Giovanni Manganaro: una vita per l’arte

 



Ho incontrato Giovanni Manganaro per una piacevole chiacchierata sulla sua arte. Noto subito uno sguardo tranquillo con due occhi ridenti ma sconfinati, un limen tra mondo esterno e un altro più vasto, interiore. Al cospetto di un artista si ha sempre la difficoltà del tipo d’approccio da scegliere per sondarne l’animo, se di tipo psicologico, approfondendo l’uomo o di tipo sociologico, partendo dall’impatto della sua arte sui contemporanei. Entrambi gli approcci possono coesistere e presuppongono l’enigma dell’artista, che rimane anche dopo aver compreso la sua indole, il suo pensiero, la sua storia.  Mi cattura la semplicità con cui esprime concetti rilevanti gesticolando con le mani, per lui la parte più preziosa del corpo. Le muove come le bacchette di un direttore d’orchestra, sicuro di ciò che va dicendo. A cosa serve l’arte? E’ emozione, ed emozionarsi serve a metterci in contatto con la parte più profonda del nostro essere, fornendoci la pura essenza della vita. Ci si chiede quali caratteristiche e predisposizioni mostri l’artista per condurlo alla creazione. Alla base c’è una ricerca di se stesso e della vita e, in questa inquietudine costante, l’artista crea. Davanti all’opera, l’emozione di chi osserva è più importante della motivazione che ha spinto l’artista a quel contenuto.

Giovanni Manganaro mi parla del suo percorso artistico, risponde alle domande raccontandomi le sue esperienze, il rapporto col suo territorio, il contatto con la natura, le persone, le cose, la sua realtà quotidiana. La mia attenzione nei suoi confronti è data dalla curiosità di voler conoscere il suo talento, le tecniche adottate, il pensiero che precorre a una determinata idea, la genesi delle opere, tutti argomenti che si rincorrono nel corso della conversazione. In mano i cataloghi bloccati sulle immagini che catturano per i colori e l’armonia. Su quest’ultima parola l’artista ammette che bisogna riportare sulla superficie una certa musica. Molti i dettagli che emergono dalle immagini: segni, combinazioni, ma anche ossessioni, come quella per le mani a sei dita che l’artista spiega essere quelle del pittore, proposte in molte sue opere; o il colore bianco, suo prediletto, in tutte le sue sfumature. Il colore dei marmi che l’artista ha visto tante volte da bambino, quando andava in cattedrale a Vico Equense a riportare sui fogli bianchi le immagini dei dipinti della chiesa. Sfogliando e osservando ci si pone molti interrogativi e tutte le possibili risposte sono plausibili, sono valide.  L’artista percepisce le mie domande e parte con le risposte prima ancora che io le formuli, quasi presagendo le mie possibili richieste solo a guardare una determinata immagine. L’emozione prodotta da un’opera d’arte ha un principio di universalità e non di soggettività e l’unico modo per esprimere questa percezione, per trascrivere il percepito, è la riduzione geometrica. La geometria riesce a tradurre il disordine che sta fuori in ordine sulla superficie di lavoro, come affermava Morandi.

Giovanni Manganaro  ha frequentato l’Accademia delle Belle Arti a Napoli, da cui esce nel ’71. La sua passione si manifesta in tenera età, quando, vedendo un film su Amedeo Modigliani, capì che voleva dipingere. Fu attratto dai colli lunghi del pittore, segno, a suo dire, di elevazione, posti tra cuore e mente. E mentre progettava di diventare pittore, faceva il falegname, ancora bambino, all’età di sette anni.  Nelle sue opere si affollano e si respingono, sulla superficie, colori e forme desunte dalle ombre che incontra durante le sue passeggiate mattutine, quando se ne va da Moiano a Ticciano per i suoi cinque chilometri. Lungo la strada ombre indefinibili attraggono la sua attenzione, fornendogli l’idea su cui lavorare. Tutto nasce all’impronta, senza schizzi, le macchie cadono come vogliono, facendosi largo sulla superficie, pur mantenendo il principio di un colore base. L’ispirazione parte così, direttamente sul cartone, poi con vinavil sul compensato, dove l’immagine resta fissata più che sulla tela. Prepara i suoi colori a polvere. E mentre dipinge ascolta musica classica. Prevalgono, nelle sue opere, sfericità composte e decomposte, linee desunte da una natura sempre nuova e diversa, con colori che rappresentano armonia e legame stretto, figure umane che si moltiplicano e si dividono in logiche sequenze declinandosi nelle loro varie parti e all’infinito. E tra i suoi pittori preferiti ci sono i futuristi Boccioni e Kisling. Contro la maniera tradizionale di costruire quadri con elementi immobili, i futuristi decidono di proiettare lo spettatore al centro del quadro, interpretando corpi, cose, oggetti che possono avere un’anima con espressioni di dolore. Un passaggio che si forgia attraverso una spiritualizzazione del pensiero che può avvenire solo con la purezza di colori e linee. Tra gli altri predilige Modigliani e Chagall.

