Il Natale da mia nonna

 




Cucinare è come amare, o ci si abbandona completamente o si rinuncia, dice Harriet Van Horne e la cucina di mia nonna era più di una locanda della felicità. Un focolare sempre caldo, con pentole sul fuoco, legna sotto la cucina e fumi dalle pentole che, a forma di genio della lampada d’Aladino, salivano fino a toccare il soffitto, altissimo. Il Natale a casa di mia nonna era una figata. Una cucina rustica, con utensili primo novecento, pentole di rame, mestoli di tutte le grandezze, credenza come la carrozza di Re Sole (Luigi XIV), marmo di cava posto come piano per modellare la pasta, pentole enormi con cui ci si poteva sfamare eserciti. Sin dal mattino si spargeva il profumo di brodo per la casa appannando i vetri, che lentamente gocciolavano, rigando le finestre e, se ci appoggiavi il naso, sapeva di pollo e sugo. La pentola sul fornello gorgogliava facendo sbuffare ogni tanto il coperchio, richiamando l’andamento di una locomotiva. E intanto si sentiva ancora l’odore di pollo sparso sul tagliere dove era stato fatto a pezzi. Accanto al brodo, sui fornelli di un vecchio gas anni cinquanta, c’era la pentola col sugo fatto con le interiora di pollo arrotolate, piccole braciole ripiene di prezzemolo, pepe, sale, aglio, qualche pezzetto di formaggio. Ero io che le chiudevo con il cotone bianco e poi mi dovevo sentire i “mannaggia” di chi le srotolava e non ne veniva a capo. Quel sugo aveva un sapore speciale, un colore rosso vermiglione con rigagnoli di olio lucido perlato in superficie e le cime delle bracioline che emergevano come boe in quel mare rosso. Ogni pretesto era buono per andare a scucchiaiare e assaggiare continuamente. 
Per primo si preparava la pasta al forno che a me piaceva tanto. Il nonno ci metteva quelle mozzarelle filanti con ricotta, uova sode, prosciutto fatto a pezzetti, piselli con un po’ di pancetta tritata, quella di casa, uvetta. Quando la porzione era posta nel piatto, sembrava una roccia: alta, formosa, frastagliata, con pezzi di ingredienti cadenti e la forchetta non sapeva dove affondare, non riusciva a tagliare un boccone preciso, sembravano tanti massi catapultati in bocca. In una zuppiera bianca di porcellana riposava la cicoria cotta, di un verde bottiglia che sapeva ancora di riva da cui era stata tagliata. I nonni la preparavano di sera per poi cuocerla di mattina, pronta per essere versata nel brodo con le uova. E poi in una teglia gigante affogava e macerava il pollo in tutto il suo splendore: pulito, color oro, ricco di prezzemolo, aglio, rosmarino, pepe, abbondante olio, qualche goccia di aceto. Con le mani s’immergeva ogni pezzo in quel lago invitante e poi risaliva a galla per far spazio agli altri. Solo l’odore metteva una fame da lupi. A volte erano carni miste ma la maggior parte delle volte era il pollo. E poi c’erano le verdure, tra cui l’insalata, le patate in padella, passate con lo strutto, ben rosolate. Sul primo scaffale nella credenza erano già allineati gli struffoli con i confettini colorati, mentre le zeppole colavano ancora di miele e anicini, ricche di alloro. Quell’aroma di anice era la mia passione e solo la mattina di Natale lo potevo bere nel caffè. Non c’è aroma che mi ricordi il Natale più dell’anice. Quando tutto questo capolavoro culinario era pronto, si poteva andare a messa. Fin dal mattino si preparavano i tavoli per il pranzo, che a volte erano due uniti, con la tovaglia bianca, e si apparecchiava verso mezzogiorno. Io mi acquattavo con il cane sotto il tavolo, vestita da principessa, seduta a terra. Per ripararmi dallo sporco indossavo una sorta di grembiule colorato, così potevo appoggiare il cane sulle gambe e imboccargli i pezzi che gli avevo preparato. Sulla sedia appoggiavo dei piccoli contenitori in cui ci raccoglievo i rimasugli di cibo, da cui ne usciva un’ibrida poltiglia che arrotolavo e ne facevo pezzetti tipo gnocchi. Il cane appena li vedeva, dava all’assalto e in un baleno spariva tutto.
 Per strada, mentre si andava a messa, pur vestiti a festa, avevamo tutti gli odori di cucinato, più che impregnato sugli abiti, nelle narici. L’unico profumo che riusciva a stemperarlo era il pino silvestre di nonna, inconfondibile richiamo per me ovunque fosse. All’uscita dalla chiesa, dopo gli auguri a vicini, parenti e amici, correvamo a casa per la festa, con tutte le bontà che ci aspettavano. Sulla strada del ritorno si faceva un riepilogo dell’omelia, il nonno diceva la sua su quanto avesse inteso e finiva il discorso sempre con amen e il segno della croce. Io, dal basso, alzavo lo sguardo e lo fissavo, per sentire la sua voce emozionata e a volte gli occhi gli brillavano. Lungo il sentiero già era sparso il profumo d’arrosto, dolci, liquori dalle case dei vicini che ci facevano affrettare il passo per completare quello che avevamo avviato. 
Appena in cucina, si finiva di apparecchiare la tavola, su cui non mancava il pungitopo e l’agrifoglio raccolto nei campi e, quando tutto era pronto, ci mettevamo a tavola. Quella cucina diventava un’incubatrice: calda, profumata, accogliente e nessuno lasciava il suo posto. Era un rito. Dopo l’antipasto, ricco di prosciutto, mozzarelle, meloncini, e tante altre piccole cose, si passava alla minestra. Partivano i cucchiai a raccogliere il brodo. Toccando il bordo dei piatti, davano un suono secco, soprattutto quelli delle feste: doppi, pesanti, lucidi. Il nonno, tra una presa e l’altra del brodo, finiva con un risucchio che attirava l’attenzione di tutti e ci si guardava sorridendo. Subito dopo arrivava la pasta, che era stata al caldo con gli ingredienti ormai ben amalgamati. Il tepore della stanza imprigionava il sapore di parmigiano sulla pasta col sugo, del pollo ormai macerato bene, di arrosto che di lì a poco partiva, di pane caldo e profumato. Quella combinazione di profumi era prettamente natalizia, non c’era altro momento dell’anno in cui si mangiavano pietanze in quell’ordine. Quando si finiva la minestra, la pasta e il pollo, si cercava di ricomporre la tavola togliendo i resti di pane e oggetti che non servivano più, e si appoggiavano struffoli, zeppole, raffioli, cassate, torrone, mostaccioli, pulci, pandoro, panettone. A volte giungeva qualche parente, vicino, o passava qualcuno a salutare, ed era inevitabile invitarli a tavola. C’erano poi i fichi, le nocciole, le mandorle, le castagne.
 Nessuno si azzardava a lasciare la sua postazione e alla fine si passava alla tombola. L’inconveniente di quella giornata era che tra cibo, racconti, chiacchiere e risate si finiva a sera. Qualche volta gli uomini, che alzavano un po’ il gomito, finivano nei campi a fare un giro per riprendersi, per poi tornare e rimpinzarsi di nuovo. Il Natale da mia nonna era una festa e negli anni il ricordo è sempre più forte, perché era perfetta, non mancava nulla. Mi chiedo sempre perché le cose sono così fugaci. Quando si vivono momenti unici, poi svaniscono subito.

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