In estate i gechi abitano terrazzi, davanzali,
giardini, muretti. Sono parenti stretti delle lucertole verdi ma più che i
prati sono appiccicati alle pareti delle case, con le loro ventose. Hanno
bisogno di calore e di luce, velocissime nei movimenti, pazienti con le prede.
Spesso ce li troviamo in casa, si infiltrano facilmente in spazi risicati, non
disdegnano soffitte e cantine e si danno da fare soprattutto di sera, all’imbrunire.
Non ricordo di aver mai
avuto paura da bambina dei gechi. Eppure vedevo vipere e serpenti neri. Non
ricordo, allora, di aver visto mai i gechi, o la memoria mi impedisce di farlo per qualche motivo a me
sconosciuto.
Sarà successo qualcosa, per cui, dopo la mia
partenza dalla casa dei nonni, è cominciato questo timore.
Sotto la grondaia del
palazzo dove abitavo, ce n’erano molti. Mentre
parlavo con la signora del piano di sopra affacciata alla finestra, una donna
tanto cara, che ricordo con affetto, io alzando lo sguardo, li avevo proprio
sulla mia testa. Per me era uno sforzo
immane fissarli mentre parlavo. E’ stato allora che ho cominciato ad avere il
terrore dei gechi. La signora mi diceva che forse erano loro ad avere paura
di noi. Ma da quel momento, dall’età di 13 anni, la mia vita con i gechi è
stata un inferno.
Un giorno mia madre
scese a pulire la cantina facendosi aiutare da una donna. Al momento del pranzo
ancora non si vedevano, per cui andai a vedere a che punto fosse il lavoro.
Erano intente a spazzare e ordinare, ma sulla soglia mi bloccai poiché alzando
lo sguardo vidi un grosso geco appoggiato sul cordone della porta. Mamma,
sapendo, venne a prendermi coprendomi con le braccia e tirandomi all’interno.
Lì ebbi una brutta reazione, a tal punto che dovette portarmi su. Lei era l’unica
a capirmi mentre tutti gli altri si divertivano a dileggiarmi. Purtroppo i gechi
sono dappertutto e in estate invadono i nostri spazi. Ne ho fatte di cose stupide
in nome della paura. Ma non c’è verso, resta, per quanto la ragione si ostini a
combatterla. Una paura irrazionale che potrebbe farmi fare gesti inconsulti in
caso di pericolo. Il viale di casa mia ne è pieno. La sera,
quando danno la caccia,
evito qualsiasi contatto con l’esterno, e prima di uscire controllo. Se per
caso esco, al rientro devono venirmi a
prendere in garage. Una volta al rientro nessuno usciva al mio richiamo di
clacson (questo il segnale), così ho chiamato a telefono e mi hanno risposto
che non erano in casa. Li ho aspettati in macchina e intanto leggevo con le
luci accese col rischio di scaricare la batteria. Un amico di mio figlio, per
lo stesso motivo andò dallo psicologo. Questi gli consigliò di metterne uno
finto in auto per farci l’abitudine. Ma la paura non passò. Così, per quanto si
faccia coraggio, ogni volta che sale in macchina e vede il geco appiccicato al
vetro, trema come un bambino. Ma ricordo anche di quella volta in vacanza con
ospiti nella casa al mare, quando un esercito di gechi si presentò dichiarandomi
guerra e io, non ebbi di meglio che salire sul tavolo e munirmi di scopa
lasciando tutti allibiti, ignari della mia paura. Eppure sono innocui,
ripuliscono l’ambiente da zanzare e moscerini, ma questo non basta a
rassicurarmi.
