due entra in conflitto con la nuda verità che si para dinanzi a loro. Lo stile di Verdi punta a una resa drammatica. Solo la natura sembra partecipe all'idillio che sboccia mentre gli esseri umani, a cominciare da Tebaldo, restano ignari alla condizione emotiva dei due giovani.  Don Carlos ha un dialogo incalzante con Tebaldo e si rende garante della sicurezza di Elisabetta. Si accende il fuoco tra i due ma Elisabetta confessa la sua inquietudine. Poi ha luogo il riconoscimento attraverso il medaglione, che Carlos  estrae dallo scrigno. Somiglianza qui con uno dei temi  dell'Ouverture di Oberon. Vi è un' influenza dell'opera romantica tedesca sulla grande opera. Si riscontra un'affinità con Wagner a proposito dell'atto di Fontainebleau con Tristano e Isotta, anche se assoluta estraneità sul piano compositivo. Tra le analogie il riconoscimento e la scoperta dell'innamoramento attraverso un oggetto.

Garante  della felicità degli innamorati è la notte che è lunghissima in Wagner e brevissima in Verdi. Le storie si somigliano ma i soggetti hanno una diversa sensibilità in conformità allo spirito del tempo. Al centro della dinamica, che evolve, vi è in ambedue i casi un duetto d'amore. Ma questo stato di grazia è interrotto in Wagner e in Verdi da qualcosa proveniente dall'esterno: la vista della Cornovaglia in Tristano e Isotta e un colpo di cannone in Don Carlos. La ragion di stato si oppone alla felicità degli amanti. La folla, dopo che la principessa è salita in lettiga, si allontana e Don Carlos resta solo con la sua disperazione. Struttura del primo atto omogenea per essere costruito su una dinamica emotiva ascendente e discendente. Al centro dell'azione il duetto Carlos - Elisabetta su un unico fondale  scenico, la foresta di Fontainebleau.


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Il dodici gennaio

 




E oggi sono diciannove anni che non ci sei più.

