Violenza contro le donne

 



Nell’ultimo bollettino di guerra del femminicidio l’Italia con 106 omicidi dall’inizio dell’anno si colloca in una posizione di poco migliore rispetto agli altri paesi europei. Se contiamo gli omicidi negli ultimi quattro anni, 600 circa, la media è un femminicidio ogni due giorni. E per paradosso si muore di più nei cosiddetti paesi ad alto indice di felicità e vita comoda.   Una classifica che fa rabbrividire, una guerra silenziosa, ma continua. In Inghilterra, dopo l’uccisione di Sarah Everard, il 3 marzo del 2021, in un parco a sud di Londra, per mano di un poliziotto fuori servizio, che alle 21.00 preleva la vittima e la porta in un bosco fuori città, dove la violenta e poi la uccide, c’è un punto di non ritorno. L’opinione pubblica inglese è rimasta scossa. Nel mondo la situazione non è migliore. In Giappone e Oceania abbiamo parametri che si possono sovrapporre a quelli europei, ma per tutta l’Asia, la Cina, gli omicidi sono all’ordine del giorno. Così anche in Africa, America latina col Brasile e in quella del nord col Messico.

La violenza domestica è aumentata durante la pandemia, mentre una donna su tre subiva violenze prima della pandemia, dopo i casi sono aumentati del 20% durante il primo lockdown.

Per femminicidio s’intende, secondo il vocabolario: Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura  di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne  l'identità attraverso  l'assoggettamento fisico e psicologico, fino alla schiavitù o alla morte".

In una buona parte dei casi tra autore e vittima esiste una relazione sentimentale. Le donne muoiono nell’ambito familiare, proprio in quell’ambiente che dovrebbe proteggerle di più. L’arma prevalentemente utilizzata è un’arma da fuoco e subito dopo un’arma da taglio. Ciò che colpisce è l’accanimento dell’uomo sul corpo della vittima esanime, continuando a ferirla soprattutto al cranio, quando non decide di darla alle fiamme o sfregiarla ulteriormente. In quasi la metà dei casi presi in esame, è lo stesso autore del femminicidio a dare l’allarme. Le cause scatenanti sono: il basso livello d’istruzione, l’aver subito violenza da bambino, aver assistito a scene di violenza familiare, abuso di alcool, accettare la violenza come fatto culturale. La gelosia tra i motivi scatenanti.

L’autore del femminicidio teme di perdere la propria autorità e il proprio dominio e pertanto esige il controllo sugli altri. C’è poi chi è incapace di concepire l’autonomia altrui, vista come una minaccia di abbandono e per questa ragione si trova in uno stato di dipendenza. Chi necessita un continuo rinforzo di autostima dall’esterno e si abbandona a reazioni d’ira in caso di critica.  

Il femminicidio è punito, come l’assassinio di un uomo, ai sensi dell’art. 575 del Codice Penale, con una pena non inferiore a ventuno anni di reclusione. A questi possono aggiungersi le aggravanti.

Con l’adozione del Codice rosso sono state apportate delle modifiche: il provvedimento di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Si punisce l’induzione a contrarre matrimonio con violenza e la diffusione illecita d’ immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate, con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000. La pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa. È inoltre aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione d’inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza. È punito poi chiunque cagiona ad alcuno lesione personale dalla quale derivano la deformazione o lo sfregio permanente del viso con la reclusione da otto a quattordici anni. L’uomo, più frequentemente della donna, non riesce a rassegnarsi alla perdita dell’oggetto d’amore, lo vive come la perdita di una proprietà e non di un affetto. Si pretende un dominio totale sull’oggetto d’amore. C’è poi chi avanza l’ipotesi che dietro gli incidenti domestici si nascondano veri e propri femminicidi, fatti passare per incidenti mortali domestici, rendendo ulteriormente invisibile il problema della violenza contro le donne.

Nonostante i notevoli passi avanti, da quel lontano anno 1960/61, quando vigeva l’articolo 587 del Codice penale, dell’omicidio e lesione personale a causa d’onore”, soppiantato dalla sua abrogazione nel 1981 così anche il matrimonio riparatore, la donna muore oggi più di ieri, non solo in Italia, ma in tutto il mondo.

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Ieri come oggi

 




Il film C’è ancora domani di Paola Cortellesi, ambientato nel dopoguerra, non aggiunge niente di più allo stato attuale delle cose per quanto riguarda la condizione delle donne nella società.

