La radio

 


Per rieducare all'ascolto dobbiamo avvicinarci di nuovo alla radio. Un mezzo di comunicazione di massa che trovo adorabile.

Quando guido, amo ascoltare la musica, ma mi impongo poi di concentrarmi su programmi di grande interesse. 

Molti discorsi s'insinuano dentro e ci stazionano a lungo, diventando, col tempo, oggetto di lunghe riflessioni. Viaggiare con una voce nell'abitacolo dell'auto, come se ci fosse qualcuno accanto a fornire argomenti su cui discutere, è veramente una riscoperta. 

Mentre ascolto, do valore alla modulazione della voce, all'educazione con cui interagiscono gli interlocutori, mi intrattengo sulle domande che a volte mi restano in mente a lungo e le faccio mie, sono attenta alle risposte, al loro valore e se ci avevo mai pensato io prima di allora.

La radio arriva su una frequenza d'onda che avvolge, irretisce e catapulta nel pensiero profondo, con un viaggio della mente, che  rispolvera conoscenze, acquisisce nuovi modi di vedere, o convalida ciò che già sappiamo. Nessun altro strumento ci dà questa possibilità. Con la radio siamo portati ad ascoltare e, nel mentre, siamo sintonizzati anche con noi stessi. Un dialogo  interattivo restando focalizzati su un fatto, un personaggio, una storia, una questione politica. Una continua comparazione tra noi e ciò che viene detto. Uno scambio e un passaggio tra chi ascolta e chi parla.

E, poiché essere concentrati ad ascoltare, stanca, abbiamo la possibilità di passare a qualcosa di più leggero, girando ad altra stazione. Cambiando frequenza, cambiano voci, storie, idee, situazioni.

Possiamo riascoltare  i successi degli anni passati, un leit motiv che ci ha accompagnato durante la nostra giovinezza, una canzone che rievoca un periodo importante per noi. 

La domenica mattina, quando mi appresto a cucinare, posiziono lo smartphone sulla frequenza radio accanto ai fornelli e faccio partire la musica. Da quel momento sono rapita completamente dal ritmo, mentre comincio a prendere pentole e alimenti da preparare.

Con la radio apprezzo di più la parola e il suo valore, faccio una disamina di quelle più usate e quelle meno, comprese le motivazioni. E ritornano le espressioni di autori che hanno riferito a riguardo come L.Wittgenstein. 
E' uno strumento che arricchisce senza strombazzare, con voce lenta, suadente, penetrante.

Quando i miei mi vedono con gli auricolari ad ascoltare e non solo musica, mi guardano in modo strano. Il fatto di ascoltare e non essere presenti a loro, li disorienta. Ma non è un escludersi: in quel momento ascoltare è più importante del parlare. Dovremmo comprendere che senza la propensione ad ascoltare non si può essere nemmeno buoni oratori o attenti alle parole altrui.

La radio arricchisce la nostra fantasia, ci porta in giro a  esplorare, ci mette idee nuove in testa, ci fa assaporare l'ironia, la battuta, la barzelletta, la canzone, abbandonando per un po' l'attuale impero dell'immagine.

Con la radio siamo tenuti a pensare, immaginare, prevedere, ricordare, pronosticare, sforzandoci di scavare in noi.

E' una voce amica che arriva direttamente a noi senza intermediari e senza distrarci, dandoci i tempi giusti per assimilare.

La mia generazione era solita portarla in spiaggia e ascoltare i successi dell'estate, e rendere le giornate al mare allegre e spensierate. Poi per un po' siamo stati distratti dalla tecnologia, ma non ha perso il suo fascino se pensiamo che possiamo ascoltarla ovunque. 

Più che intrattenere la radio, oggi, può fornirci l'opportunità di riflettere ed educarci ai tempi e alle regole per intraprendere un buon dialogo.


In nome della cultura




 
La definizione di cultura, secondo l'enciclopedia Treccani, è:

"L'insieme delle cognizioni attraverso lo studio e l'esperienza, rielaborandole, peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé del proprio mondo".

La parola cultura, dal latino "colere", significa coltivare, "prendersi cura" e senza prima la cura di sé stessi non possiamo essere mediatori di cultura per gli altri. Attraverso un percorso di studi, si affina anche la conoscenza delle buone maniere, l'educazione, il modo di porgersi agli altri, sviluppando una certa sensibilità e maturando sentimenti e comportamenti secondo i modelli acquisiti. Il cambiamento avviene man mano, diventando padrone di contenuti che ci rinnovano.