Che cosa mi manca di te? I tuoi ceffoni forti a cinque dita spiaccicati sul viso quando mi permettevo una parola fuori posto, le tue rincorse all’ingresso con la tazza di latte bollente che avrei dovuto trangugiare perché fuori faceva freddo, le tue orazioni, meglio dire filippiche, in seguito a un fatto accaduto  per farmi capire, quel trattarmi sin da piccola come se fossi stata una vecchia. E poi la tua gentilezza, il tuo sorriso, sbranare gli altri quando dicevano anche una sciocchezza sulle tue figlie, quelle incursioni a scuola, per sorprendere il ragazzo di turno che voleva proporsi e tu a ordinargli di starmi lontana, mettendomi a disagio. Mi mancano gli spunti che mi davi nel creare un centrino, una sciarpa, un ricamo, quel chiedermi aiuto quando non riuscivi con il lavoro ai ferri attorcigliando il filo del gomitolo per poi abbandonare il lavoro, che puntualmente finivo io. E poi le tue frasi al momento giusto, i tuoi proverbi, le tue canzoni quando eri allegra. Mi manca la tua preoccupazione per la mia salute, il portarmi in giro per i controlli, mai contenta dei responsi dei medici. Mi piaceva la tua sveltezza, l’ordine, la precisione, la capacità di gestire ogni cosa, l’intelligenza pronta nell’afferrare anche il non detto. Mi manca quando mi chiedevi di fare le imitazioni dei nostri vicini e tu a sganasciarti dalle risa, vedere insieme la TV dei ragazzi con Gianni e il magico Alverman, Chi sa chi lo sa, Gioca con noi, Ciuffettino, ma anche i Compagni di Baal, CuoreDopo aver visto un programma o un film, tu spiegavi i passaggi, ritornavi sulle immagini e poi scappavi in cucina a preparare qualcosa di buono per la merenda. Ricordo i tuoi insegnamenti dall’ordine in casa, a come stare al cospetto degli altri, come preparare un piatto semplice, le tue lezioni di pasta e fagioli con me sulla sedia che mi allungavo nella pentola per vedere come la cipolla, il sedano, la patata, il pomodoro galleggiavano nell’acqua finendo nei rigagnoli d’olio e tu che mi dicevi: “Guarda e impara”. E io imparavo tanto da provare da sola, qualche giorno dopo, a tua insaputa. E dello stirare, ne vogliamo parlare? Di come i lembi devono combaciare perfettamente, come vanno stirate le camicie e quello che accadeva quando si presentava una grinza a fine collo che pregiudicava quel sentirmi dire: ”Brava!” E c’erano incursioni peggiori come quelle di tirare le cose dal cassetto e rimettere in ordine capillare, o quando annusando nell’aria, dicevi che non sapeva di pulito, che c’era da insistere. E ricominciavo di nuovo. Per me era fondamentale accontentarti, aspettarmi la tua approvazione, cosa sempre difficile da ottenere. Eri sempre pronta con i tuoi sopralluoghi, i tuoi interventi per dire che le cose vanno fatte bene e in breve tempo. La mia cosiddetta “perdita di tempo” era leggere, che tu non sopportavi, vedermi intenta per ore con un libro in mano, mentre c’era da fare altro. E per continuare mi nascondevo in qualche antro di casa a finire il mio libro. E che dire delle lenzuola del mio letto con le macchie dei colori a olio simili a zampe di gatto sugli orli, quando appena sveglia dipingevo la mia prima idea mattutina. Mi mancano anche le tue scorribande nel bel mezzo di un servizio in atto quando irrompevi sulla scena per dire cosa non andava. Mi mancano le tue risposte, la tua dolcezza in tanta forza, il tuo abbandonarti dopo una giornata pesante, le tue richieste quando non stavi bene e noi a prenderci cura di te. E’ già bello poterlo ricordare, averlo avuto: ricordi intensi, vissuti. Una mamma che non accontentava e si vantava delle figlie, ma puntava all’educazione, a ciò che dovevamo imparare, a gestirci, a saper far la spesa e fare i conti. E quelle affermazioni come quando dicevi che solo tu potevi parlare e sfare di noi, e che l’unico motivo  del metterci sotto torchio era per il nostro bene. Un’idea che fino a poco fa credevo inutile e insensata, l’ho poi rivalutata. Le nostre figlie sanno fare all’occorrenza ma non accettano consigli, non mi sognerei di dire: "Guarda come si fa il soufflé", mi risponderebbe che magari non si mangia più, la dieta non lo vuole. E come parlare della grinza sulla camicia? Oggi i panni vanno in lavanderia, dopo quattro lavaggi sono rimpiazzati dai nuovi. E dell’ordine? Nemmeno a pensarci. In camera non si entra a riordinare prima di un esame in corso, passano giorni per poterci accedere. Ma forse sono più bravi di noi, apprendono guardando e secondo i loro interessi.

Ci hai insegnato che non bisogna mai vantarsi, e mai accontentarsi, migliorarsi sempre, avere la maturità per decidere, scegliere, conoscere ogni cosa a fondo, le “mezze mezze”, come dicevi, non servono a nessuno. E mi piacevano le volte in cui abbassavi la guardia e da mastino diventavi compagna per tirarci su in un momento di difficoltà. E quei baci a sgretolarci il viso accompagnati dalle tue espressioni folkloristiche:” Sule a mamma te vo bene accussi” continuando con sonorità fino a doverne dispensare a tutte e tre.

Quelle azioni che allora mi annoiavano, ora vorrei che si ripetessero ancora. E poi mi manca la tua calza della Befana da diciannove anni. Ogni anno bussavi alla porta, il giorno della festa, con una calza graziosa e ricca che portavi come se ci avessi messo l’oro e me la consegnavi con la fatidica frase: ”Finché ci sono io, non mancherà mai”. Sarà stato anche un rito, ma così benefico che anche il ricordo mi riscalda ancora. E’ bello aver avuto tutto questo, quelle cose che un tempo sembravano abitudinarie e noiose. Ora mi tornano preziose.

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