La perfezione non esiste





La bellezza oggi è un valore fondamentale rispetto ad altri. L’immagine della perfezione del proprio tempio è questione vitale. Il narcisismo imperante ci vuole perfetti e se la natura ha scelto di renderci unici, la chirurgia estetica ci vuole simili. I modelli standard sono quelli con labbra carnose fino all’esasperazione, prodotte da sieri a gettito continuo, con filler per aumentarne i bordi, con iniezioni che gonfiano; seni costruiti come pietre che di quello naturale non hanno proprio niente, di una misura che parte dalla terza per raggiungere anche di più spropositate; di nasi incavati che ostruiscono la respirazione, che finiscono a punta, limando quel gibbo che tanto offendiamo; liposuzioni che aspirano il grasso, limano fianchi, lisciano pieghe, appiattiscono pance…

La bellezza è diventata un’industria, una macchina che aggiusta ciò che è in eccesso o in difetto aspirandoci anche l’anima. Si rischia, con l’esagerazione, di approdare a fisionomie che non ci appartengono e col tempo potrebbero crearci qualche crisi di identità. È come voler trasformare Notre Dame in stile barocco e San Pietro in gotico. Il mondo del cinema ci fornisce modelli in continuo aggiornamento. La chirurgia estetica ha trovato terreno fertile nella fragilità delle persone che cercano nella bellezza la soluzione ai loro problemi. Una ricerca della bellezza senza soluzione di continuità poiché non giunge mai alla fine. E anche dopo aver rifatto il naso, gli zigomi e la bocca, ci sarà sempre un altro ritocco da prendere in considerazione per acquisire una perfezione che non viene mai raggiunta. 

 Ma ahimè, la bellezza non resta fissa, decade di volta in volta e di questo passo i ritocchi diventano necessari per mantenere quello che la stessa chirurgia ha mutato. Come si può vedere non si è mai soddisfatti del proprio corpo poiché siamo insicuri dentro  e non riuscendo a conoscerci a fondo, crediamo che l’immagine sia tutto quanto noi possediamo. 

L’Italia è al quinto posto nel mondo per interventi di chirurgia estetica.

Gli antichi trovavano la bellezza associata ad altre qualità proprio perché non avevano un modello e pertanto essa andava con altri aspetti. Difatti "Chi è bello è caro, chi non è bello non è caro” raccontava Esiodo. La stessa bellezza di Elena di Troia era da rapportarsi ai lutti che aveva causato e non al suo modello di aspetto esteriore. La proporzione quindi è ciò che definisce la bellezza, che non è altro che armonia. Per essa non si intende assenza di contrasti, ma equilibro tra le parti.

 Il tempo passato a trovare difetti da limare, lo togliamo ad altre attività che formano quel corpo. Si passano più ore dai barbieri, parrucchieri, estetiste, centri estetici, chirurghi, cliniche, che nelle biblioteche, nelle librerie, nei luoghi preposti alla cultura. E i ritocchini sono continui, con punturine varie per riempire la pelle che cede, la gota che cade, la ruga che emerge. 

Avete mai provato a evitare lo specchio per una settimana? Si va in paranoia. Abbiamo bisogno di quella faccia dall'altro lato per cercare i punti critici da migliorare. Senza lo specchio non sapremmo dei cedimenti, i particolari della nostra pelle, l'aspetto, la gradevolezza che di noi offriamo agli altri.

Siamo talmente curati che cadiamo nel trash o nel ridicolo.  Ma è quando si apre la bocca che si vede la vera bellezza. Oggi si arriva  a trent'anni col fisico perfetto, ma col tempo una mente poco curata renderà anche il fisico appassito. 

Si cambia non solo fisicamente, anche mentalmente e viene il tempo in cui poco importa del fisico se non si ha la salute. E anche tra le persone avanti con gli anni si pecca di narcisismo, quando rincorrono la giovinezza attraverso la bellezza.

È molto più attraente una mente giovane che un fisico statuario senza cedimenti. La mente giovane è quella che vive i passaggi senza disperarsi ma continuando a godere della vita con passione, col piacere di fare le cose, con l'ironia e col non prendersi troppo sul serio. Bisogna guardarsi anche un po' da lontano, non mollare mai con la curiosità, col sapere, col conoscere nuove cose. La potenza che ti dà il sapere non te la dà la bellezza fissa nel tempo.  

È un piacere ascoltare persone ricche dentro che ti snocciolano la vita, la loro esperienza, i loro consigli senza preoccuparsi del loro nuovo aspetto. Accettarsi è la prima forma di amore verso se stessi e gli altri. Vogliamo bloccare il tempo senza capire che è proprio quel tempo a riempirci. 







 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ieri mattina a mare

 



“Eri stanca, però per andare al mare stai bene” è quello che mi hanno detto i miei in una video chiamata di famiglia, mentre ero in barca con mio padre. Quanto basta per agitarmi e farmi riflettere.