Pensiamo sia così, ma a volte si sommano tanti altri aspetti che, molto spesso, capovolgono le situazioni. E non sempre lo studio è indice di nobiltà d'animo.

Per cui si può arrivare al paradosso, che magari la persona colta diventi anche più "stronza" per effetto di acquisita onnipotenza.
E sono diversi anni che mi imbatto in questi tipi. Molto spesso sono persone che ti sorridono, sembrano innocue, che partono col farti domande che richiederebbero lunghe risposte e subito ti accorgi che sono già salite sul pulpito, bruciando ogni tipo di comunicazione. Vanno all'attacco: mettono in chiaro che loro sono lì per la serie: "Qui comando io". Poi continuano con delle richieste dalle quali non puoi esimerti, poiché ti fanno capire che "giochi in casa loro" e devi "obbedire". Intanto sono privi di tatto, esercitano solo un potere in cui credono ciecamente e solo in quello.

Molti non hanno il senso dell'ospitalità, dell'accoglienza, sono scorretti e arroganti, pieni delle loro azioni in nome della "legalità", che per primi infrangono. La loro arroganza si gonfia dell'umiltà della preda, portando impresso nell'animo: "il potere logora chi non ce l'ha". Con queste premesse non oso immaginare quale cultura possano trasmettere.

Più che di potere parlerei di una zona comfort, per cui uscendo dal ruolo che incarnano sono solo delle nullità, per niente empatici, ma soffrono di individualismo camuffato da finta generosità. Non fanno un passo se non per un loro tornaconto, non agiscono se non per conseguire risultati ben calcolati. Quando vedo queste persone così "impostate", che occupano ruoli cosiddetti di cultura, rabbrividisco. La cultura non è una merce da dispensare, è un discorso continuo col prossimo e i suoi promotori devono conoscere il modo di relazionarsi agli altri.
Ne ho incontrati tanti: quelli che ti chiedono l'amicizia giusto per il tempo di approntare i loro piani e togliertela come se non si fossero mai rapportati con te; quelli che credono siano unici nel loro ruolo; quelli che non vogliono che la loro bolla di "potere" sia scalfita per niente al mondo; quelli che credono così tanto in sé stessi che sarebbe ingiusto se tu gli facessi capire che quel sé è supponente, meschino e invidioso. Ecco, tutte queste persone, invece di spacciarsi per portatori sani di cultura, devono partire dall'educazione. Ho visto persone addette ai lavori, spesso giovani e inesperti, che davanti a te autrice, che sei dentro a queste cose e ci vivi conoscendo ogni meandro della filiera editoriale, vogliono mostrarsi più esperti a tutti i costi. Anche i meno giovani peccano di presunzione e arroganza.

E continuano a credere di fare cultura "lobbizzando", escludendo, invadendo campi a loro sconosciuti, cercando non la cultura ma di organizzare i loro piani in base agli amici, alla cerchia, a chi non ti può dire di no, tirando gli altri per la giacca.

Sperano di fare colpo con il libro del momento, il personaggio che fa audience.

Per fare cultura basterebbe anche cominciare a parlare di questi aspetti infelici, una riflessione sulle modalità, una conversazione su una consuetudine errata che va rieducata, un testo che fa il caso nostro su cui sviluppare un lungo dibattito, una frase tratta dalla quotidianità o da un testo, tutto al fine di confrontarsi. La cultura è un dialogo continuo e bisogna sradicare ciò che di marcio è prima in noi. Ma soprattutto è dare voce agli altri tenendo a bada il nostro super ego sempre e smisuratamente in mostra.

La cultura serve ad acquisire una mente critica e non accomodarsi al conformismo, avere la capacità di capire a fondo le situazioni, i fatti e saper agire di conseguenza. Inizia sin da piccoli e non si interrompe mai. La cultura è anche la condizione interiore di voler apprendere sempre e mantenere gli abiti dell'alunno più che indossare quelli del maestro. Cultura è voglia di imparare, confrontarsi, crescere interiormente e far buon uso di ciò che si apprende, diffondendo, divulgando, rapportandosi agli altri. 






