C'era una volta...

 


     Foto di F.Baratto


Non è l'inizio di una fiaba, ma di una lenta e continua distruzione di un luogo. A cominciare dai bei paesaggi deturpati dal cemento, dallo scempio dei siti archeologici, per poterci costruire su o accanto o addirittura facendoli scomparire. E c'erano pure le strade ben asfaltate e recinzioni adeguate, diventate oggi mulattiere d'altri tempi. 
Strade lungo la costa, in montagna, sentieri coperti da vegetazione con animali selvaggi che circolano senza che nessuno si faccia una domanda, strade che da pubbliche diventano private, cancelli che ricordano ville primo novecento che chiudono là dove prima c'era un passaggio pubblico. Com'è possibile, invece, che l'autostrada da Londra in Cornovaglia sia asfaltata con la precisione di un pittore, senza cedimenti o avvallamenti o buche pericolose. Nemmeno un sassolino per sbaglio finisce sotto le ruote lì. 

Recinzioni e cancelli compaiono come funghi nonostante ci vogliano concessioni e permessi con tanto di autorizzazioni per poterli posizionare.

 I versanti del monte Faito una volta erano conosciuti e battuti come le nostre tasche. Col tempo questi luoghi nascondono misteri proprio come nelle favole, quando a un tratto appare il lupo. Strade, da entrambi i versanti, sempre in ristrutturazione, se non chiuse al traffico, come porte inaccessibili al pubblico e concesse solo a pochi. Lungo il percorso s’incontra di tutto, da animali lasciati liberi, molto spesso randagi o aggressivi, a ostacoli di ogni tipo: alberi divelti, massi, terreno franato, smottamenti. E nessuno sa niente. Eppure parliamo di una strada provinciale, qualcuno dovrebbe pure occuparsene.  Ed è andata via pure la "panarella” la famosa funivia che da Castellammare di Stabia sale a Faito. Ne passerà del tempo per poter funzionare di nuovo,  ma dopo quanto è successo, chi salirà più lassù come se nulla fosse accaduto?

Una volta esistevano anche gli ospedali, con Pronto Soccorso attivo, dove ti salvavano la vita, al contrario di oggi che, dopo il Covid, hanno deciso che possiamo curarci da soli. Chi lo ha deciso? Quelli che pensano di essere eterni e non usufruiranno mai di un ospedale. 

Sarebbe interessante assistere alla loro disperazione e cosa provano in momenti critici quando non sanno dove sbattere la testa. Oggi gli ospedali della zona sono spettri, dove si può solo nascere, ma dopo la nascita, del lungo percorso verso la morte, non se ne prende cura nessuno. Più aumentano le conoscenze in medicina e quindi guarire meglio e prima, più ci si allontana dal malato abbandonandolo a se stesso.

E’ strepitoso come lentamente si assottiglino le possibilità di usufruire del territorio e delle sue risorse.

Le spiagge una volta erano libere, si poteva accedere a tutte le ore, senza divieti, senza recinzioni, liberi di guardare seduti da uno scoglio l’orizzonte, quando nessuno ti scuoteva a muoverti, oltrepassato l’orario d’ingresso e di uscita.  Oggi paghi per sederti sulla spiaggia, come per tuffarti, lo spazio è ridotto e sembra camminare su un terreno minato, col pericolo che giunga qualcuno a dirti che stai usurpando il luogo su cui ti trovi. La bellezza del posto è a beneficio solo del turista? Chi vi abita non è abilitato a usufruirne?

Il traffico poi impedisce di muoversi da queste parti. Molti si illudono che, grazie al lento scorrere delle auto, il turista noti le bellezze del posto. 

 Ma questo comporta gas di scarichi inquinanti, oltre ai tempi di spostamento che si allungano. E se chiedi come risolvere la questione ti risponderanno con un altro tunnel, un ennesimo scempio unito a tanti altri. Le colline non ce la fanno più a subire bombardamenti per essere sventrate. Con un mare come il nostro potremmo avere un traffico marino disciplinato e veloce per incrementare il passaggio in costiera. Ma anche il mare è diventato di pochi, di coloro che sono in possesso di barche che da aprile a ottobre affollano il golfo adottando sempre meno misure di sicurezza negli spostamenti, inoltrandosi nelle riserve marine inaccessibili con abusi di ogni sorta.