La protagonista, Delia, è una donna moderna, che manda avanti la famiglia, la casa, i figli, lavorando più del marito, senza mai perdere la speranza che qualcosa cambi. E la speranza la intravede proprio in quel 2 giugno 1946 quando le donne, per la prima volta nella storia, ebbero la possibilità di esprimersi con il voto. Alla situazione descritta nel film, si aggiunge oggi l’ipocrisia. Ci sono uomini, apparentemente gentili, (ma non onesti) nei confronti delle donne, che nascondono gli artigli della manipolazione, da ricondurre a un mondo che li vede protagonisti. Ci sono ancora consuetudini che riportano al medioevo come quando una donna si sente dire: “Ma lei è la moglie di… la sorella di… la figlia di…” Per dire che da sola non vali niente e hai bisogno di un supporto, di un nome, di una famiglia, senza la quale non conti.  L’emancipazione non è solo quando la donna fuma o guadagna, ma se può esprimere ciò che pensa liberamente, quando è ascoltata, capita, non giudicata, quando un suo errore è visto con umanità e non una violenza fatta al mondo intero. Nella maggior parte dei casi l’uomo è il direttore d’orchestra silenzioso che la costringe, con coercizione, a fare ciò che vuole. Delia, sopporta una serie di soprusi da cui ogni giorno deve difendersi. La figlia le chiede il motivo per cui non si ribella a quella vita e lei risponde: “E dove vado?” che non è la paura di non avere un luogo dove andare o come mantenersi economicamente, ma quella di lasciare una vita costruita insieme a un’altra persona, perdere la propria casa, ruolo, affetti, quel mondo che le gira intorno, all’interno di una famiglia per la quale ha speso tutte le sue forze, rinunciando a tante altre cose.

Pur subendo violenza, in lei c’è una forza rigeneratrice, materna, fatta di generosità e speranza. Delia è la donna di ieri e di oggi. E’ cambiato poco rispetto al passato e il periodo storico è solo un pretesto, all’interno del film, per ancorare il discorso da qualche parte, facendo emergere che se quella era la condizione della donna prima del voto, oggi non è cambiata nonostante il diritto  al voto. Una sottigliezza che ci dice che i diritti acquisiti non ci difendono dalla violenza o a dall’usurpazione, dalla sopraffazione, dalla prevaricazione, dalla prepotenza, dall’indifferenza dell’uomo. Concetti astratti fatti di sfumature che facilmente si possono eludere in sede legale, quando i paroloni poc’anzi menzionati, possono assumere tutt’altra considerazione, se non l’opposto di quello che significano.  Delia vive col suocero in casa che le dice di avere la lingua troppo lunga, con un marito che non conosce altro che la violenza e legge la realtà come qualcosa da domare e non da comprendere. Oggi c’è ancora l’uomo che crede che la donna abbia un’intelligenza minore, fatta per essere solo bella e servizievole, senza sogni, interessi, passioni, con l’unica vocazione di arruolarsi in casa dietro ai fornelli, in giro a ordinare e preparare nell’attesa dei pranzi e cene, con potere decisionale minimo, inceppata nella risoluzione di un problema.

Delia è una mamma attenta, una donna che sopporta tutto pur di andare avanti e guardare al futuro. A volte c’è bisogno di un atto rivoluzionario per cambiare le cose e lei s’inventa un modo per dare alla figlia l’opportunità di scegliere il suo domani ed evitargli un marito come il suo. Storicamente parlando tutte le donne hanno vissuto quello che Delia mostra nel film, ciascuna si è vista in quelle azioni, anche quelle mancate, in quelle situazioni, umiliazioni, circostanze. Delia è la condizione della donna nonostante l’emancipazione, i diritti, la cultura, il potere, il denaro. Si vive meglio con poco ma riconosciuto che con troppo e che toglie il dovuto. Delia ogni giorno prende la sua dose di mazzate dal marito, per futili motivi, come bruciare le patate, inciampare e rompere il piatto con i dolci o fare tardi per il pranzo. Qualcuno dice che oggi l’uomo non picchia più. Ne siamo sicuri? L’uomo non picchia la donna quotidianamente ma la uccide in modo continuato, non solo ammazzandola ma ferendola costantemente, ed è questa la differenza.

Nel tempo la donna è cresciuta, dimostrando di saper fare sempre di più. E proprio questa sua espansione propositiva e resilienza spaventano l’uomo, rimasto a guardare, tutt’al più suo ammiratore, che davanti ai suoi successi si sente sopraffatto e fragile, fino ad avversarla.