Racconta di dipingere con uno specchio posto alle spalle, una sorta di giudice rivelatore di errori che vanno corretti. La geometria che si dispiega nell’immagine deve avere un’armonia, una continuità e un equilibrio, tutto ben dosato. Si preoccupa, durante l’esecuzione, di capire quando l’opera deve terminare e quando il colore è ormai saturo nelle sue espressioni. Le sue mostre in tutta Italia e all’estero gli hanno permesso di scoprire città d’arte, tra tutte la più amata è Venezia.

Il maestro afferma che l’arte ha sempre cose nuove da proporre, combinazioni da creare, molteplici gli spunti e le ispirazioni, in un’immaginazione inesauribile. Il carattere di un suo quadro è dato dalla distribuzione dello spazio, colori, forme e dalla sinergia tra le parti, servendosi di aspetti della sua quotidianità e del suo passato. Quando vuole riportare episodi del tempo andato, lo fa servendosi di dettagli che gli ricordano quel determinato fatto. Attraverso l’osservazione di un dettaglio come ad esempio un festone, gli giunge l’estratto di un momento di ieri, un ricordo lontano che affiora alla memoria e si trasforma in elemento artistico. Ogni immagine porta una sua lingua e una sua codificazione. Per l’artista tutti gli elementi devono cooperare per tramutarsi in un’espressione. Prima di approcciarsi a riempire una nuova superficie deve misurarsi con quanto va componendo in mente e questo può richiedere tempo. “Credo che il mio lavoro possa concentrarsi in un cerchio magico, e che l’immagine non sia altro che ancora immagine. Questa è l’intimità del mio lavoro”, afferma tra le righe di un catalogo. La nostra chiacchierata volge al termine, ma continuerebbe ancora per tante emozioni di cui parlare osservando le opere. I suoi occhi, a fine incontro, sono sempre sorridenti, più accesi di prima, consapevole di avermi coinvolto nel suo mondo creativo. E ha ragione quando afferma: “Vorrei catturare lo sguardo dell’osservatore per soffermarlo in ogni angolo, su ogni colore, in ogni curva dei miei dipinti, per farlo partecipe della mia felicità.” La stessa felicità la riscontro a fine incontro.

Stringendogli la mano raccolgo anche il sesto dito, dove è racchiusa non solo la sua arte, anche la sua umanità, senza la quale ogni artista produrrebbe solo sterile esercizio tecnico.

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Zefiro già, di be’ fioretti adorno

 



Zefiro già, di be’ fioretti adorno,/ avea de’ monti tolta ogni pruina;/ avea fatto al suo nido già ritorno/ la stanca rondinella peregrina;/ risonava la selva intorno intorno/soavemente all’ora mattutina;/ e la ingegnosa pecchia* al primo albore/ giva predando ora uno or altro fiore.(*ape)

I versi sono tratti dalle Stanze di Angelo Poliziano, capolavoro del poeta e di tutto il quattrocento. Ogni anno a primavera, appena sveglia, mi giungono da lontano questi versi, la venticinquesima stanza,la più bella ed espressiva dell’opera, come un ritornello, ridandomi le impressioni ricevute la prima volta alla lettura dei versi. L’importanza di questa strofa non è soltanto nel contenuto che esprime, ma per il trasferimento su un piano poetico dei gusti, motivi e forme dell’umanesimo. Rappresenta il sorgere di un mitico mattino primaverile: visione delicata e malinconica. Stilisticamente è un esempio di perfezione con cui è usata l’ottava.

La stanza è un componimento basato sull’ottava rima che nella poesia italiana è la strofa composta di otto versi endecasillabi. Quando questi sono disposti in tre coppie a rima alternata e una finale baciata AB-AB-AB-CC è chiamata toscana, ottava  rima o semplicemente stanza.