E c’era poi la Vesuviana col famoso treno (per tutti i record negativi) da Napoli a Sorrento. Una volta c’era il posto a sedere per tutti, il controllore lavorava con tranquillità, nessuno si opponeva a esibire il biglietto e si poteva ammirare dal finestrino lo scorrere delle stazioni, della gente che saliva e scendeva, senza risse, trambusti, inconvenienti, ritardi. Andare in treno era un piacere. Ma oggi? Una corsa diventa un'impresa. Ti diranno che è colpa della gente, della maleducazione, del sovraffollamento… 

Intanto un treno così indispensabile per viaggiare da Napoli verso la penisola sorrentina, avrebbe dovuto mantenere uno standard molto alto, ma nel tempo è diventato di uno squallore unico. Dalle nostre parti, se qualcosa funziona, si fa di tutto per distruggerla. Anche la Vesuviana. Un turista che scende sui binari mentre si appresta a recarsi a Sorrento, quale idea si farà di noi? Succede in altre parti del mondo?

Nemmeno sulla Cordigliera delle Ande si assiste a una cosa del genere. Ho letto di trasporti efficienti lassù per quanto in posti tenebrosi. Perché venire da noi se altrove si è trattati meglio? Ma al di là del discorso turistico perché non meritiamo un trasporto efficiente?

La penisola sorrentina non è solo mare, sole, cibo, ma anche storia, cultura, è un territorio ricco di reperti archeologici che molti vogliono eludere, seppellendo quello che i secoli non sono riusciti a fare.  Qui non si valorizza, si ignora. 

Ora se in un territorio vengono a mancare la viabilità, gli ospedali, l’efficienza, l’organizzazione, si potrà mai dire essere un luogo turistico? E ancor prima rispondere alle esigenze dei suoi abitanti?

 


Leggere d'estate

                                 
                                

         

                                                                                                                               


Per le vacanze sogno di leggere libri, che scelgo accuratamente. Leggere richiede tempo e concentrazione e a volte mal si accorda con la vita di spiaggia. Spesso ci sono vicini chiassosi, i bambini che fanno incursioni trasportando secchielli d'acqua, sabbia, tirando teli, alzando polvere, che si appiccica alle pagine e, se poco prima avevi del latte solare in mano, sicuramente avrai unto le pagine formando quegli aloni che danno fastidio solo a vederli. E poi ci sono quelli che ti guardano mentre leggi da due ore e sono curiosi di sapere che cosa mai ci troverai di così interessante da preferirlo a un bagno. Questo provoca una continua distrazione. 

La lettura non è un passatempo. Esige concentrazione,  calarsi nella storia, sentirla. È un impegno.

È divertente vedere tutte quelle persone che sfoggiano sotto l'ombrellone il titolone del momento, sfilato dalla classifica settimanale dei più letti.  E si apprestano a isolarsi all'ombra come se stessero partendo per un'impresa. Quanto più grande è il libro tanto più sarà difficile leggerlo fino alla fine  e con l'usura le pagine  mostreranno stropicciature, pieghe, graffi, piccoli strappi. 

Poi ci sono quelli che sotto l'ombrellone leggono al massimo una pagina e la gustano come fanno i sommelier con una coppa di vino in mano. Leggono, distolgono lo sguardo e pensano, poi ritornano sulla pagina, rileggono, chiudono ma stanno ancora rimuginando che, se gli passi accanto, non ti vedono: restano fissi su quella pagina appena letta.

 Qualche volta è successo anche a me di comprare libri senza alcuna intenzione, solo per averli visti da qualche parte. Ma di solito scelgo in base agli interessi, o per conoscere un autore nuovo. Una volta letto, mi piace divulgarlo, parlarne, discuterne. Chiudendo l'ultima pagina è come se me lo fossi bevuto. 

Quando un libro lo troviamo interessante, facciamo in modo che lo leggano anche gli altri, invitandoli a provare le nostre emozioni. 

Ne parlo per ore con amiche, familiari, raccontando quello che ho letto invitandoli a verificare di persona a loro volta. La lettura è fatta anche di passa parola, di trame accattivanti, di personaggi che restano e di cui si parla come di parenti.

Poi ci sono quelli che leggono per trovare nei libri le risoluzioni ai problemi personali, altri per svagarsi con storie leggere. 

Quando sono allegra leggo cose più intense e profonde, ma se sono triste voglio distrarmi. La lettura è una medicina miracolosa: ti trasporta da una parte all'altra migliorando l'umore, regalando punti di vista nuovi, andando a zonzo nel tempo e nello spazio come fossimo viaggiatori alla ricerca di noi stessi.

Una volta, mio figlio, in una libreria di Torino, mi indusse a comprare un romanzo completamente diverso da quelli che ero solita leggere. Scelse per me "Il gioco dei fidanzati" di Daniela Krien,  un'autrice tedesca. 

 Racconta di una ragazza che, stanca di relazioni con ragazzi sempre in cerca di sesso e mai di approfondire la conoscenza dell'altro, mette un annuncio per trovare un ragazzo, ma spiega che non vuole avventure, solo una relazione seria e senza sesso.