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Al largo di Santa Cruz presentato a Piano di Sorrento




 Ieri sera, nella Sala Consiliare Comunale di Piano di Sorrento, è partita la rassegna letteraria "I venerdì...in Comune". Un programma di appuntamenti che si terranno tra novembre 2023 e febbraio 2024. Ad aprire la rassegna il mio romanzo "Al largo di Santa Cruz", Hanta Edizioni, una storia di mare in un luogo di grande tradizione marinara. A presiedere l'incontro il Vicesindaco  e Assessore alla Cultura Giovanni Iaccarino. Relatrice della serata la scrittrice Annamaria Farricelli, mentre i brani scelti sono stati letti dall'attore Gigi Ferraris, con intermezzi musicali della ballerina Erika Aiello.
La relatrice si è inoltrata nei meandri della storia presentando i protagonisti, le tematiche e i fatti rilevanti. Gli approfondimenti sono stati fatti in relazione ai brani letti. Tra i discorsi affrontati quelli della vita di un uomo di mare lontano da casa, le sue assenze, i ritorni, i mutamenti che il tempo porta quando, al ritorno trova realtà diverse da quelle lasciate. Molto si è detto anche delle donne di queste famiglie,  a cui gli uomini lasciano la gestione della famiglia. Esse mostrano una forza d'animo nel governare la casa e allevare i figli da sole, rivelandosi instancabili. Nel complesso la gente di mare è portata ad abbracciare la via del mare per lavoro e passione mista a tradizione, attirata da quell'orizzonte su cui poggiano i sogni e da quella profondità di acqua che assomiglia tanto alla complessità dell'animo umano.
In sala presenti alcuni naviganti, qualcuno si è avvicinato chiedendomi come si possa scrivere un testo sul mare se non lo si attraversa. Alla base forse il pregiudizio che una donna non possa affrontare argomenti da uomini ma attenersi solo al sentimentalismo, per quanto un uomo, invece, possa scrivere di ogni tipo di realtà.
Li ho rassicurati con la letteratura che fornisce mezzi molto potenti con libri di autori quali Joseph Conrad, Herman Melville, Ernest Hemingway, Robert Louis Stevenson, Patrick O'Brien, veri maestri di mare, capaci di alimentare conoscenza e passione. Un argomento lo si apprende anche in altri modi: con i racconti e le confidenze di persone del mestiere, con storie ascoltate o lette di vita vera, con la realtà che abbiamo sotto gli occhi e analizziamo. E ci si dimentica della principale capacità di chi scrive: l'empatia, che significa comprendere o  sentire ciò che un'altra persona sta vivendo, cioè la capacità di mettersi nei panni di un altro. Ai discorsi si sono alternati i balletti di Erika Aiello, giovane insegnante di danza che ha incantato il pubblico. 

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A Piano di Sorrento con "Al largo di Santa Cruz"



Domani, venerdì 3 novembre 2023, alle ore 17.00, sarò a Piano di Sorrento, nella Sala Consiliare del Comune, per presentare il mio ultimo romanzo" Al largo di Santa Cruz".

Con me ci saranno Annamaria Farricelli, Gigi Ferraris, Erika Aiello




I colori e le storie del Senegal di Umberto Astarita

 




Fresco di stampa I colori e le storie del Senegal, opera prima di Umberto Astarita per Hanta Edizioni.

E’ un prezioso testo in cui si coniugano immagini e scrittura per raccontare le esperienze dei viaggi che l’autore ha compiuto in Senegal, in diversi anni, per l’Associazione “Energia per i Diritti Umani”.