La boscaglia di fronte


  



Stamattina, mentre sorseggiavo il caffè, guardavo fuori al balcone, al confine di fronte con una ripa di collina con tanto di il prato, a lato la strada con lo scorrere delle auto. È una giornata luminosa, gli uccelli fanno uno schiamazzo infernale, dall'erba spuntano papaveri che ieri, alla stessa ora, non c'erano, sugli alberi, sempre di fronte, alcuni passeri litigano per un nido che solo stamattina ho potuto ammirare. Potrebbe essere una buona palestra mietere qualche ora al giorno, tagliare le frasche più ingombranti degli alberi, sistemare le siepi dando loro una forma e un ordine, così come una strigliatina agli uccelli che corrono in ogni direzione, seminando fieno, terreno e pietre.  Un'ora al giorno di lavoro, invece di andare a scolpire i muscoli in palestra, come accade,  perché si tratta di una fatica notevole. E perché no?

 Non si conosce l'arte della potatura e pulizia nei campi, non si ha forza necessaria, tutti attanagliati dal mal di schiena, il caldo, la fatica.

Siamo diventati come i biscotti frollini, ci rompiamo per niente, ma poi tutti a sudare in palestra affermando che muoversi fa bene. Preferiamo il personal trainer, correre sul tapis roulant mentre guardiamo un film o scimmiottiamo sullo smartphone e poi  un po' di pesi per migliorare la muscolatura.

 Qui ci sarebbe da scolpirsi bene se ritornassimo a muoverci come un tempo.

 Sono due mesi che attendo un boscaiolo per potare alberi e siepi in modo che non diventino boscaglia, occupando gran parte del terreno. Il primo contattato chiese tremila euro, roba da matti. Poi un nostro amico ne ha proposto un altro, che è venuto e ha fatto un pessimo lavoro: ha tagliato, come si suol dire, alla cieca, poi ha tirato dall'alto tutti i tronchi e cespugli catapultandoli nel cortile di casa, tirando addirittura i tronchi secchi sulle sottostanti bouganville, deformandole, ma ancora più assurdo  prendere i soldi, che, per averlo inviato l'amico, erano trecentocinquanta, e lasciare  tutto dove è caduto, dicendo che poi sarebbe ripassato a caricarlo. Intanto non è più venuto ma si è scoperto essere lo stesso che aveva chiesto i tremila euro. Ora dall'alto della muraglia scendono lunghi rami che, a confronto, le liane di Tarzan sono piccoli germogli. Non solo, ma si sono caricati di foglie nuove, di un verde intenso e così folti che, quando si taglieranno, verrà il magone a vedere tutta quella vegetazione  coprire il cortile di casa per poi finire nella spazzatura. 

L'avventura di chi deve tagliarli però continua, poiché, visto che non è più venuto chi doveva completare il lavoro, ne abbiamo trovato un altro. Per la verità molto competente e volenteroso. E avrebbe dovuto farlo se non avesse chiamato l'amico che ci aveva inviato il boscaiolo, assicurandoci che sarebbe venuto per portare a termine ciò che aveva lasciato in sospeso. Così abbiamo dovuto disdire con chi avevamo preso l'impegno, a malincuore, e attendiamo il boscaiolo di prima.

E allora in quel lasso di tempo che ho bevuto il caffè guardando il mio folto bosco intorno, già mi vedevo con la falce in mano, un rastrello, il foulard a contenere i capelli, mentre mi accingevo a pulire  secondo il mio punto di vista. Pensa, mi dico, consumeresti più di 500 calorie e puoi scrivere dopo per cinque ore. Sì, il tempo che restiamo seduti deve essere proporzionato a quello in cui ci muoviamo, altrimenti ci irrigidiamo. Allora ho trovato la soluzione, mi serve scala, falce, sacchi per metterci la sterpaglia dentro, una tuta  e scarpe da ginnastica, ed è come se andassi in palestra. Ma, solo dopo aver preso la decisione, il mio progetto abortisce: mi ritorna alla mente la mia paura per le lucertole.  E continuo a guardare l'erba che copre la mia visuale nell'attesa del tizio che verrà a pulire.

Verrà? E se non venisse?                            

L'erba canta

 



L’erba canta di Doris Lessing è un libro potente che lascia intatte nel tempo le sensazioni provate durante la sua lettura, e il fascino di un mondo lontano: l’Africa. Arrivano, a volte, intere scene, immagini e basta poco per ritornarci dentro. 