Il poemetto è determinato da un motivo occasionale: la celebrazione della vittoria di Giuliano de’ Medici in una giostra svoltasi nel 1475 ed è un poemetto del genere celebrativo, un tipo di poesia in voga nel XV secolo. L’estro del Poliziano qui evade dalla contingenza del fatto per abbandonarsi a una libera sua ispirazione. Contempla la quiete della natura nei suoi colori e nelle linee e la giovinezza considerata come la perfezione interiore, senza travagli o conflitti, tutta protesa a godere la sua ora fuggevole trasferendosi nel mondo del mito. Lentamente si allontana dalle “gloriose pompe e’ fieri ludi” per trasferirsi in un mondo di sogno. Giuliano de’ Medici, che diventa Iulio nei versi, combatte la giostra per amore di Simonetta Cattaneo andata in sposa a Marco Vespucci. Iulio diventa un giovane bellissimo e selvaggio mentre Simonetta incarna una ninfa, ideale di bellezza serena e perfetta. L’incontro tra i due avviene lontano dalla realtà quotidiana, in una campagna primaverile che esclude ogni elemento realistico, ma si carica di richiami eterni  e immutabili, riportando le atmosfere irraggiungibili e fantastiche delle favole pagane. Il poeta si rifugia in un ideale di bellezza creato dai classici: uomini, eventi, aspetti della natura passano dal piano contingente a quello universale ed eterno.

Il poemetto conta centosettantuno stanze in tutto di cui centoventicinque nel primo libro e quarantasei nel secondo e non fu mai finito per la morte prematura di Simonetta Cattaneo Vespucci e per la tragica morte di Giuliano de’ Medici, assassinato durante la Congiura de’ Pazzi a Firenze nel 1478. L’opera termina proprio quando Iulio scende in campo per combattere. L’intento era di cantare l’evoluzione dell’animo di Iulio rivolto dapprima alla passione della caccia e dei beni materiali e poi alla contemplazione della bellezza divina attraverso la bellezza terrena. Questa evoluzione, che il poeta si appresta a scrivere, si rifà al concetto di amore di quel periodo. Nel trattato “Sopra lo amore” di Marsilio Ficino si afferma che nell’uomo  operano due Venere: la prima si colloca nella Mente Angelica e porta a contemplare la bellezza divina che emana le sue scintille attraverso la materia del mondo; l’altra è la forza di generare attribuita all’Anima del Mondo. Secondo Pico della Mirandola, discepolo di Ficino, ci sono due aspetti dell’amore: “dei quali l’uno è bestiale e l’altro umano”. La vista di Simonetta suscita in Iulio un duplice desiderio, insieme carnale e divino.  Il senso profondo del poemetto è nella visione che Iulio ha alla fine del secondo libro: Amore vinto è reso prigioniero da Simonetta, nelle vesti di Minerva guerriera. Lei lo invita a ispirarsi alla gloria di Minerva guerriera. Lei lo invita a ispirarsi alla gloria, la quale dopo che Iulio gli ha rivolto lo sguardo, scende dall’alto, spoglia la donna delle armi di Minerva e ne riveste Iulio.

Il cielo poi si oscura per la morte del giovane che risorge nelle vesti della Fortuna alla conquista della fama eterna. Solo a questo punto Iulio si sveglia e sente l’ardore di scendere in campo e invoca Amore, Minerva e la Gloria come guida.

Alcuni cronisti dell’epoca descrivono lo stendardo di Giuliano dipinto, sembra, dal Botticelli, con Cupido, Minerva e la Gloria sotto forma di sole, Cupido ha le mani legate e le saette spezzate. Secondo altri, la stessa Simonetta Cattaneo è la modella della Primavera di Botticelli.                                                                                                                                                                 

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La lezione di Cosimo

                   




Cosimo Piovasco di Rondò è il protagonista del romanzo “Il barone rampante” di Italo Calvino. La storia, narrata da Biagio, fratello del protagonista, è ambientata nel settecento. Inizia con Cosimo che si rifiuta di mangiare un piatto di lumache e il padre lo caccia via dalla tavola. Il ragazzo si avvia in giardino e sale su un albero da cui non vuole saperne più di scendere.