Affondai subito nella lettura, e durante tutto il viaggio, da Torino a Napoli, ebbi il tempo di poterlo leggere per intero prima di arrivare a casa. La storia era divertente e ironica e di tanto in tanto mio figlio e mio padre mi sentivano ridere e si affacciavano dicendo: "Ah, ma ci sei anche tu? E facci ridere!"

Non aspettavo altro. Finii per snocciolare loro il romanzo a pezzi: prima leggevo, poi glielo spiegavo. E così per tutto il viaggio. 

 Posso dire che fu una lettura a tre fantastica: non solo lessi per tutto il viaggio, ma condividevo con loro che commentavano con riflessioni a dir poco sorprendenti. 

 Ora sto leggendo quattro libri, non uno per volta ma tutti e quattro insieme: in base all'umore scelgo quello da leggere. Quali sono? "Un altro giro di giostra" di Tizianio Terzani, "La tentazione di esistere" di E.M.Cioran, "Bella e perduta" di Paolo Rumiz e "Il vento conosce il mio nome" di Isabel Allende.

Se mi incontrate in spiaggia, mi riconoscerete per una di queste copertine a coprirmi il viso.



Il Gattopardo


 


Il Gattopardo fu pubblicato nel 1958, un anno dopo la morte dell’autore, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a cura di Giorgio Bassani. Nel 1959 vinse il Premio Strega. Il titolo è dato dallo stemma di casa Salina costituito da un gattopardo.

Possiamo definirlo un romanzo esistenzialista, storico e autobiografico.

I fatti narrati ripercorrono un arco di tempo di cinquant'anni, dal 1860 al 1910, dallo sbarco in Sicilia di Garibaldi fino al cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia.

Al momento delle vicende la Sicilia, luogo in cui si svolge la storia, era sotto il dominio borbonico, sin dal 1734.

Protagonista della vicenda è Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina, esponente dell’aristocrazia siciliana che vive il periodo storico del passaggio tra il vecchio mondo feudale e l’Unità d’Italia. Si assiste, pertanto, a un periodo di decadenza dell’antica nobiltà e il sorgere della nuova borghesia.

L’autore voleva riportare la storia di un suo antenato, il Principe Giulio IV, Principe di Lampedusa e finisce per scrivere un romanzo autobiografico, dove il protagonista Don Fabrizio di Salina assume le caratteristiche dell’autore.

Il Principe è un uomo colto, curioso, di gran fascino, che vive a suo agio nei suoi feudi, molto legato ai suoi spazi. Nelle sue vene scorre sangue siciliano e tedesco, bello, affascinante, colto, biondo e statuario. I suoi antenati risalgono a Federico II di Svevia, e questo passato d’oro non si può eclissare con l’avvento di una nuova classe sociale. Appassionato di matematica, astronomia, si trova più intelligente degli altri, non ha la necessità di confrontarsi e ciò comporta una certa solitudine. Spesso è preso da scatti d’ira.

Il libro si apre con la recita del rosario in casa Salina dove, oltre alla moglie del Principe, ci sono i suoi figli, don Pirrone e l’alano Bendicò.

Lo sbarco dei garibaldini a Marsala, in Sicilia, preoccupa Don Fabrizio per il succedersi degli avvenimenti, visti  come l’ultimo colpo di coda prima che il mondo, tanto caro al Principe, possa estinguersi.

Si assiste nel romanzo alla lenta agonia della nobiltà feudale a favore di una nuova classe, quella della borghesia che avanza con la nuova economia del paese basata su una classe arricchitasi col commercio ma senza una base di sapere e che Don Fabrizio odia. Lo stesso nipote del Principe, Tancredi Falconieri, s’imbatte nel nuovo ceto sociale quando, all’arrivo dei garibaldini, partecipa alla campagna di unificazione del Regno al Piemonte. Don Fabrizio, anche se a malincuore, si mostra a favore dei Piemontesi, sapendo che è l’unico modo per aspirare a restare nel suo mondo e non perdere i privilegi acquisiti. 

Egli ripone le speranze in suo nipote Tancredi, pur avendo sette figli, che già sa non potranno portare avanti il nome della famiglia. Di questi il primogenito, Paolo, è un incapace e l’altro vive all'estero. Anche per le figlie femmine non ci sono speranze. 

Tancredi è un bel ragazzo, maturo, sarcastico e dedito a frequentazioni opinabili. Nonostante alcuni suoi aspetti non proprio adamantini, il Principe ha un debole per lui. Anzi lo avrebbe preferito al posto del suo primogenito.

Tancredi non vuole scontentare lo zio e pensa di sposare la figlia Concetta. Ma in un periodo di vacanze a Donnafugata, il giovane conosce la figlia del sindaco don Calogero Sedara, Angelica, e se ne innamora. Della ragazza ammira non solo la grande bellezza ma anche la cospicua dote. La bellezza di Angelica offusca chiunque, anche il Principe, a cui risveglia  la vanità di uomo ancora sensuale e di un certo fascino.