Un’indagine introspettiva attraverso l’obiettivo dove i protagonisti sono i bambini, le donne, gli animali, i luoghi, i bisogni, i giochi, in una giostra di colori, sorrisi, sguardi, orizzonti, vita in riva al mare. E le immagini non bastano, l’autore ha necessità di raccontare cosa si cela dietro ad ogni foto. Si percepisce il tempo che precede lo scatto, gli accadimenti prima dell’immagine, la realtà nascosta dietro ai fatti. Dalla foto al racconto tutto diventa più chiaro. Emerge la bellezza dei bambini col loro sorriso, cui basta poco per dare forma ai giochi, la semplicità della loro vita, la lentezza dello scorrere del tempo, il mare col suo orizzonte, richiamo continuo verso luoghi lontani. Si raccontano storie di uomini e donne, di speranze e di amicizia, di solidarietà e condivisione. Le immagini sono solo una prima lettura che cattura l’occhio, la seconda avviene entrando nelle storie, in un contatto diretto con la vita del paese. Il Senegal, sulla costa occidentale dell’Africa, diventa il protagonista del libro mostrandosi nella sua viva espressione con le descrizioni di mare, luoghi, abitudini, usi e costumi, e le difficoltà che si vivono quotidianamente anche per le azioni più semplici. E’ inevitabile il confronto con i paesi più ricchi, con le nostre vite, con le nostre convinzioni. Un’esplorazione geografica e umana, dove s’incontrano personaggi raccontati con brio, ogni immagine, un fatto accaduto, in cui il lettore entra in un percorso a volte umoristico, altre malinconico, e poi allegro o anche triste. I bambini e le donne hanno un posto di rilievo all’interno del libro, con le loro storie che coinvolgono lo stesso autore. Si racconta soprattutto di fatti per portare a compimento le iniziative per migliorare le condizioni del paese.

Un testo piacevole senza età, dove ogni immagine pone il lettore davanti alle domande della vita.

Umberto Astarita nasce a Sorrento e sin da giovanissimo manifesta interesse per le materie artistiche. La fotografia è la sua vera passione unita alla pittura, arti respirate già all’interno della sua famiglia. La sua attività di fotografo, nasce in seguito al dono di una macchina fotografica che lo porta a intraprendere, in seguito, la professione di fotografo dopo gli studi. Ha esposto i suoi scatti in importanti mostre a cominciare dal 2012 a Sorrento dal titolo “Portami in Africa”; nel 2014 a Castel dell’Ovo a Napoli, dal titolo “Sensi e azioni”; nel 2015 al Museo Pan di Napoli dal titolo “Sorsi di vita” e nel 2019 a Piano di Sorrento “Luci e colori dall’America latina”.

 

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Giancarlo Siani e la deontologia della professione

 


Venerdì scorso, al Liceo Pitagora-Croce di Torre Annunziata, si è tenuto il corso di formazione giornalisti dal titolo “Giancarlo Siani e la deontologia della professione” con la presenza della Commissione Legalità dell’Ordine. La deontologia è l’insieme delle regole morali che disciplinano l’esercizio di una determinata professione, e Giancarlo ha assolto pienamente il suo dovere con la ricerca della verità.