Ho imparato le loro
abitudini e comportamenti per difendermi. Per esempio avvertono ogni cambiamento
climatico e se il tempo è afoso e sta per venire una bufera, li vedi su tutte
le pareti forse per fare incetta di cibo prima di chiudersi nei loro antri. Con
il vento caldo del deserto sembra quasi che impazziscano, sono tutti lì a
correre come se non riuscissero a respirare. Questa scena mi riporta alla
giovenca delle Georgiche di Virgilio,
quando allargava le narici per respirare (I, 314-351) e dai versi, ho capito che in questo modo si
difendono. Limitano il loro territorio, di solito vanno sempre in due, dove ce
n’è uno, ne comparirà un altro; una volta cacciati da un posto non vi ritornano
più, memorizzano l’effetto negativo; temono gli uccelli e di conseguenza hanno
paura delle uova, anche solo dei gusci vuoti; non sopportano l’odore di naftalina.
Spariscono a un preciso tipo di ultrasuono che non riescono a sopportare. Ho
imparato a difendermi anche se gli altri non concepiscono questo tipo di paura.
Come io non concepisco quella dei ragni, delle galline o degli scarafaggi.
In uno di questi pomeriggi afosi ne ho visto uno sotto il muretto accanto alla pianta di ulivo, di fronte al balcone di cucina. Così ho preso una
bottiglia d’acqua, ho
aperto la zanzariera e gli ho lanciato un litro e mezzo d’acqua addosso. Nello
sporgermi troppo ho rimosso la zanzariera e mi sono trovata attaccata alle sbarre di
ferro di protezione. Il geco è scappato più per il trambusto che altro. Poi
avendo sfasciato la zanzariera e temendo che potessero entrare, ho chiuso le
ante soffocando dal caldo. Quando l’ho raccontato, tutti a sganasciarsi: ”Oh
quale coccodrillo metteva a repentaglio la tua vita per buttare giù la
zanzariera e trasformare il balcone in una trincea?” Cosa potevo rispondere? Anzi, mi hanno raccontato dei benefici dei
gechi e che se entrasse sarebbe una santa cosa visto che porta fortuna.
Qualcuno se lo tiene in casa per questo motivo. Ripensando a tutte le
disavventure mi viene in mente quella volta a scuola quando, mentre correggevo,
un’alunna mi disse che ce n’era uno nel cestino. Io presa dalla correzione, la
zittivo, ma quando realizzai quello che aveva detto, ero già in verticale sulla
cattedra facendo gesti al custode di soccorrermi, trovandosi di fronte a me,
nell’atrio. E ancora pulendo il davanzale della finestra dello studio me la
ritrovo tra le mani e urlando con quanta voce avevo in gola, buttai fuori
stracci, mazze, detersivi e tutto il resto correndo per la casa come un’invasata.
Ma ricordo anche la mia
rivincita, quando arrabbiatissima per non poter sedere nel mio spazio esterno
pieno di piante e fiori, ho cominciato ad annaffiarli con lo scroscio d’acqua
dalla pompa così che a stento riuscivano a rientrare. Conosco l’ora in cui
escono, il giro che fanno, le pareti che occupano. Ora ce n’è una sotto la
tettoia fuori al terrazzo dove stendo il bucato e un’altra che fa capolino
davanti al muro di cinta. E’ da sballo il fatto che per spaventarle e farle andare
via, io faccia tanto chiasso da sembrare matta: batto i piedi a terra, lancio
mollette per farle
allontanare, lancio bagnine a terra, sposto stendibiancheria, strimpello sulla scatola di latta delle mollette. Di solito esco in compagnia dei miei che puntualmente sbuffano. Si scocciano così tanto che sono capaci di dirmi che non ce ne sono prima ancora di guardare, per poi uscire io e trovarle in fila. Come se mi aspettassero. Il fatto strano è che se non ci
penso non le vedo, più
ho paura più compaiono. Ma ho preso la saggia decisione di munirmi di pistola
ad acqua e difendermi da sola, se non altro
per dare a loro la
stessa paura che provo io a vederle. “Mal comune, mezzo gaudio”. E i vecchi
detti, latini in questo caso, dicono bene: “Si
vis pacem, para bellum, se vuoi la pace, prepara la guerra… Una guerra
d’acqua!
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