Don Fabrizio non ama la scelta del nipote di imparentarsi con una famiglia borghese e volgare, che non ha niente da spartire con la vecchia aristocrazia.

Don Calogero Sedara, sindaco di Donnafugata e padre di Angelica, impersona il ceto emergente che ascende al potere. Egli non ha l’eleganza, la portata e lo spessore di Don Fabrizio. Alla cultura di quest’ultimo contrappone la conoscenza dei materiali che più “tirano” sul mercato, alle buone maniere, la rozza risoluzione senza alcuna sensibilità o gentilezza. 

All’interno del romanzo si fanno le differenze tra la tranquilla e consolidata classe nobile e quella più inconsistente ma di rapida ascesa della borghesia. Una classe che varia, in base all’economia, agli affari e al successo e che risente delle interferenze sociali. E le due sono contrapposte ma si osservano e si controllano sapendo che l’una succederà all’altra, tanto che il Principe affermerà: ”Presto gli sciacalletti e le iene prenderanno il posto dei gattopardi”.

Tancredi costituisce il momento di passaggio da un mondo all'altro quando sposa la bella Angelica, unendo i due ceti sociali come mai prima era accaduto. 

Don Fabrizio, nonostante non approvi la parentela con la famiglia di Don Calogero, comprende il volere di suo nipote e non lo biasima. Egli vive ora di rimpianti dei tempi passati e di un forte pessimismo per il futuro.

Sua moglie, la Principessa Stella, non ha la sua  stessa luce, sembra quasi un personaggio minore: molto remissiva, incapace di essere padrona della sua vita, anzi ruota attorno al marito come chi ha bisogno di sentirsi qualcuno. E l’amore che prova per il consorte non basta a darle una vita felice se questi la tradisce continuamente.

I membri della famiglia subiscono tutti l’ascendenza del Principe, in un mondo ingessato e ovattato dove non risuona alcuna contrapposizione.

 Alla Principessa Stella somiglia sua figlia Concetta, una donna fragile, molto introversa, incapace di fornire i suoi stati d’animo e pertanto sottomessa ai voleri degli altri.

Non meno importante il personaggio di Padre Pirrone, guida spirituale di tutta la famiglia, che segue il Principe come la sua ombra e lo accompagna nei viaggi di rappresentanza. Il ruolo lo vede spesso costretto a lunghi sermoni a Don Fabrizio, per placare la sua innata sensualità e a prendere decisioni importanti all’interno del casato. Don Fabrizio, pur avendolo al seguito, vorrebbe da lui un tacito consenso alle sue iniziative ma si imbatte continuamente nelle sue avverse sentenze. 

Don Fabrizio è consapevole di non poter cambiare le cose, sia per la famiglia che si ritrova, priva di capacità e ambizioni, sia per la rivoluzione che incombe e porterà scompiglio. L’unico modo per attraversare il momento è comprendere che: "Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi", come se bastasse ad assicurarsi il benessere e la tranquillità in cui vive, fatto di privilegi, rispetto e sudditanza da parte del popolo, di asservimento dei coloni dei suoi feudi ed esercizio del suo potere.

"Il principe non aveva ricordi da preordinare; aveva soltanto previsioni da capovolgere".

In un passo dell'opera, quando l'emissario piemontese Chavalley giunge in Sicilia per offrire al principe la carica di senatore, che invece rifiuta per sentirsi legato al suo casato, descrive in modo tagliente i siciliani: "in Sicilia non importa far bene o far male: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di "fare"... i siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria".

Egli spiega all'ospite i motivi per cui i siciliani hanno difficoltà ad accettare il nuovo padrone: sono secoli che si adattano ai loro conquistatori e si sono rivestiti di una corazza che mal percepisce il volere dei dominatori. La sua natura è di non voler essere guidati, di non sottomettersi. La società intorno può anche cambiare, ma il modo interiore di un siciliano è rimasto integro e fedele al suo spirito e alla sua terra. 

Don Fabrizio sa che da questo momento la sua vita sarà più ritirata, proprio perché non riesce a sentirsi parte integrante del nuovo mondo che avanza. 

L'opera descrive la decadenza di una famiglia aristocratica in un momento storico importante, in un ambiente geografico particolare come quello di Sicilia. Il successo del romanzo fu grandioso. Secondo alcuni andava scritto un secolo prima, poiché ci ritroviamo davanti a una rianimazione di valori antichi, concetti feudali. E il fatto che ancora oggi il romanzo riporti grande successo fa pensare che la fine del mondo feudale non sia mai stata cancellata e che possano ancora esistere i cosiddetti gattopardi con tutta la loro gerarchia.