Quel 23 settembre del 1985 è diventato un simbolo per la professione giornalista e la sua definizione. Di Siani, se ne parla sempre in modo doloroso, non si accetta la sua morte sul campo, da professionista onesto, alla ricerca della verità. Sarà stato tutelato, sarà stato ingenuo, avrà capito di trovarsi in un vicolo cieco? Era solo con tutto il suo fervore giovanile e la sua ingenuità. Nessuno che l’abbia messo in guardia sui pericoli a scrivere di certe realtà. Un giovane alle prime armi con la voglia di approfondire quello che di solito è eluso. Altro dubbio che qualcuno abbia speculato su di lui, magari lasciandolo fare come un trapezista senza rete. Elucubrazioni ormai senza valore. La sua morte dovrebbe servire a non ripetere certi errori, ma dopo trentotto anni per un giornalista non è cambiato nulla, può trovarsi ancora nella stessa situazione di Giancarlo. Scrivere la verità dei fatti è complicato e anche oggi si resta soli. Si può asserire la verità su argomenti che non ledono interessi o menzionare persone che non possano querelarti. Che cos’è la querela d’altronde? L’intimazione a non proseguire su quello cui indaghi, a dirti che ciò che hai scritto è troppo, e devi fermarti. La verità ha una sua profondità: puoi attenerti solo alla sommità, affondare al suo centro o andare anche oltre il fondo. La maggior parte si attiene alla superficie. Se affondi nella notizia, cominciano a prenderti di mira, se vai oltre, affondano te. Un giornalista è veramente libero di scrivere? Se metti mano in alcuni meandri della politica, edilizia, sanità, per esempio, sembra si vada a profanare dei templi, si può facilmente cadere in un abuso, per una parola, una sentenza, un’insinuazione, un travisamento. I criteri da rispettare sono: la verità, l’austerità e l’interesse pubblico e mantenere separati i fatti dalle opinioni. L’informazione deve anche rispondere alle domande del lettore. Oggi il giornalista ha mezzi che Giancarlo non aveva. Con lo smartphone può scrivere, correggere, costruire un articolo e pubblicarlo. Il successo della notizia la decreta il lettore, dal fatto di non ledere i diritti di nessuno, conforme a quanto si dice in giro. Se aggiungi qualcosa a quello che dicono tutti, sarà pure verità, ma come voce unica non conta, poiché può essere presa per opinione del cronista. E l’esclusività della notizia dà la certezza di avere maggiori lettori. La legge del web è spietata, ma anche quella della carta stampata. Il giornalista è una talpa: gira, controlla, verifica, scarta, appura, annusa e solo dopo un controllo capillare di quello che va scrivendo, pubblica. Una volta non c’era la possibilità di confrontarsi con tutte le altre notizie simili, poiché uscivano in contemporanea. Oggi la stessa notizia si trova in versione breve, lunga, graziosa, cioè ce n’è per tutti i gusti. Dimmi quanto tempo hai e ti darò la tua rassegna stampa, sembra un motto ma è così. La più affidabile è quella breve, sicuro non dice sciocchezze, la meno quella romanzata, cioè trovi delle aggiunte che non dicono nulla. Da qui alla fake il passo è breve. E proliferano non solo per incanalare il lettore a ciò che si vuol far credere ma anche per specularci. L’attività di giornalista prevede non la manipolazione del fatto ma la confutazione della verità, del fatto oggettivo senza declinarlo in base alle prospettive personali. La verità costa, il cronista, per spostarsi, deve gestirsi con mezzi propri, per fornirsi di una notizia tempestiva, esclusiva e vera. Quella stessa notizia dovrà vedersela con tutte le altre che fioccano in rete, pertanto sarà utilizzata alla stessa stregua di quella nata in web. E poiché dopo due ore è già vecchia, il giornalista non vede il motivo di spostarsi sul posto, metter mano alla tasca, se con buoni mezzi, ragionamenti e fiuto raggiunge la stesso obiettivo. Le fake news sono il paradosso di oggi: più che approfondire,  manipolano la notizia. E con le tante verità su cui indagare, si perde il tempo con le notizie scialbe che non servono a nessuno. L’intrattenimento migliore è dato dall’oroscopo, il tempo, i fornelli, la moda, il pettegolezzo. E’ diventato un impiegato bruciando le sue capacità, idee, intuito, bravura, gavetta, voglia di fare.  La linea editoriale non è altro che un attenersi a determinati parametri, un modo per avere un percorso univoco e far fede a dei principi. Va da sé che la notizia diventa sempre più stupida e sensazionale a scapito di quella necessaria e utile. Un buon cronista è chi affronta novità, capacità di scrivere con la propria sensibilità. Ma c’è anche il cattivo giornalista, che per il direttore Joseph Lelyveld del New York Times “è privo di umiltà, si distingue per l’egocentrismo, la superficialità, l’eccessiva partecipazione nella propria prosa, la mancanza di rispetto nei confronti di cui scrive. I veri grandi giornalisti si vergognano dell’arroganza”.

E ancora quando l’obiettività non è possibile che almeno resti l’onestà nel verificare, controllare oltre a essere preciso. Tra i ragazzi presenti al corso con i giornalisti, nessuno era propenso a svolgere l’attività. Per fare il giornalista ci vuole coraggio e deontologia, una deontologia che rispetti lo stesso professionista, preoccupato solo di rendere un servizio alla collettività, evitando che il suo non diventi un mero esercizio di scrittura.


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Un'affacciata al balcone

 



Da ragazza ritenevo che affacciarsi al balcone fosse una perdita di tempo. Tutti, nel palazzo in cui abitavo, avevano però quest’abitudine. Dalla strada, a vederli, sembravano tanti monoliti al centro del terrazzo, con la testa mobile, simili a quelle lucertole che girano il capo a scatto appena avvistano la preda. Quelli che avevano l’abitudine a orari fissi, erano le vedette, che non si perdevano niente di quel lato di casa: dal passaggio delle auto ai pedoni, tenevano d’occhio chi attraversava la strada, chi arrivava nella traversa a parcheggiare, chi bussava al citofono, ma soprattutto chi entrava e usciva dal portone d’ingresso. Non perdevano di vista nemmeno chi andava a far la spesa. La vedetta attendeva con pazienza l’uscita della persona dal negozio, con gli occhi controllava le buste della spesa fino all’ingresso del palazzo. Sapeva tutto di quelle buste. E non solo, anche di tutti quelli che entravano e uscivano a tutte le ore. La vedetta si adagiava mollemente sul parapetto di cemento rifinito con base di travertino, sostenendo il peso del corpo sui due gomiti e quando non reggeva più, un braccio passava a mantenere la testa. Non solo il capo girava continuamente da una parte all’altra, ma anche gli occhi facevano uno sforzo immane, finendo arrossati alla fine della giornata. Aveva giusto il tempo di un caffè, una telefonata, controllare le pentole sui fornelli, ma poi subito usciva per non perdersi i rientri. Spesso l’attenzione maggiore era per gli estranei che arrivavano nel palazzo. Ne scrutava l’auto, la direzione da cui provenivano, il condomino presso il quale andavano, il tempo della visita. Se in quel momento si capitava a casa della vedetta, questi, del nuovo arrivato, raccontava una storia minuziosa e precisa.