Il romanzo nasce da una disobbedienza che diventa poi una presa di posizione morale. Cosimo si assume la responsabilità del gesto e fa della disobbedienza un suo stile di vita, imparando attraverso l’osservare e l’agire dalla sua postazione sull’albero. Il mondo dall’alto gli fa scoprire una visione diversa da quella a terra. Impara le arti della sopravvivenza e sperimenta idee tutte sue. Difficile voler ascrivere il testo a un genere in modo univoco, potrebbe essere un romanzo di formazione, o pedagogico o di avventura.  Forse Calvino coniuga il razionale e l’irrazionale insieme, in un’allegoria del poeta.

Ebbene, tra le tante affermazioni che Cosimo fa dal suo albero, c’è quella del consorzio degli uomini, dando la definizione di associazione: Le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono in risalto le doti migliori delle singole persone, e danno la gioia che raramente s’ha restando per proprio conto, di vedere quanta gente c’è onesta e brava e capace e per cui vale la pena di volere cose buone (mentre vivendo per proprio conto capita più spesso il contrario, di vedere l’altra faccia della gente, quella per cui bisogna tenere  sempre la mano alla guardia della spada).  Aggiunge, però, che quando non c’è un problema comune che unisce, l’associazione non è più buona come prima.

Insegnare a stare uniti e vicini è un aspetto importante e necessario alla società. Poche righe sotto, Cosimo definisce il concetto di comandare: “So che quando ho più idee degli altri, do agli altri queste idee, se le accettano; questo è comandare”. La parola “comando”, dal latino “imperium”, indica la facoltà di esercitare il potere. Coniugando il significato latino e quello di Cosimo si capisce che per comandare ci vogliono delle capacità e rappresenta un modo di mettersi al servizio degli altri. Ora se mettiamo insieme le due cose, l’associazione degli uomini e il significato di comandare abbiamo la regola della convivenza civile: dare le nostre idee agli altri se le accettano e unirsi per essere più forti.

Molto spesso questi concetti fanno paura per includere l’altro: integrarlo e richiedere anche il suo aiuto.  L’altro è percepito come un ignoto.

Il premio Nobel per la letteratura Elias Canetti, nel suo libro “Massa e potere” spiega il timore di essere toccati dagli altri. Immaginate di scontrarvi con una persona per strada, in treno, in un luogo, subito vi scusate, anche in modo eccessivo. Abbiamo bisogno di delimitare il nostro io, il nostro mondo e per fare questo a volte evitiamo gli altri. Eppure, se ci incontriamo a un concerto e siamo assiepati e stipati in uno stadio, il fatto di stare così attaccati, l’uno all’altro, non ci arreca disturbo. In quel caso ci identifichiamo con la massa, siamo un blocco unico, dove non esiste il singolo.

Dovremmo conoscere il valore di noi stessi e unirci agli altri per essere forti. Non si vive per se stessi. Tutto acquista valore con gli altri: chi sono, cosa faccio, cosa penso, hanno valore se condivido e m’identifico con gli altri. All’interno della massa domina l’eguaglianza per questo non ci disturba stare al suo interno, anche se siamo a stretto contatto ai concerti, alle partite, dove come acciughe ci spingiamo, mentre se accade per caso, ne abbiamo paura. E la massa ha bisogno di direzione, allo stesso  tempo è statica e in attesa. E Cosimo dall’alto ha una visione migliore della vita, della gente che passa sotto gli alberi, della stessa famiglia. Guardare dall’alto gli fornisce la visione dell’insieme che gli mancava. Prima esistevano i suoi capricci, la sua disobbedienza al padre e il suo punto di vista. Quando la visione si allarga, capisce anche il punto di vista degli altri. E lo stesso padre, il barone, quando il figlio si allontana da lui, ne apprende il pensiero e il comportamento. La vita ha bisogno di vicinanza e lontananza come le lenti progressive: se non abbiamo guardato vicino e imparato, non possiamo mirare lontano e spingerci verso gli altri. E quando non capiamo le cose, ne abbiamo paura, le evitiamo.


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Ricorrenza o paura?