È un romanzo esistenzialista per il pessimismo che lo pervade, soprattutto di tipo storico, per il senso d'inquietudine che attanaglia il Principe al pensiero della morte. Morte e decadenza si rincorrono dall'inizio alla fine. Ma lo stile del romanzo è rivelatore non solo di una storia di famiglia ma anche delle luci e ombre che hanno accompagnato il passaggio storico di un momento così importante. 

 I dialoghi di Don Pirrone, i momenti di tensione per l'arrivo dei garibaldini, il sarcasmo e l'umorismo del Principe nel raccontare situazioni e fatti rendono la lettura veramente piacevole e accattivante. Fondamentale in tutto lo scorrere della storia il coraggio, sia quello  dei borghesi nella loro scalata al potere che quello del principe nell'accettare i fatti e arrendersi al cambiamento e alla caduta del suo casato.  





 



E stiamo a guardare...

 




Ultimamente ci poniamo a spettatori indifferenti davanti ai fatti gravi accaduti in alcune amministrazioni del nostro territorio.

 L'indignazione ha vita breve, la avvertiamo per qualche giorno, poi subito ci riallineiamo secondo i ranghi di appartenenza: se il fatto ci tocca da vicino, stiamo attenti a ciò che diciamo, senza esporci; se si conosce la persona incriminata, allontaniamo da noi l'idea di discuterne. In questo modo abortisce ogni pensiero costruttivo in proposito e si attende passivamente che tutto finisca. 

Chi ne deve parlare, tace, il popolo blatera e spettegola e dopo un po' passa ad altro fatto. "Ma un fatto è un fatto: non ha contraddizioni, non ha ambiguità, non contiene il diverso e il contrario"come diceva Leonardo Sciascia.

Non ci offende più niente, tutt'al più ci facciamo dell'ironia, tanto meno proviamo vergogna, anzi, si scambia l'accaduto per un atto di coraggio. Non ci indigna il sopruso, non ci amareggia il tradimento pubblico e non abbiamo a cuore le sorti della "res pubblica". Diamo per acquisiti malcostume e menefreghismo, come se dovessero allignare. Ma poi, dalla nostra indifferenza, vorremmo erigerci a giudici. Sulle prime reagiamo aspramente, poi, passato il tempo necessario a far cadere nell'oblio il fatto, siamo già volti ad altro.

Supportati dalla convinzione, pigrizia e convenienza ci adagiamo sull'idea che lo stato dei fatti è questo e non cambierà mai. La corruttela non fa più scandalo, questo è il paese del "qui nessuno è fesso", assurto a valore morale. Siamo così assuefatti ad azioni riprovevoli che non riusciamo nemmeno a rilevarne la gravità. Si trovano attenuanti al gesto commesso e si cerca di non attribuire alcuna colpa a chi ha compiuto l'illecito. 

 Questa mentalità è corroborata dal pregiudizio che essere persone furbe, intelligenti, capaci dia il benestare a compiere qualsiasi nefandezza, come se delinquere fosse un merito e  non un reato.

Ma accadono ancora cose normali tra gli umani che non siano azioni di lupi, volpi e sciacalli?

Ma poi opporsi a che cosa e perché?

 Perché  viene prima il bene personale e se intorno a noi tutto va a rotoli, non è affar nostro. Di Machiavelli per anni si è preso a modello solo "il fine giustifica i mezzi", tralasciando il "bene comune" di cui si parla all'interno della stessa opera: "Il Principe"

Il bene comune preordina il bene personale e non viceversa. Se fai sempre e solo i tuoi interessi non potrai mai avere quello di tutta la comunità. Ma va così. La gente lotta per una conquista personale: se necessita di un privilegio si adopera, se non inserita in una graduatoria, si oppone strenuamente, se ha bisogno di un sussidio, si scalmana fino a ottenerlo, ma se poi per conquistare dei privilegi lede i diritti degli altri, questo non la riguarda. Vediamo nei fatti ciò che vogliamo. 

E non basta dire io sono una persona perbene, pago le tasse, non faccio niente di male, a sbagliare sono gli altri. Quando gli altri si comportano in modo tale da pregiudicare il buon andamento della comunità, è necessario far capire da che parte siamo. Davanti ai fatti certi, bisogna far cadere la maschera, prendere le distanze. Ma solo pochi possono permettersi questo atteggiamento: quelli che non hanno paura di opporsi per non essersi mai sottomessi o scesi a compromessi.   

Rubare, corrompere, sopraffare, istigare, delinquere, sono azioni che non menzioniamo mai col loro nome, sembrano innominabili, eppure accadono e anche di frequente. 

Rubare significa sottrarre furtivamente qualcosa a qualcuno e furtivamente significa senza che qualcuno se ne avveda o se ne accorga;

- corrompere, guastare sul piano spirituale e morale, danneggiare;

- sopraffare, sottomettere, prendere il dominio su un altro;

- istigare, indurre ad azioni riprovevoli;

- delinquere, infrangere norme prestabilite macchiandosi di colpe.