Non sono mai stata un tipo malaticcio e, anche quando sono sofferente, non mi sottraggo ai miei doveri. L'affermazione mi ha colto di sorpresa per essere stata esposta appena siamo apparsi tutti insieme sullo schermo. 

A casa mia siamo tutti adulti e ognuno si gestisce in base ai propri interessi e voglia di fare le cose. A qualcuno non piace il mare, qualche altro ci va quando può, altri soffrono il mal di mare mentre io ho trovato la mia pace con mio padre: insieme ce ne andiamo in barca, però dovrei andarci solo quando mi accordano il permesso e non ci sono impellenze.

 La famiglia dovrebbe accoglierci ma a volte al suo interno si nascondono i nostri detrattori. Di solito temiamo le persone sconosciute e invece quelle accanto ci colpiscono meglio. Mancano di tatto e sensibilità, non riescono a trattenere niente e pensano a voce alta.

Tornando alla frase, il detrattore ha voluto rendere palese il suo pensiero, mettendomi in cattiva luce davanti agli altri. A volte si comportano in questo modo per qualcosa che a loro non torna e devono fartelo pur sapere. Scelgono il modo più plateale, come i bambini, invece di parlarti apertamente di ciò che andrebbe detto ma resta inespresso.

Il fatto è che questa tecnica non funziona: si sposta l'attenzione sull' altro, perdendo di vista il reale motivo dell'offesa. E si finisce in reazioni a catena che tutto diventano tranne la soluzione del problema.

L'offesa più gettonata, in questi casi, è di far leva sul senso di colpa per qualcosa che avresti dovuto adempiere ma non hai fatto. 

La condizione della donna, in verità, non è mai cambiata. Pur parlando di emancipazione, di autonomia, indipendenza, la realtà dice altro. 

I detrattori, all'interno della famiglia, sono veri e propri inquisitori, se si toglie loro un servizio, un privilegio, che tu stessa gli hai concesso, si ribellano. 

Conoscono il tuo animo, le tue reazioni, la tua sensibilità, le ansie e quindi prevengono l'effetto che sortirà. Solo chi ti conosce bene può trattarti male.

La famiglia non è quella casetta con la ruota che gira sul fiume e il campo di grano intorno, è un ambiente spesso anche poco conosciuto. È lì che scoppiano tensioni, ripicche, reazioni, violenze, e tutto avviene in nome dell’amore che lega i suoi componenti. È come se qualcuno usasse la nostra fiducia per ingannarci. E si trincerano bene i detrattori familiari, poiché nessuno verrà mai a sindacare quello che ti è stato detto in una video chiamata, passata come una innocua frase di circostanza. Queste frasi, cosiddette innocenti, restano in chi le riceve con un effetto corroborante per chi le dice.

A volte l'amore non basta a evitare situazioni del genere, gioca un ruolo fondamentale il carattere, il pregiudizio, l’egoismo, i timori… 

Siamo sicuri che questo sia un buon confronto? I familiari proprio attraverso il legame del cordone affettivo ci passano anche il veleno. In nome dell’amore si offende, si colpisce duramente chi non la pensa come noi, si manipola l’altro, si esercitano i poteri più subdoli.

Dicendo che prima ero stanca ma per andare a mare sto bene, significa, per il mio detrattore, che quando si è stanchi è vietato prendere in considerazione un piacere, come quello di andare in barca con mio padre. E non può essere che mi rigeneri? Che mi faccia bene a prescindere? Che la stanchezza sia mentale? Che mi voglia semplicemente fermare?

Per concedermi un giorno al mare ho preordinato tutto per il giorno dopo, a cominciare dal pranzo, mettendomi ai fornelli per un pomeriggio intero.

Quando ieri sera sono tornata stracotta di sole, stanca e impossibilitata a muovermi per essermi bruciata, con il mal di testa e brividi addosso, ho pensato: "Ecco la benedizione che mi è stata data stamattina”.

L'altro, a volte, matura un'avversione nei nostri confronti per un qualcosa di cui non siamo nemmeno a conoscenza. E per il fatto di aver eluso un suo bisogno, alla prima occasione, agisce in mala fede e manifesta quello che non riesce più a trattenere.  

Quante volte abbiamo adottato questa strategia? E molte relazioni viaggiano su questi binari. Le ripicche non servono né a sminuire né a spiegare i fatti, semplicemente li accantonano, facendoli diventare pietre.

Fare qualcosa di diverso dal solito, prendere una decisione nuova, non assistere gli altri, anche se momentaneamente, destabilizza e non dà la forza di approfondire, di capire, di mettersi nei panni degli altri, di andare incontro alle esigenze altrui. 

A volte non basta ignorare, bisogna pur valutare le azioni e capire i comportamenti delle persone. Quelli dei familiari si rifanno alla comodità e all’abitudine. A volte più che esigere, sarebbe il caso di dare, per bilanciare.

C'era una volta...