 



Una festa a ricordare le donne equivale a rilevare la loro inferiorità. Avete mai sentito della festa dell’uomo? Non ne ha bisogno perché “lui è”, la donna sì, ne ha bisogno per ripresentare che non va toccata e trattata alla stessa stregua di un uomo, cioè va rispettata. Dire così può suonare una trasgressione. Molto meglio prendere questo giorno tutto al femminile, nel ricordo di quelle che hanno perso la vita per mano degli uomini, per dare forza a quelle che voce non hanno e dire che ci sono uomini che le rispettano. Tutto questo dovrebbe servire a evitare che si ripetano quelle file interminabili di femminicidi, che durante un anno solare, se non ci fossero altre cattive notizie, basterebbero da sole a riempire i giornali. Da quando se ne parla, sembra un’inarrestabile corsa a fermare quelle mani alzate contro le donne, mani che nel corso della storia si sono talmente allenate a farlo, da acquisire quasi un diritto. E per paradosso i femminicidi sono pure aumentati.

Avete capito quale contenitore è la donna? Nel crearla Dio l’ha fornita della chiave dell’universo, costringendola a essere sempre in pericolo. E’ come un furgone portavalori che deve difendersi dagli assalti. Per qualsiasi motivo. Quello più frequente è legato al suo corpo. L’uomo crede di poterla chiudere in un forziere portando con sé la chiave: all’occorrenza lo apre in base alla necessità. In questo caso è come se fosse una sua estensione. Non conta ciò che prova ma quello che deve fornire. Un corpo che, molto spesso l’uomo dimentica, porta il peso di un figlio e subisce il cambiamento fisico. Un figlio che chiede dedizione, mette a dura prova il sistema nervoso e la pazienza, sfibra, lascia senza forze.  E’ poi una sorta di sensale che deve mediare all’interno della società, nei rapporti familiari e sociali. Mediare per dire: educare, aiutare e favorire gli altri. E non finisce qui. L’uomo vorrebbe gestire con quella chiave anche il suo pensiero. Se troppo brava può entrare in competizione con lei. Non sopporta nemmeno come lei trovi la sua strada, avanzando con sacrificio e tenacia. D’altra parte l’uomo non sperimenta questi sentimenti, poiché non deve industriarsi a conquistarseli. La donna è un concentrato di azioni e sentimenti che la fanno crescere senza sosta fino alla fine. L’uomo, che non ce la fa a starle accanto a queste condizioni, adotta il metodo della soppressione: tutto quello che non posso evitare, lo controllo. Bisognerebbe stipulare un contratto accanto a tutti gli altri della vita, con cui giurare di non ucciderla, una formula preventiva. Può sembrare surreale, proprio come lo sono le morti oggi che, nonostante i dibattiti sull’argomento, non si arrestano. Il pianeta donna è ancora inesplorato, tutti quelli che credono di conoscerlo non fanno altro che strappare parti di lei senza alcun rispetto. Se l’uomo perdesse più tempo a capirla, non gliene resterebbe per ucciderla.

Ci si rivolge agli uomini non solo nel rapporto di coppia, ma anche a quei padri che offendono, ammazzano con le parole, col silenzio, con l’indifferenza, col rifiuto, con le offese; a quei fratelli che pensano di avere lo ius sororis, privandole del respiro; a quei parenti insopportabili che interferiscono nei rapporti altrui come arbitri della serenità parentale. Una donna che respira aria pulita all’interno della propria famiglia sarà una donna serena, accettata, libera, creativa, coraggiosa, attenta. Quella che deve sempre difendersi dalle usurpazioni, aggressioni, verbali e fisiche, coercizioni familiari, divieti e sopraffazioni, passa la vita a lottare per sopravvivere.

E non è giusto che per essere rispettata la donna debba comportarsi da uomo e detenere un potere per far fronte al padrone. L’apporto della donna è nella sua specificità.  Indossare i pantaloni o ricoprire una carica maschile e avere potere non rende intoccabili. Si rispettano le donne quando si accettano le loro idee, la personalità, il modo di vestire, il loro lavoro, le passioni, d’altra parte niente di più di ciò che afferisce a tutto il genere umano. Quando vogliamo il controllo su una cosa, è perché ne abbiamo paura e da qui nascono i conflitti e le azioni più nefaste. E la paura s’innalza davanti a sentimenti quali l’orgoglio, la vergogna, il perdere prestigio, il potere, il possesso, la gelosia, tutte fragilità dalle quali, per sopravvivere, ci si arma di forza.

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Riprendiamo in mano la matematica

 



La matematica non è un’opinione. I calcoli danno risultati inconfutabili, aprendo la strada alle soluzioni.