Si conoscono più le azioni che i loro nomi, anche quando sono reiterate, anzi quasi mai vengono menzionate se non nelle aule dei tribunali.

Allora cominciamo a nominarle con insistenza per evitare di dimenticare il tipo di reato in cui si cade. È importante conoscere il significato delle parole poiché a quelle parole poi vanno abbinati i rispettivi risvolti penali.

Se delinqui, corrompi, istighi, rubi, poi vai in galera, c'è una pena da scontare. 

 In perfetta linea su quanto affermava Machiavelli: gli uomini di solito tendono a regolare i propri rapporti sulla base dell'interesse e della forza senza rispetto dei valori di bene e male. Gli uomini, per il segretario fiorentino, sono tutti rei e usano la malignità del loro animo qualunque volta ne abbiano libera occasione. Per Guicciardini l'uomo considerato isolatamente  è buono ma  è corrotto proprio dalla sua socialità, da cui nasce invidia, ambizione, competizione con gli altri. Essi non operano mai bene se non per necessità e bisogna ordinare una repubblica in modo che  chi volesse far male, non può.

Dopo aver compreso la concezione naturalistica dell'uomo, le cose vanno disposte in modo che gli uomini abbiano difficoltà a mettere in atto i propri interessi a scapito della comunità.

Quello che un politico si ostina a non capire e non accetta è che occupa un posto che la comunità gli ha affidato e pertanto va onorato. Il suo comportamento dovrebbe rispecchiare quello di un ospite.

 Questi concetti basilari di democrazia, altro nome innominabile poiché scappa da tutte le parti, li conoscono anche i bambini mentre chi gestisce la cosa pubblica ha difficoltà ad accettarli.  In una società basta un solo corrotto a inquinare il terreno più fertile. Ma anche la comunità deve collaborare e mantenere integro l'organismo. L'uno deve essere di correzione all'altro. Il tutto unito a buone leggi ma soprattutto  alla certezza delle pene, senza le quali decade ogni discorso.



Al Social World Film Festival “Il messaggio di Papa Leone XIV e il nuovo codice deontologico”




Il 12 maggio scorso, Papa Leone XIV ha tenuto un discorso agli operatori della comunicazione. Il Pontefice porta ad esempio un estratto dal “Discorso della montagna” dove Gesù proclama beati gli operatori di pace. Il discorso prende a modello un tipo di comunicazione diversa, che non abbia il consenso a tutti i costi, che non si vesta di parole offensive, aggressive o sia in competizione. Ciascuno di noi può essere operatore di pace, dipende da come guardiamo gli altri, come li ascoltiamo, come interagiamo rendendo la comunicazione, un grande strumento per costruire ponti e non muri. Il no va alla guerra delle parole e delle immagini. Per Papa Leone XIV con la comunicazione bisogna uscire dalla torre di Babele in cui ci troviamo oggi, una confusione di linguaggi senza amore, ideologici e faziosi. Per comunicazione non s’intende solo trasmissione di informazioni ma anche creazione di cultura. Lo richiede l’evoluzione stessa della tecnologia, che necessita di responsabilità e discernimento per orientare gli strumenti al bene di tutti. Bisogna disarmare la comunicazione da ogni pregiudizio, fanatismo, odio, rancore. Disarmando le parole, disarmeremo la terra. Ed è stato proprio il messaggio di Papa Leone XIV alla base del corso di formazione giornalisti organizzato dall’Ordine Giornalisti della Campania, tenutosi oggi al Palazzo Giusso di Vico Equense, all’interno della Manifestazione del Social World Film Festival, dal titolo “Il messaggio di Papa Leone XIV e il nuovo codice deontologico”. Sono intervenuti Ottavio Lucarelli, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Campania, Giuseppe Alessio Nuzzo, direttore del Social World Film Festival, Angelo Scelzo, già vicedirettore della Sala Stampa della Santa Sede, editorialista e scrittore, Alfonso Pirozzi, redattore Ansa Campania, Antonio Pintauro, direttore dell’ufficio Comunicazioni Sociali della Diocesi di Acerra, Alessandro Savoia, giornalista e addetto stampa, la giornalista Claudia Esposito moderatrice dell’incontro. Le parole sono pietre, hanno un peso. La comunicazione, in questi ultimi due pontificati è stata fondamentale e i giornalisti sono operatori di pace. La comunicazione, oggi, ha cambiato profilo rispetto al passato, e la società è modellata sul modo di comunicare. Leone XIV afferma che viviamo in una società intricata di rapporti sociali. Il ruolo della comunicazione è plasmare la società del futuro e stemperare la vita, soprattutto quella che si vive con la guerra, una vita fatta di odi e contrapposizioni. Sia con Francesco che Leone XIV la comunicazione è stata al centro della loro vita. Oggi il Papa punta sulla cronaca del momento e lo fa attraverso la Essa è parte attiva e viva, come strumento negoziale, rivolta a far in modo che la vita sia libera dalle tossine. La prossima enciclica potrà essere sulla questione digitale che si pone al centro della vita della Chiesa. Il problema resta come utilizzare questo grande potenziale. Solo i popoli informati possono scegliere il loro futuro. La Chiesa non deve cedere alla mediocrità. Il giornalismo non può esistere fuori dal tempo e dalla storia. A tal fine si chiede una piena corresponsabilità degli operatori che lavorano in questo ambito per evitare che la comunicazione, come sottolineava papa Francesco, sfoci nel pericolo del predicalismo. Pur non vivendo la guerra dal vivo, come le generazioni precedenti, osserviamo comunque ciò che accade nei campi di battaglia che si combattono in territori nemmeno tanto lontani da noi. E anche la comunicazione può diventare un’arma.