 


     Foto di F.Baratto


Non è l'inizio di una fiaba, ma di una lenta e continua distruzione di un luogo. A cominciare dai bei paesaggi deturpati dal cemento, dallo scempio dei siti archeologici, per poterci costruire su o accanto o addirittura facendoli scomparire. E c'erano pure le strade ben asfaltate e recinzioni adeguate, diventate oggi mulattiere d'altri tempi. 
Strade lungo la costa, in montagna, sentieri coperti da vegetazione con animali selvaggi che circolano senza che nessuno si faccia una domanda, strade che da pubbliche diventano private, cancelli che ricordano ville primo novecento che chiudono là dove prima c'era un passaggio pubblico. Com'è possibile, invece, che l'autostrada da Londra in Cornovaglia sia asfaltata con la precisione di un pittore, senza cedimenti o avvallamenti o buche pericolose. Nemmeno un sassolino per sbaglio finisce sotto le ruote lì. 

Recinzioni e cancelli compaiono come funghi nonostante ci vogliano concessioni e permessi con tanto di autorizzazioni per poterli posizionare.

 I versanti del monte Faito una volta erano conosciuti e battuti come le nostre tasche. Col tempo questi luoghi nascondono misteri proprio come nelle favole, quando a un tratto appare il lupo. Strade, da entrambi i versanti, sempre in ristrutturazione, se non chiuse al traffico, come porte inaccessibili al pubblico e concesse solo a pochi. Lungo il percorso s’incontra di tutto, da animali lasciati liberi, molto spesso randagi o aggressivi, a ostacoli di ogni tipo: alberi divelti, massi, terreno franato, smottamenti. E nessuno sa niente. Eppure parliamo di una strada provinciale, qualcuno dovrebbe pure occuparsene.  Ed è andata via pure la "panarella” la famosa funivia che da Castellammare di Stabia sale a Faito. Ne passerà del tempo per poter funzionare di nuovo,  ma dopo quanto è successo, chi salirà più lassù come se nulla fosse accaduto?

Una volta esistevano anche gli ospedali, con Pronto Soccorso attivo, dove ti salvavano la vita, al contrario di oggi che, dopo il Covid, hanno deciso che possiamo curarci da soli. Chi lo ha deciso? Quelli che pensano di essere eterni e non usufruiranno mai di un ospedale. 

Sarebbe interessante assistere alla loro disperazione e cosa provano in momenti critici quando non sanno dove sbattere la testa. Oggi gli ospedali della zona sono spettri, dove si può solo nascere, ma dopo la nascita, del lungo percorso verso la morte, non se ne prende cura nessuno. Più aumentano le conoscenze in medicina e quindi guarire meglio e prima, più ci si allontana dal malato abbandonandolo a se stesso.

E’ strepitoso come lentamente si assottiglino le possibilità di usufruire del territorio e delle sue risorse.

Le spiagge una volta erano libere, si poteva accedere a tutte le ore, senza divieti, senza recinzioni, liberi di guardare seduti da uno scoglio l’orizzonte, quando nessuno ti scuoteva a muoverti, oltrepassato l’orario d’ingresso e di uscita.  Oggi paghi per sederti sulla spiaggia, come per tuffarti, lo spazio è ridotto e sembra camminare su un terreno minato, col pericolo che giunga qualcuno a dirti che stai usurpando il luogo su cui ti trovi. La bellezza del posto è a beneficio solo del turista? Chi vi abita non è abilitato a usufruirne?

Il traffico poi impedisce di muoversi da queste parti. Molti si illudono che, grazie al lento scorrere delle auto, il turista noti le bellezze del posto. 

 Ma questo comporta gas di scarichi inquinanti, oltre ai tempi di spostamento che si allungano. E se chiedi come risolvere la questione ti risponderanno con un altro tunnel, un ennesimo scempio unito a tanti altri. Le colline non ce la fanno più a subire bombardamenti per essere sventrate. Con un mare come il nostro potremmo avere un traffico marino disciplinato e veloce per incrementare il passaggio in costiera. Ma anche il mare è diventato di pochi, di coloro che sono in possesso di barche che da aprile a ottobre affollano il golfo adottando sempre meno misure di sicurezza negli spostamenti, inoltrandosi nelle riserve marine inaccessibili con abusi di ogni sorta.

E c’era poi la Vesuviana col famoso treno (per tutti i record negativi) da Napoli a Sorrento. Una volta c’era il posto a sedere per tutti, il controllore lavorava con tranquillità, nessuno si opponeva a esibire il biglietto e si poteva ammirare dal finestrino lo scorrere delle stazioni, della gente che saliva e scendeva, senza risse, trambusti, inconvenienti, ritardi. Andare in treno era un piacere. Ma oggi? Una corsa diventa un'impresa. Ti diranno che è colpa della gente, della maleducazione, del sovraffollamento… 

Intanto un treno così indispensabile per viaggiare da Napoli verso la penisola sorrentina, avrebbe dovuto mantenere uno standard molto alto, ma nel tempo è diventato di uno squallore unico. Dalle nostre parti, se qualcosa funziona, si fa di tutto per distruggerla. Anche la Vesuviana. Un turista che scende sui binari mentre si appresta a recarsi a Sorrento, quale idea si farà di noi? Succede in altre parti del mondo?