Allora odiavo affacciarmi al balcone come quelli che passavano il tempo a indagare la vita degli altri. 

Quando uscivo sul mio terrazzo, era per guardarmi intorno. La mia attenzione andava all’edificio scolastico. Aveva grandi finestre gialle, un’enorme scala centrale e un cancello esterno. A quell’ora di pomeriggio era chiusa, le aiuole piene d’erba, gli alberi nel cortile scandivano le stagioni, l’orto del custode ben curato. Osservando, immaginavo quando di mattina eravamo lì. Vedevo l’auto della mia insegnante Adriana sempre puntuale, una Fiat 128 bianca, parcheggiata accanto al cancello d’ingresso, mentre avanzava come una soldata, con le sue scarpe basse, la postura dritta come se fosse appesa a un quadro svedese. Con lei, le colleghe, la maestra Teresa, la maestra soprannominata: la bambolina, gli scolari in ordine già in posizione di muoversi. Arrivavano sul terrazzo le voci dei bambini e a volte il profumo di pasta al sugo della mensa. Guardavo dall’alto il cortile giù al palazzo, dove giocavamo, con due alberi di agrumi piccoli, che subivano i colpi di pallone durante il pomeriggio, quando tutta la gioventù del palazzo si riversava lì.  E ancora mi piacevano i giochi di luce del sole sulle case, lo scorrere delle auto sull’autostrada in lontananza. 

La signora che abitava al piano superiore si affacciava per chiamare i suoi ragazzi e spesso scambiavamo qualche parola. Era una donna educata e dolce. Quando alzavo lo sguardo per parlarle, lei mi raccontava del pranzo, quanto avesse stirato, quello che aveva ancora da fare. Era difficile vederla affacciata, aveva sempre un lavoro da finire. 

Oggi, quando mi trovo a controllare i gerani sulla mia terrazza e vedo gente di passaggio per la strada e le auto scorrermi davanti, ripenso allora. Noto gli alberi di fronte, le persone che scendono sui marciapiedi, chi porta il cane fuori, chi fa jogging, chi corre, chi è affannato nel salire, chi osserva e cammina lentamente. A volte con lo sguardo, mentre l’innaffiatoio versa acqua, va su qualcuno in bicicletta o in moto. Noto i volti, le espressioni, il colorito del viso, le smorfie, e poi l’indifferenza e mi chiedo chissà che prima non ci si riconoscesse meglio di oggi. Abbiamo perso di vista il volto degli altri. A volte vedo qualcuno che dalla strada alza lo sguardo, mentre sto con la testa tra i gerani, e mi sorride, senza motivo e senza conoscermi. Quel sorriso non richiesto è un segno di vedersi, di guardarsi, di sentire che c’è un altro essere e non passa inosservato. Non sempre accade. La massa corre e siamo soli proprio in mezzo alla folla, dove di tanti volti, non ne vediamo nessuno. E così affacciarsi al balcone, che tanto odiavo da ragazza, per trovarla una perdita di tempo, forse era includere nella propria vita anche gli altri. Tutti nel palazzo conoscevano le date di onomastico e compleanno degli altri, ci si fermava per le scale a parlare, si bussava il vicino per sapere se avesse bisogno di qualcosa, si portava una pietanza ad assaggiare solo per aver sentito il profumo. Era un continuo imparare dagli altri, anche quando ci scappava un litigio, c’era la volontà di rimediare subito.

Interessarsi agli altri, quando non è per pettegolare, ci fa sentire meno soli. L’indifferenza della vita odierna ferisce più dell’invadenza di una volta. Le nostre nonne lo sanno bene quando affermano che la vita non è altro che “un’affacciata al balcone” in questo viaggio insieme, oltre a ricordare che siamo qui per un tempo breve.


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