La radio

 


Per rieducare all'ascolto dobbiamo avvicinarci di nuovo alla radio. Un mezzo di comunicazione di massa che trovo adorabile.

Quando guido, amo ascoltare la musica, ma mi impongo poi di concentrarmi su programmi di grande interesse. 

Molti discorsi s'insinuano dentro e ci stazionano a lungo, diventando, col tempo, oggetto di lunghe riflessioni. Viaggiare con una voce nell'abitacolo dell'auto, come se ci fosse qualcuno accanto a fornire argomenti su cui discutere, è veramente una riscoperta. 

Mentre ascolto, do valore alla modulazione della voce, all'educazione con cui interagiscono gli interlocutori, mi intrattengo sulle domande che a volte mi restano in mente a lungo e le faccio mie, sono attenta alle risposte, al loro valore e se ci avevo mai pensato io prima di allora.

La radio arriva su una frequenza d'onda che avvolge, irretisce e catapulta nel pensiero profondo, con un viaggio della mente, che  rispolvera conoscenze, acquisisce nuovi modi di vedere, o convalida ciò che già sappiamo. Nessun altro strumento ci dà questa possibilità. Con la radio siamo portati ad ascoltare e, nel mentre, siamo sintonizzati anche con noi stessi. Un dialogo  interattivo restando focalizzati su un fatto, un personaggio, una storia, una questione politica. Una continua comparazione tra noi e ciò che viene detto. Uno scambio e un passaggio tra chi ascolta e chi parla.

E, poiché essere concentrati ad ascoltare, stanca, abbiamo la possibilità di passare a qualcosa di più leggero, girando ad altra stazione. Cambiando frequenza, cambiano voci, storie, idee, situazioni.

Possiamo riascoltare  i successi degli anni passati, un leit motiv che ci ha accompagnato durante la nostra giovinezza, una canzone che rievoca un periodo importante per noi. 

La domenica mattina, quando mi appresto a cucinare, posiziono lo smartphone sulla frequenza radio accanto ai fornelli e faccio partire la musica. Da quel momento sono rapita completamente dal ritmo, mentre comincio a prendere pentole e alimenti da preparare.

Con la radio apprezzo di più la parola e il suo valore, faccio una disamina di quelle più usate e quelle meno, comprese le motivazioni. E ritornano le espressioni di autori che hanno riferito a riguardo come L.Wittgenstein. 
E' uno strumento che arricchisce senza strombazzare, con voce lenta, suadente, penetrante.

Quando i miei mi vedono con gli auricolari ad ascoltare e non solo musica, mi guardano in modo strano. Il fatto di ascoltare e non essere presenti a loro, li disorienta. Ma non è un escludersi: in quel momento ascoltare è più importante del parlare. Dovremmo comprendere che senza la propensione ad ascoltare non si può essere nemmeno buoni oratori o attenti alle parole altrui.

La radio arricchisce la nostra fantasia, ci porta in giro a  esplorare, ci mette idee nuove in testa, ci fa assaporare l'ironia, la battuta, la barzelletta, la canzone, abbandonando per un po' l'attuale impero dell'immagine.

Con la radio siamo tenuti a pensare, immaginare, prevedere, ricordare, pronosticare, sforzandoci di scavare in noi.

E' una voce amica che arriva direttamente a noi senza intermediari e senza distrarci, dandoci i tempi giusti per assimilare.

La mia generazione era solita portarla in spiaggia e ascoltare i successi dell'estate, e rendere le giornate al mare allegre e spensierate. Poi per un po' siamo stati distratti dalla tecnologia, ma non ha perso il suo fascino se pensiamo che possiamo ascoltarla ovunque. 

Più che intrattenere la radio, oggi, può fornirci l'opportunità di riflettere ed educarci ai tempi e alle regole per intraprendere un buon dialogo.