Nemmeno sulla Cordigliera delle Ande si assiste a una cosa del genere. Ho letto di trasporti efficienti lassù per quanto in posti tenebrosi. Perché venire da noi se altrove si è trattati meglio? Ma al di là del discorso turistico perché non meritiamo un trasporto efficiente?

La penisola sorrentina non è solo mare, sole, cibo, ma anche storia, cultura, è un territorio ricco di reperti archeologici che molti vogliono eludere, seppellendo quello che i secoli non sono riusciti a fare.  Qui non si valorizza, si ignora. 

Ora se in un territorio vengono a mancare la viabilità, gli ospedali, l’efficienza, l’organizzazione, si potrà mai dire essere un luogo turistico? E ancor prima rispondere alle esigenze dei suoi abitanti?

 


Leggere d'estate

                                 
                                

         

                                                                                                                               


Per le vacanze sogno di leggere libri, che scelgo accuratamente. Leggere richiede tempo e concentrazione e a volte mal si accorda con la vita di spiaggia. Spesso ci sono vicini chiassosi, i bambini che fanno incursioni trasportando secchielli d'acqua, sabbia, tirando teli, alzando polvere, che si appiccica alle pagine e, se poco prima avevi del latte solare in mano, sicuramente avrai unto le pagine formando quegli aloni che danno fastidio solo a vederli. E poi ci sono quelli che ti guardano mentre leggi da due ore e sono curiosi di sapere che cosa mai ci troverai di così interessante da preferirlo a un bagno. Questo provoca una continua distrazione. 

La lettura non è un passatempo. Esige concentrazione,  calarsi nella storia, sentirla. È un impegno.

È divertente vedere tutte quelle persone che sfoggiano sotto l'ombrellone il titolone del momento, sfilato dalla classifica settimanale dei più letti.  E si apprestano a isolarsi all'ombra come se stessero partendo per un'impresa. Quanto più grande è il libro tanto più sarà difficile leggerlo fino alla fine  e con l'usura le pagine  mostreranno stropicciature, pieghe, graffi, piccoli strappi. 

Poi ci sono quelli che sotto l'ombrellone leggono al massimo una pagina e la gustano come fanno i sommelier con una coppa di vino in mano. Leggono, distolgono lo sguardo e pensano, poi ritornano sulla pagina, rileggono, chiudono ma stanno ancora rimuginando che, se gli passi accanto, non ti vedono: restano fissi su quella pagina appena letta.

 Qualche volta è successo anche a me di comprare libri senza alcuna intenzione, solo per averli visti da qualche parte. Ma di solito scelgo in base agli interessi, o per conoscere un autore nuovo. Una volta letto, mi piace divulgarlo, parlarne, discuterne. Chiudendo l'ultima pagina è come se me lo fossi bevuto. 

Quando un libro lo troviamo interessante, facciamo in modo che lo leggano anche gli altri, invitandoli a provare le nostre emozioni. 

Ne parlo per ore con amiche, familiari, raccontando quello che ho letto invitandoli a verificare di persona a loro volta. La lettura è fatta anche di passa parola, di trame accattivanti, di personaggi che restano e di cui si parla come di parenti.

Poi ci sono quelli che leggono per trovare nei libri le risoluzioni ai problemi personali, altri per svagarsi con storie leggere. 

Quando sono allegra leggo cose più intense e profonde, ma se sono triste voglio distrarmi. La lettura è una medicina miracolosa: ti trasporta da una parte all'altra migliorando l'umore, regalando punti di vista nuovi, andando a zonzo nel tempo e nello spazio come fossimo viaggiatori alla ricerca di noi stessi.

Una volta, mio figlio, in una libreria di Torino, mi indusse a comprare un romanzo completamente diverso da quelli che ero solita leggere. Scelse per me "Il gioco dei fidanzati" di Daniela Krien,  un'autrice tedesca. 

 Racconta di una ragazza che, stanca di relazioni con ragazzi sempre in cerca di sesso e mai di approfondire la conoscenza dell'altro, mette un annuncio per trovare un ragazzo, ma spiega che non vuole avventure, solo una relazione seria e senza sesso.

Affondai subito nella lettura, e durante tutto il viaggio, da Torino a Napoli, ebbi il tempo di poterlo leggere per intero prima di arrivare a casa. La storia era divertente e ironica e di tanto in tanto mio figlio e mio padre mi sentivano ridere e si affacciavano dicendo: "Ah, ma ci sei anche tu? E facci ridere!"

Non aspettavo altro. Finii per snocciolare loro il romanzo a pezzi: prima leggevo, poi glielo spiegavo. E così per tutto il viaggio. 