Purtroppo è considerata una materia non piacevole da insegnare e di conseguenza appresa male. E mentre cerca soluzioni astratte, la vita le vuole concrete con i fatti. La gente quando si tratta di problemi, non ama risolverli, ma procrastinarli, come lunghi strascichi che, alla fine, si staccano da soli. Il problema vuole soluzioni attraverso confutazioni d’ipotesi. Lo detta il metodo scientifico. Nella vita reale alla risoluzione dei problemi opponiamo il piacere di tergiversare. Non che sia da attribuire alla mancanza d’intelligenza, è un atteggiamento tutto italiano quello di chiederci il motivo per cui proprio noi dobbiamo risolvere qualcosa se d’interesse pubblico. Meglio lasciarlo agli altri. E’ come se avessimo l’inibizione di muoverci per primi sapendo che, una volta risolto un problema, se ne presenteranno altri, senza soluzione di continuità. E anche se la matematica insegna l’approccio ai problemi, la releghiamo a un mero esercizio di materia scolastica. Le soluzioni non sono la prima vocazione della politica, eppure dovrebbe essere così. Si opera più per convinzione che per logica. E la convinzione è la ruggine delle nostre menti: se proviamo a staccarla, accade come per il ferro, a quel posto, dove abbiamo scrostato, resterà un buco, e il ferro non è più utilizzabile. Molti procedono senza logica, solo per inerzia, facendo ammuffire il cervello che, senza il supporto dell’abitudine e di ciò che ha acquisito, creduto eterno, non pensa, non si sforza e non risolve. Allora se parli di migranti sei di sinistra, che significa? Volendo ragionare su quest’affermazione non ci trovo alcuna logica. Dovremmo trovare una soluzione al problema in modo oggettivo e non accantonarlo una volta definito. Va da sé che ai migranti si aggiungono altri problemi: prostituzione, lavoro, criminalità, degrado nei posti di accoglienza. E le soluzioni sono come le ciliegie: non bastano mai. Ognuno di questi temi è un nostro problema cui si aggiunge il nuovo, la migrazione. Il discorso comporta aspetti politici, sociali e umani. Gli stessi politici formulano programmi che mentre risolvono, ledono. La politica migliore è stata fatta quando si uscì dalle guerre, c’erano fame e povertà, e le soluzioni si trovavano per necessità. In tempi di benessere, più che maturare soluzioni si adottano strategie per mascherare i problemi. Le situazioni non risolte crescono in maniera esponenziale. E se per tanti anni abbiamo ucciso la matematica eludendola con ragionamenti di convenienza e non scientifici, ora ci troviamo con soluzioni impossibili. Sarebbe il caso di riprenderla in mano come vademecum ai nostri problemi, che non si risolvono con le vecchie logiche politiche che servivano per il tempo in cui sono nate, hanno bisogno di nuove proporzioni, equazioni, ipotesi, e non algoritmi su cui si basa la moderna vita social. Il verbo “risolvere” dovrebbe acquisire una nuova veste e usato più spesso con i fatti. I migranti sono una realtà molto vicina a noi. E poi tutti i discorsi sul razzismo. In un mondo che tocca gli otto miliardi di persone, c’è posto per il razzismo? Vi sembra prioritario il razzismo o come sfamare la gente? Se gli anticrittogamici servano o no a mantenere sano il frutto, mi sembra un problema marginale a fronte di terre incolte e desertiche che, se coltivate, potrebbero sfamare tutti. Per mantenere i privilegi che l’umanità ha conquistato, occorre mettere in sicurezza tutto ciò che abbiamo evitato di risolvere. Ed è proprio per questo motivo che alla moltiplicazione dei problemi nel tempo, dovremmo sostituire la soluzione di quelli principali. E’ come voler insegnare il teorema di Pitagora non avendo studiato prima i triangoli e i quadrangoli, o i cateti e l’ipotenusa. Il vero problema dei problemi è che sui fatti ci si specula per cui la risoluzione, se fosse tempestiva, non permetterebbe tutti i panegirici che si fanno intorno alle situazioni per trarne delle opportunità.