In nome della cultura




 
La definizione di cultura, secondo l'enciclopedia Treccani, è:

"L'insieme delle cognizioni attraverso lo studio e l'esperienza, rielaborandole, peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé del proprio mondo".

La parola cultura, dal latino "colere", significa coltivare, "prendersi cura" e senza prima la cura di sé stessi non possiamo essere mediatori di cultura per gli altri. Attraverso un percorso di studi, si affina anche la conoscenza delle buone maniere, l'educazione, il modo di porgersi agli altri, sviluppando una certa sensibilità e maturando sentimenti e comportamenti secondo i modelli acquisiti. Il cambiamento avviene man mano, diventando padrone di contenuti che ci rinnovano.

Pensiamo sia così, ma a volte si sommano tanti altri aspetti che, molto spesso, capovolgono le situazioni. E non sempre lo studio è indice di nobiltà d'animo.

Per cui si può arrivare al paradosso, che magari la persona colta diventi anche più "stronza" per effetto di acquisita onnipotenza.
E sono diversi anni che mi imbatto in questi tipi. Molto spesso sono persone che ti sorridono, sembrano innocue, che partono col farti domande che richiederebbero lunghe risposte e subito ti accorgi che sono già salite sul pulpito, bruciando ogni tipo di comunicazione. Vanno all'attacco: mettono in chiaro che loro sono lì per la serie: "Qui comando io". Poi continuano con delle richieste dalle quali non puoi esimerti, poiché ti fanno capire che "giochi in casa loro" e devi "obbedire". Intanto sono privi di tatto, esercitano solo un potere in cui credono ciecamente e solo in quello.

Molti non hanno il senso dell'ospitalità, dell'accoglienza, sono scorretti e arroganti, pieni delle loro azioni in nome della "legalità", che per primi infrangono. La loro arroganza si gonfia dell'umiltà della preda, portando impresso nell'animo: "il potere logora chi non ce l'ha". Con queste premesse non oso immaginare quale cultura possano trasmettere.

Più che di potere parlerei di una zona comfort, per cui uscendo dal ruolo che incarnano sono solo delle nullità, per niente empatici, ma soffrono di individualismo camuffato da finta generosità. Non fanno un passo se non per un loro tornaconto, non agiscono se non per conseguire risultati ben calcolati. Quando vedo queste persone così "impostate", che occupano ruoli cosiddetti di cultura, rabbrividisco. La cultura non è una merce da dispensare, è un discorso continuo col prossimo e i suoi promotori devono conoscere il modo di relazionarsi agli altri.
Ne ho incontrati tanti: quelli che ti chiedono l'amicizia giusto per il tempo di approntare i loro piani e togliertela come se non si fossero mai rapportati con te; quelli che credono siano unici nel loro ruolo; quelli che non vogliono che la loro bolla di "potere" sia scalfita per niente al mondo; quelli che credono così tanto in sé stessi che sarebbe ingiusto se tu gli facessi capire che quel sé è supponente, meschino e invidioso. Ecco, tutte queste persone, invece di spacciarsi per portatori sani di cultura, devono partire dall'educazione. Ho visto persone addette ai lavori, spesso giovani e inesperti, che davanti a te autrice, che sei dentro a queste cose e ci vivi conoscendo ogni meandro della filiera editoriale, vogliono mostrarsi più esperti a tutti i costi. Anche i meno giovani peccano di presunzione e arroganza.

E continuano a credere di fare cultura "lobbizzando", escludendo, invadendo campi a loro sconosciuti, cercando non la cultura ma di organizzare i loro piani in base agli amici, alla cerchia, a chi non ti può dire di no, tirando gli altri per la giacca.

Sperano di fare colpo con il libro del momento, il personaggio che fa audience.

Per fare cultura basterebbe anche cominciare a parlare di questi aspetti infelici, una riflessione sulle modalità, una conversazione su una consuetudine errata che va rieducata, un testo che fa il caso nostro su cui sviluppare un lungo dibattito, una frase tratta dalla quotidianità o da un testo, tutto al fine di confrontarsi. La cultura è un dialogo continuo e bisogna sradicare ciò che di marcio è prima in noi. Ma soprattutto è dare voce agli altri tenendo a bada il nostro super ego sempre e smisuratamente in mostra.

La cultura serve ad acquisire una mente critica e non accomodarsi al conformismo, avere la capacità di capire a fondo le situazioni, i fatti e saper agire di conseguenza. Inizia sin da piccoli e non si interrompe mai. La cultura è anche la condizione interiore di voler apprendere sempre e mantenere gli abiti dell'alunno più che indossare quelli del maestro. Cultura è voglia di imparare, confrontarsi, crescere interiormente e far buon uso di ciò che si apprende, diffondendo, divulgando, rapportandosi agli altri. 






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