 Posso dire che fu una lettura a tre fantastica: non solo lessi per tutto il viaggio, ma condividevo con loro che commentavano con riflessioni a dir poco sorprendenti. 

 Ora sto leggendo quattro libri, non uno per volta ma tutti e quattro insieme: in base all'umore scelgo quello da leggere. Quali sono? "Un altro giro di giostra" di Tizianio Terzani, "La tentazione di esistere" di E.M.Cioran, "Bella e perduta" di Paolo Rumiz e "Il vento conosce il mio nome" di Isabel Allende.

Se mi incontrate in spiaggia, mi riconoscerete per una di queste copertine a coprirmi il viso.



Il Gattopardo


 


Il Gattopardo fu pubblicato nel 1958, un anno dopo la morte dell’autore, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a cura di Giorgio Bassani. Nel 1959 vinse il Premio Strega. Il titolo è dato dallo stemma di casa Salina costituito da un gattopardo.

Possiamo definirlo un romanzo esistenzialista, storico e autobiografico.

I fatti narrati ripercorrono un arco di tempo di cinquant'anni, dal 1860 al 1910, dallo sbarco in Sicilia di Garibaldi fino al cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia.

Al momento delle vicende la Sicilia, luogo in cui si svolge la storia, era sotto il dominio borbonico, sin dal 1734.

Protagonista della vicenda è Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina, esponente dell’aristocrazia siciliana che vive il periodo storico del passaggio tra il vecchio mondo feudale e l’Unità d’Italia. Si assiste, pertanto, a un periodo di decadenza dell’antica nobiltà e il sorgere della nuova borghesia.

L’autore voleva riportare la storia di un suo antenato, il Principe Giulio IV, Principe di Lampedusa e finisce per scrivere un romanzo autobiografico, dove il protagonista Don Fabrizio di Salina assume le caratteristiche dell’autore.

Il Principe è un uomo colto, curioso, di gran fascino, che vive a suo agio nei suoi feudi, molto legato ai suoi spazi. Nelle sue vene scorre sangue siciliano e tedesco, bello, affascinante, colto, biondo e statuario. I suoi antenati risalgono a Federico II di Svevia, e questo passato d’oro non si può eclissare con l’avvento di una nuova classe sociale. Appassionato di matematica, astronomia, si trova più intelligente degli altri, non ha la necessità di confrontarsi e ciò comporta una certa solitudine. Spesso è preso da scatti d’ira.

Il libro si apre con la recita del rosario in casa Salina dove, oltre alla moglie del Principe, ci sono i suoi figli, don Pirrone e l’alano Bendicò.

Lo sbarco dei garibaldini a Marsala, in Sicilia, preoccupa Don Fabrizio per il succedersi degli avvenimenti, visti  come l’ultimo colpo di coda prima che il mondo, tanto caro al Principe, possa estinguersi.

Si assiste nel romanzo alla lenta agonia della nobiltà feudale a favore di una nuova classe, quella della borghesia che avanza con la nuova economia del paese basata su una classe arricchitasi col commercio ma senza una base di sapere e che Don Fabrizio odia. Lo stesso nipote del Principe, Tancredi Falconieri, s’imbatte nel nuovo ceto sociale quando, all’arrivo dei garibaldini, partecipa alla campagna di unificazione del Regno al Piemonte. Don Fabrizio, anche se a malincuore, si mostra a favore dei Piemontesi, sapendo che è l’unico modo per aspirare a restare nel suo mondo e non perdere i privilegi acquisiti. 

Egli ripone le speranze in suo nipote Tancredi, pur avendo sette figli, che già sa non potranno portare avanti il nome della famiglia. Di questi il primogenito, Paolo, è un incapace e l’altro vive all'estero. Anche per le figlie femmine non ci sono speranze. 

Tancredi è un bel ragazzo, maturo, sarcastico e dedito a frequentazioni opinabili. Nonostante alcuni suoi aspetti non proprio adamantini, il Principe ha un debole per lui. Anzi lo avrebbe preferito al posto del suo primogenito.

Tancredi non vuole scontentare lo zio e pensa di sposare la figlia Concetta. Ma in un periodo di vacanze a Donnafugata, il giovane conosce la figlia del sindaco don Calogero Sedara, Angelica, e se ne innamora. Della ragazza ammira non solo la grande bellezza ma anche la cospicua dote. La bellezza di Angelica offusca chiunque, anche il Principe, a cui risveglia  la vanità di uomo ancora sensuale e di un certo fascino.

Don Fabrizio non ama la scelta del nipote di imparentarsi con una famiglia borghese e volgare, che non ha niente da spartire con la vecchia aristocrazia.

Don Calogero Sedara, sindaco di Donnafugata e padre di Angelica, impersona il ceto emergente che ascende al potere. Egli non ha l’eleganza, la portata e lo spessore di Don Fabrizio. Alla cultura di quest’ultimo contrappone la conoscenza dei materiali che più “tirano” sul mercato, alle buone maniere, la rozza risoluzione senza alcuna sensibilità o gentilezza. 