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Tutti ne parlano, pochi li leggono

 



Ci sono libri che ci ostiniamo a non leggere o perché tutti ne parlano e allora sembra di averli letti, o per la mancata curiosità necessaria per cominciare. Letteratura è cultura, e per cultura s’intende coltivare il nostro spazio interiore e arricchirlo. Dostoevskij è l’autore giusto per arricchirci. Quando s’inizia la lettura di un suo testo, è come impegnarsi in un’impresa, non per la qualità della sua scrittura, ma per le cose che ti butta in faccia. Non è uno che te le manda a dire e nel bel mezzo della pagina e di tutte le pagine, ti assale con una parola, un’azione inaspettata, un pensiero ardito, un capovolgere la situazione. Capitare nei suoi libri è una bella fatica. Vi rivolterà dentro e fuori. E solo da una vita intensa e ricca di esperienze nasce una buona scrittura. 
Scrivere non è solo dare una bella forma alla pagina, ma trasmettere esperienze, emozioni, riflessioni. Tra le frasi famose di Dostoevskij, ricordiamo quella del protagonista del suo romanzo L’idiota, Myskin, nobile decaduto, che a causa della sua ingenuità è definito idiota, ma riesce a pronunciare una frase di tale profondità: “La bellezza salverà il mondo”. La frase acquista un tale significato da diventare un manifesto di vita. Ciò che di buono partorisce la nostra mente, cui diamo una veste artistica, costituisce il cuore della vita e implica il concetto di bellezza. Ciò di noi che non tramonta, di più intenso che riusciamo a tirare fuori attraverso le emozioni e l’intelligenza. 
 Dostoevskij basterebbe da solo a riempire le nostre giornate di “bellezza”, ma non è l’unico autore che dovremmo leggere. Tra gli altri, che asseriamo di aver letto ma che di solito si lascia dopo poco averlo iniziato è Alla ricerca del tempo perduto di Proust. Andrebbe letto a piccole dosi quotidianamente. Dopo aver scorso circa duemila pagine, si ricomincia di nuovo, rileggendolo attraverso le nostre impressioni nelle parti sottolineate, quelle che hanno colpito, quelle degne di note a margine. Si rilegge anche per rivedere intere frasi che forse ci dicono cose diverse da quando lo abbiamo letto la prima volta. D’altra parte è un testo di lunga gestazione, quindici anni, e leggendolo è riscoprire una vita da tutti i punti di vista. 
  Altra epoca, altro autore, altro libro: Guerra e pace di Tolstoj, quasi millecinquecento pagine, dove puoi studiare, oltre alla trama del romanzo, la storia di due famiglie, i Bolkonskij e i Rostov, anche quella della campagna napoleonica in Russia nel 1812. Un affresco di storia per mezzo di altre. Così I promessi sposi, o La Bibbia, l’Odissea. Leggerli è un conto, sentirne parlare un altro. Le loro parole ti cambiano, ti fanno scoprire altro di te, è come se il libro leggesse te, e ti vedi spiegato tra le pagine. Tutti hanno sentito parlare de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni e sembra quasi di conoscerli bene. Quante volte abbiamo sentito parlare di Don Abbondio, Perpetua, Lucia, Agnese. Più difficile, se non è stato letto, conoscere il personaggio del Conte zio, di Donna Prassede, di Tonio, di Ferrer, dell’Innominato. E cosa si sa della rivolta del pane, della dominazione spagnola in Italia, della peste, padre Cristoforo che diventa frate in seguito a un omicidio, Bettina, del rapimento della sposa, della scommessa di Don Rodrigo. 
Solo leggendolo, inoltrandosi tra le pagine, come un incamminarsi nei vicoli di una città e non solo nelle strade principali, si può avere il profondo valore di un romanzo storico. Certe frasi restano, certe parole non vanno più via, certi incipit diventano famosi per il gran numero di lettori avuti e sappiamo anche di certe frasi o modi di dire di determinati autori. 
Chi ha letto Il giovane Holden saprà che l’autore ha fatto incetta di “Ad ogni modo” e “compagnia bella” per ricalcare il linguaggio dei giovani come il protagonista, Caulfield Holden. I classici sono quei testi, come diceva Italo Calvino, che non finiscono mai di insegnare. E la lista potrebbe continuare. Il bello dei libri è che allungano la nostra vita, dandogliene altre, moltiplicano dentro di noi infinite possibilità. E molti credono che la vita non riesca a contenere tutti i libri che si vorrebbero leggere. Quello che non si sa è che i libri scelgono noi e, quando arrivano, ogni spazio e tempo sono giusti.

