Il bello della lingua napoletana è che, seppure ti scervelli,
non troverai mai l’equivalente parola in italiano. Prendi “appapagnarsi”, in
lingua napoletana significa sonnellino pomeridiano post prandiale che arriva
come una clava in testa e ti fa sprofondare, anche se ti rifiutassi di dormire.
E’ quell’abbassare le difese e lasciarsi andare chiudendo gli occhi. Come si
potrà tradurre tutto questo in italiano? Non essendoci una parola di tale
significato, ci si serve del termine napoletano.
Quando ho menzionato la parola, chi mi era intorno, mi ha
guardato sgranando gli occhi con un “Ehhhhh?”, con un eco infinito. Termini
come questi non li pronuncio mai, mi saltano alla mente in situazioni in cui
non saprei usarne altri. I fatti scelgono quelle parole che più si avvicinano
al significato preciso che vogliamo esprimere, senza fare alcuna differenza tra
dialetto o altra lingua. Molto sicuramente, però, sono termini usati in
precedenza e per lungo tempo per poterli usare all’occorrenza. Usava questo
termine mia madre che era solita appapagnarsi dopo pranzo presa da una
sonnolenza dovuta alla sua lenta digestione. E io la rifornivo di soluzioni Shoom
per aiutarla, dopo di che crollava di botto. E ricordo quando parlava con la
vicina e le riferiva di aver riposato utilizzando più volte il termine “appapagnata”.
Pronunciava la parola con tale trasporto, col riso e chiudendo gli occhi mentre
lo diceva, da rendere quel bisogno impellente anche in chi la ascoltava. Stavi
già lì a immaginarti sul divano, senza forze, in un silenzio forzato degli
altri accanto. Se avesse detto “mi sono addormentata”, non avrebbe reso la
stessa scena. L’appapagnamento non è un vero sonno, più uno stordirsi, un
appisolarsi e lasciarsi cadere senza forza anche a causa della digestione che
vuole i suoi tempi. E conosco bene il termine per ciò che accade di domenica, dopo
pranzo, quando l’appapagnamento prende i commensali che dal tavolo passano in
salotto, dopo aver scolato del buon vino, mangiato, con dolci e liquorino.
Subito dopo danno fiato alle loro corde vocali che vibrano ritmicamente. E
mentre gli “appapagnatori” smaltiscono un pranzo eccessivo, sono testimone dei
loro cedimenti fisici a colpi di sospiri e respiri profondi. Poi basta un
piccolo fruscio o una domanda ad alta voce per scuoterli dal torpore e
riportarli alla realtà. Insomma, l’appapagnatore ha bisogno di una ventina di
minuti, così come indica anche il genio Leonardo, per riprendere le forze. Lentamente,
appena la bile svolge il suo compito, ci si ridesta. Grande appapagnatore fu
mio nonno, che dopo pranzo reclinava il capo all’indietro ed emetteva piccoli
fischi, lasciandosi andare per una mezz’ora.
Personalmente non mi sono mai trovata in questa situazione,
forte di uno stomaco da ruminante, non ho mai avuto bisogno di chiedere aiuto a
Morfeo. Qualche volta che, malauguratamente, mi sono abbattuta e non per il
pranzo ma per la stanchezza eccessiva e fuori dall’orario solito in cui
avviene, subito qualche seccatore mi ha riportato alla realtà. Il problema è
che quando si esce dall’appapagnamento si rimane storditi, e chi ti vede, al
risveglio, si accorge che scendi dall’albero delle pere. Allora con la fatidica
domanda: ”Ma dormivi?” tu rispondi candidamente “no” lasciando l’altro nel
dubbio o nella convinzione di avere di fronte il più grande bugiardo. E come si
cade di botto all’inizio, così quando si esce dallo stordimento, non si è
completamente svegli. Appapagnarsi è coccolarsi in un piccolo cantuccio,
assumendo le forme più strane e lentamente cedi alla tentazione di chiudere non
solo gli occhi ma anche ogni connessione con l’esterno.
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