All’interno del romanzo si fanno le differenze tra la tranquilla e consolidata classe nobile e quella più inconsistente ma di rapida ascesa della borghesia. Una classe che varia, in base all’economia, agli affari e al successo e che risente delle interferenze sociali. E le due sono contrapposte ma si osservano e si controllano sapendo che l’una succederà all’altra, tanto che il Principe affermerà: ”Presto gli sciacalletti e le iene prenderanno il posto dei gattopardi”.

Tancredi costituisce il momento di passaggio da un mondo all'altro quando sposa la bella Angelica, unendo i due ceti sociali come mai prima era accaduto. 

Don Fabrizio, nonostante non approvi la parentela con la famiglia di Don Calogero, comprende il volere di suo nipote e non lo biasima. Egli vive ora di rimpianti dei tempi passati e di un forte pessimismo per il futuro.

Sua moglie, la Principessa Stella, non ha la sua  stessa luce, sembra quasi un personaggio minore: molto remissiva, incapace di essere padrona della sua vita, anzi ruota attorno al marito come chi ha bisogno di sentirsi qualcuno. E l’amore che prova per il consorte non basta a darle una vita felice se questi la tradisce continuamente.

I membri della famiglia subiscono tutti l’ascendenza del Principe, in un mondo ingessato e ovattato dove non risuona alcuna contrapposizione.

 Alla Principessa Stella somiglia sua figlia Concetta, una donna fragile, molto introversa, incapace di fornire i suoi stati d’animo e pertanto sottomessa ai voleri degli altri.

Non meno importante il personaggio di Padre Pirrone, guida spirituale di tutta la famiglia, che segue il Principe come la sua ombra e lo accompagna nei viaggi di rappresentanza. Il ruolo lo vede spesso costretto a lunghi sermoni a Don Fabrizio, per placare la sua innata sensualità e a prendere decisioni importanti all’interno del casato. Don Fabrizio, pur avendolo al seguito, vorrebbe da lui un tacito consenso alle sue iniziative ma si imbatte continuamente nelle sue avverse sentenze. 

Don Fabrizio è consapevole di non poter cambiare le cose, sia per la famiglia che si ritrova, priva di capacità e ambizioni, sia per la rivoluzione che incombe e porterà scompiglio. L’unico modo per attraversare il momento è comprendere che: "Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi", come se bastasse ad assicurarsi il benessere e la tranquillità in cui vive, fatto di privilegi, rispetto e sudditanza da parte del popolo, di asservimento dei coloni dei suoi feudi ed esercizio del suo potere.

"Il principe non aveva ricordi da preordinare; aveva soltanto previsioni da capovolgere".

In un passo dell'opera, quando l'emissario piemontese Chavalley giunge in Sicilia per offrire al principe la carica di senatore, che invece rifiuta per sentirsi legato al suo casato, descrive in modo tagliente i siciliani: "in Sicilia non importa far bene o far male: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di "fare"... i siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria".

Egli spiega all'ospite i motivi per cui i siciliani hanno difficoltà ad accettare il nuovo padrone: sono secoli che si adattano ai loro conquistatori e si sono rivestiti di una corazza che mal percepisce il volere dei dominatori. La sua natura è di non voler essere guidati, di non sottomettersi. La società intorno può anche cambiare, ma il modo interiore di un siciliano è rimasto integro e fedele al suo spirito e alla sua terra. 

Don Fabrizio sa che da questo momento la sua vita sarà più ritirata, proprio perché non riesce a sentirsi parte integrante del nuovo mondo che avanza. 

L'opera descrive la decadenza di una famiglia aristocratica in un momento storico importante, in un ambiente geografico particolare come quello di Sicilia. Il successo del romanzo fu grandioso. Secondo alcuni andava scritto un secolo prima, poiché ci ritroviamo davanti a una rianimazione di valori antichi, concetti feudali. E il fatto che ancora oggi il romanzo riporti grande successo fa pensare che la fine del mondo feudale non sia mai stata cancellata e che possano ancora esistere i cosiddetti gattopardi con tutta la loro gerarchia.

È un romanzo esistenzialista per il pessimismo che lo pervade, soprattutto di tipo storico, per il senso d'inquietudine che attanaglia il Principe al pensiero della morte. Morte e decadenza si rincorrono dall'inizio alla fine. Ma lo stile del romanzo è rivelatore non solo di una storia di famiglia ma anche delle luci e ombre che hanno accompagnato il passaggio storico di un momento così importante. 

 I dialoghi di Don Pirrone, i momenti di tensione per l'arrivo dei garibaldini, il sarcasmo e l'umorismo del Principe nel raccontare situazioni e fatti rendono la lettura veramente piacevole e accattivante. Fondamentale in tutto lo scorrere della storia il coraggio, sia quello  dei borghesi nella loro scalata al potere che quello del principe nell'accettare i fatti e arrendersi al cambiamento e alla caduta del suo casato.  