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Il mio luogo speciale

 


Ognuno ha un cantuccio del suo paese o della sua città che preferisce più di ogni altro luogo. Ci ricorda qualcosa, o lì abbiamo vissuto un’esperienza importante, ci ha ispirati, ci ha fornito dei piacevoli stati d’animo o semplicemente è in sintonia col nostro spirito.  Una panchina su cui abbiamo riparato per molto tempo, un percorso che abbiamo scelto per la sua bellezza, una vista irresistibile cui non potevamo rinunciare o un semplice sentiero su cui abbiamo sparso i nostri pensieri nel tempo. Li chiamano i luoghi dell’anima e sono loro a sceglierci, non li abbiamo cercati.  Rappresentano la nostra casa.

Anch’io ne ho uno e non ho bisogno di andarci per sentirlo mio, mi basta tirarlo fuori dai ricordi. Se poi lo attraverso, le emozioni amplificano fino a esplodere. La vita che quel posto ci ha regalato, o meglio quella che abbiamo conosciuto attraversandolo, vivendolo, ci appartiene. Per tanti anni non riusciamo a staccarcene, si resta appiccicato e anche quando ce ne allontaniamo, è non essersene mai andati. Resta intatto in noi, dove ritorniamo quando ne sentiamo il bisogno.

Se invece siamo fortunati e quel posto continuiamo a frequentarlo da non subirne mai la mancanza, l’abitudine lo renderà una nostra estensione e con noi crescerà. Forse migliora, diventa un luogo diverso e riusciamo a sovrapporre le sue immagini nel tempo con gradualità, accettandolo nelle sue continue versioni. E’ lo stesso tra madre e figlio, crescendo l’uno e invecchiando l’altra il rapporto non cambia, restano sempre madre e figlio, anche con le rughe l’una e la barba l’altro. Saranno sempre il bambino da cullare e la mamma che accudisce. Così i luoghi per noi.

Resteremo a vita incantati dai posti che racchiudono le nostre esperienze di vita e fatto conoscere noi stessi.  

Il mio è un luogo speciale, ricco di storia. Mi ha visto crescere, ha ascoltato i miei discorsi lungo il suo percorso, mi ha dato sensazioni di benessere, di contrarietà, di avversione. Ha condiviso momenti importanti, ha maturato sentimenti, mi ha dato per anni degli scenari stupendi in ogni stagione, mi ha fatto riconoscere i miei stati d’animo. Significa che ad ogni passo su quel sentiero, cresceva o moriva qualcosa in me. Che cosa mi ha lasciato? Il chiacchiericcio degli alberi al passaggio del vento, l’ ascolto dei miei pensieri su quei fruscii, i profumi di siepi e fiori, di frutti, di odori che ancora oggi mi riportano sugli stessi passi, la fatica di quando lo percorrevo velocemente in inverno per il freddo,

e lentamente in estate per il caldo, di agitazione per una notizia, di corsa per una paura, di apprensione per qualcosa. E’ stata la mia casa in cui ho abitato per un lungo periodo di vita, assistendo quotidianamente alla mia crescita. Saprebbe, ora, ridarmi le mie giornate di allora, i miei bronci, i miei sorrisi, ricordarsi dei miei abiti, le scarpe, come mi muovevo, che cosa guardavo e sono quasi gelosa di avermi avuta quando piccola. Da qualche parte custodisce ancora i miei discorsi ad alta voce quando percorrevo il tratto, giocando sotto la pioggia con i piedi nelle pozzanghere, lasciando che l’acqua mi scrosciasse addosso, o quando il vento mi sferzava sotto il cappotto e il berretto sollevandomi e facendomi avanzare o retrocedere con forza. Sono cresciuta lì, su quel passaggio, una soglia su cui mi affacciavo ogni giorno, è lì che m’intrappolavano le mie domande più difficili e le mie risposte più contraddittorie. Ora quel luogo rappresenta un cantuccio del mio animo ricco di ogni cosa. I nostri luoghi sono porti che ci accolgono sempre e la forza che ne traiamo, forgia il nostro modo di ragionare, sentire, immaginare. Mi riporta la mia storia, chi sono, da dove vengo, cosa ho vissuto, cosa sarei senza il suo conforto. I luoghi elettivi non lo diventano per la bellezza fisica, ma per quello che ci hanno trasmesso. E la bellezza di un luogo è fatta anche di quello che ne fa di noi.


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