 



E stiamo a guardare...

 




Ultimamente ci poniamo a spettatori indifferenti davanti ai fatti gravi accaduti in alcune amministrazioni del nostro territorio.

 L'indignazione ha vita breve, la avvertiamo per qualche giorno, poi subito ci riallineiamo secondo i ranghi di appartenenza: se il fatto ci tocca da vicino, stiamo attenti a ciò che diciamo, senza esporci; se si conosce la persona incriminata, allontaniamo da noi l'idea di discuterne. In questo modo abortisce ogni pensiero costruttivo in proposito e si attende passivamente che tutto finisca. 

Chi ne deve parlare, tace, il popolo blatera e spettegola e dopo un po' passa ad altro fatto. "Ma un fatto è un fatto: non ha contraddizioni, non ha ambiguità, non contiene il diverso e il contrario"come diceva Leonardo Sciascia.

Non ci offende più niente, tutt'al più ci facciamo dell'ironia, tanto meno proviamo vergogna, anzi, si scambia l'accaduto per un atto di coraggio. Non ci indigna il sopruso, non ci amareggia il tradimento pubblico e non abbiamo a cuore le sorti della "res pubblica". Diamo per acquisiti malcostume e menefreghismo, come se dovessero allignare. Ma poi, dalla nostra indifferenza, vorremmo erigerci a giudici. Sulle prime reagiamo aspramente, poi, passato il tempo necessario a far cadere nell'oblio il fatto, siamo già volti ad altro.

Supportati dalla convinzione, pigrizia e convenienza ci adagiamo sull'idea che lo stato dei fatti è questo e non cambierà mai. La corruttela non fa più scandalo, questo è il paese del "qui nessuno è fesso", assurto a valore morale. Siamo così assuefatti ad azioni riprovevoli che non riusciamo nemmeno a rilevarne la gravità. Si trovano attenuanti al gesto commesso e si cerca di non attribuire alcuna colpa a chi ha compiuto l'illecito. 

 Questa mentalità è corroborata dal pregiudizio che essere persone furbe, intelligenti, capaci dia il benestare a compiere qualsiasi nefandezza, come se delinquere fosse un merito e  non un reato.

Ma accadono ancora cose normali tra gli umani che non siano azioni di lupi, volpi e sciacalli?

Ma poi opporsi a che cosa e perché?

 Perché  viene prima il bene personale e se intorno a noi tutto va a rotoli, non è affar nostro. Di Machiavelli per anni si è preso a modello solo "il fine giustifica i mezzi", tralasciando il "bene comune" di cui si parla all'interno della stessa opera: "Il Principe"

Il bene comune preordina il bene personale e non viceversa. Se fai sempre e solo i tuoi interessi non potrai mai avere quello di tutta la comunità. Ma va così. La gente lotta per una conquista personale: se necessita di un privilegio si adopera, se non inserita in una graduatoria, si oppone strenuamente, se ha bisogno di un sussidio, si scalmana fino a ottenerlo, ma se poi per conquistare dei privilegi lede i diritti degli altri, questo non la riguarda. Vediamo nei fatti ciò che vogliamo. 

E non basta dire io sono una persona perbene, pago le tasse, non faccio niente di male, a sbagliare sono gli altri. Quando gli altri si comportano in modo tale da pregiudicare il buon andamento della comunità, è necessario far capire da che parte siamo. Davanti ai fatti certi, bisogna far cadere la maschera, prendere le distanze. Ma solo pochi possono permettersi questo atteggiamento: quelli che non hanno paura di opporsi per non essersi mai sottomessi o scesi a compromessi.   

Rubare, corrompere, sopraffare, istigare, delinquere, sono azioni che non menzioniamo mai col loro nome, sembrano innominabili, eppure accadono e anche di frequente. 

Rubare significa sottrarre furtivamente qualcosa a qualcuno e furtivamente significa senza che qualcuno se ne avveda o se ne accorga;

- corrompere, guastare sul piano spirituale e morale, danneggiare;

- sopraffare, sottomettere, prendere il dominio su un altro;

- istigare, indurre ad azioni riprovevoli;

- delinquere, infrangere norme prestabilite macchiandosi di colpe.

Si conoscono più le azioni che i loro nomi, anche quando sono reiterate, anzi quasi mai vengono menzionate se non nelle aule dei tribunali.

Allora cominciamo a nominarle con insistenza per evitare di dimenticare il tipo di reato in cui si cade. È importante conoscere il significato delle parole poiché a quelle parole poi vanno abbinati i rispettivi risvolti penali.

Se delinqui, corrompi, istighi, rubi, poi vai in galera, c'è una pena da scontare. 

 In perfetta linea su quanto affermava Machiavelli: gli uomini di solito tendono a regolare i propri rapporti sulla base dell'interesse e della forza senza rispetto dei valori di bene e male. Gli uomini, per il segretario fiorentino, sono tutti rei e usano la malignità del loro animo qualunque volta ne abbiano libera occasione. Per Guicciardini l'uomo considerato isolatamente  è buono ma  è corrotto proprio dalla sua socialità, da cui nasce invidia, ambizione, competizione con gli altri. Essi non operano mai bene se non per necessità e bisogna ordinare una repubblica in modo che  chi volesse far male, non può.

Dopo aver compreso la concezione naturalistica dell'uomo, le cose vanno disposte in modo che gli uomini abbiano difficoltà a mettere in atto i propri interessi a scapito della comunità.

Quello che un politico si ostina a non capire e non accetta è che occupa un posto che la comunità gli ha affidato e pertanto va onorato. Il suo comportamento dovrebbe rispecchiare quello di un ospite.

 Questi concetti basilari di democrazia, altro nome innominabile poiché scappa da tutte le parti, li conoscono anche i bambini mentre chi gestisce la cosa pubblica ha difficoltà ad accettarli.  In una società basta un solo corrotto a inquinare il terreno più fertile. Ma anche la comunità deve collaborare e mantenere integro l'organismo. L'uno deve essere di correzione all'altro. Il tutto unito a buone leggi ma soprattutto  alla certezza delle pene, senza le quali decade ogni discorso.



Al Social World Film Festival “Il messaggio di Papa Leone XIV e il nuovo codice deontologico”




Il 12 maggio scorso, Papa Leone XIV ha tenuto un discorso agli operatori della comunicazione. Il Pontefice porta ad esempio un estratto dal “Discorso della montagna” dove Gesù proclama beati gli operatori di pace. Il discorso prende a modello un tipo di comunicazione diversa, che non abbia il consenso a tutti i costi, che non si vesta di parole offensive, aggressive o sia in competizione. Ciascuno di noi può essere operatore di pace, dipende da come guardiamo gli altri, come li ascoltiamo, come interagiamo rendendo la comunicazione, un grande strumento per costruire ponti e non muri. Il no va alla guerra delle parole e delle immagini. Per Papa Leone XIV con la comunicazione bisogna uscire dalla torre di Babele in cui ci troviamo oggi, una confusione di linguaggi senza amore, ideologici e faziosi. Per comunicazione non s’intende solo trasmissione di informazioni ma anche creazione di cultura. Lo richiede l’evoluzione stessa della tecnologia, che necessita di responsabilità e discernimento per orientare gli strumenti al bene di tutti. Bisogna disarmare la comunicazione da ogni pregiudizio, fanatismo, odio, rancore. Disarmando le parole, disarmeremo la terra. Ed è stato proprio il messaggio di Papa Leone XIV alla base del corso di formazione giornalisti organizzato dall’Ordine Giornalisti della Campania, tenutosi oggi al Palazzo Giusso di Vico Equense, all’interno della Manifestazione del Social World Film Festival, dal titolo “Il messaggio di Papa Leone XIV e il nuovo codice deontologico”. Sono intervenuti Ottavio Lucarelli, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Campania, Giuseppe Alessio Nuzzo, direttore del Social World Film Festival, Angelo Scelzo, già vicedirettore della Sala Stampa della Santa Sede, editorialista e scrittore, Alfonso Pirozzi, redattore Ansa Campania, Antonio Pintauro, direttore dell’ufficio Comunicazioni Sociali della Diocesi di Acerra, Alessandro Savoia, giornalista e addetto stampa, la giornalista Claudia Esposito moderatrice dell’incontro. Le parole sono pietre, hanno un peso. La comunicazione, in questi ultimi due pontificati è stata fondamentale e i giornalisti sono operatori di pace. La comunicazione, oggi, ha cambiato profilo rispetto al passato, e la società è modellata sul modo di comunicare. Leone XIV afferma che viviamo in una società intricata di rapporti sociali. Il ruolo della comunicazione è plasmare la società del futuro e stemperare la vita, soprattutto quella che si vive con la guerra, una vita fatta di odi e contrapposizioni. Sia con Francesco che Leone XIV la comunicazione è stata al centro della loro vita. Oggi il Papa punta sulla cronaca del momento e lo fa attraverso la Essa è parte attiva e viva, come strumento negoziale, rivolta a far in modo che la vita sia libera dalle tossine. La prossima enciclica potrà essere sulla questione digitale che si pone al centro della vita della Chiesa. Il problema resta come utilizzare questo grande potenziale. Solo i popoli informati possono scegliere il loro futuro. La Chiesa non deve cedere alla mediocrità. Il giornalismo non può esistere fuori dal tempo e dalla storia. A tal fine si chiede una piena corresponsabilità degli operatori che lavorano in questo ambito per evitare che la comunicazione, come sottolineava papa Francesco, sfoci nel pericolo del predicalismo. Pur non vivendo la guerra dal vivo, come le generazioni precedenti, osserviamo comunque ciò che accade nei campi di battaglia che si combattono in territori nemmeno tanto lontani da noi. E anche la comunicazione può diventare un’arma.
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