Aveva trent’anni l’autrice quando scrisse questo romanzo, pubblicato a Londra nel 1950. Era cresciuta in Rodesia, in Africa, ma era nata in Persia, e aveva trascorso laggiù gran parte della sua giovinezza. Ed è lì che è ambientato il romanzo. La storia ha per protagonisti Mary e Dick Turner. Mary è una ragazza felice, con un lavoro da segretaria e non aveva alcuna fretta per l’amore. Poi una sera ascoltò i pettegolezzi delle amiche sul suo conto, lamentando inopportuno alla sua età non aver ancora trovato marito. E lei, che non aveva mai fatto caso a questo bisogno, cominciò da quella sera a essere ansiosa. Per caso incontrò Dick al cinema e, dopo un breve periodo, lo sposò. Lo fece per solitudine e per zittire le malelingue.

 “Solitudine per lei, significava desiderare intensamente la compagnia degli altri. Ma non sapeva che solitudine può significare anche un impercettibile contrarsi dell’anima per mancanza di amicizia.”

Vanno a vivere nella fattoria di Dick, tra le piantagioni di cereali e tabacco. Mary era abituata a vivere in città e, sin dall’inizio del matrimonio, la vita alla fattoria la rende triste. Il luogo si presentava a lei inospitale e ostile.

Dick, al contrario, era un uomo silenzioso, a tratti assente e ben presto mostrò anche tutta la sua inettitudine nel trattare con la servitù e il prossimo. Ogni sforzo di Mary per abituarsi alla vita dei campi fallisce e si sente sempre più in una gabbia. Oltretutto le piantagioni intorno alla casa rappresentavano per lei il mistero di non sapere cosa accadesse là fuori, tra gli alti arbusti dove lavoravano gli indigeni. Decise di scoprirlo un giorno che Dick si ammalò e andò a visitare le terre. Scoprì che il marito non riusciva a gestire nemmeno le situazioni più semplici e i rapporti con gli schiavi e lei non aveva il potere di cambiarli. Eppure si era data un gran da fare per cambiare le cose. Ma non era servito a niente. La sua insofferenza la scaricava sulla servitù, in particolare su Moses, lo schiavo che la aiutava in casa. Solo ora capisce che non doveva accettare la vita che gli offriva Dick; aveva già vissuto cose orrende nel passato, come l’esperienza di una madre isterica e un padre alcolizzato. Lentamente Mary perde la sua voglia di vivere, il suo entusiasmo, le sue certezze, fino a implodere. Insostenibile il loro rapporto con i neri che non possono essere trattati alla stessa stregua dei bianchi. Dick crede in un atteggiamento docile, ma ciò porta al sopravvento degli indigeni sui padroni.

Il romanzo parte dalla fine, con la morte di Mary, per poi ripercorrere la storia dall’inizio. Due gli aspetti salienti del romanzo: la condizione femminile della protagonista e il razzismo. Sono questi i temi precorritori che anticipano le difficoltà dei rapporti tra razze e di genere, motivi che portano l’autrice a ottenere il Premio Nobel. Mary, dopo il matrimonio, comincia una lenta discesa, provando un malessere esistenziale da cui non si risolleva più. Dick la getta nella disperazione con il suo atteggiamento anticoloniale, il suo non “vedere” le cose, causandole un'apatia che si impadronirà di lei fino a condurla alla morte. L’autrice si pone a spettatrice di questo mondo violento. E pur dalla parte dei privilegi della gente bianca, dà voce ai soprusi, alla prevaricazione dei bianchi sui neri. Gli indigeni rappresentano pur sempre un pericolo, paura questa che si può domare solo trattandoli come bestie. Le crepe della colonizzazione lasciano intravedere le fragilità di rapporto tra le due razze. La Lessing rompe le regole, rende palese una condizione che non andava indagata, mostrandola.

È proprio Moses, lo schiavo di casa, a rompere le regole e a sovvertirle. E i bianchi non accettano che una di loro possa avere un rapporto umano con un nero. Un romanzo intenso, che induce a riflettere sulle decisioni, sui pregiudizi, sulle apparenze, sui codici della società.

 “Centrale alla ricerca della Lessing sembra essere la donna nel suo trovarsi faccia a faccia con gli eventi centrali della propria vita e il suo chiedersi, non senza dolore, che cosa nell’esistenza che conduce sia frutto di casualità e che cosa invece di scelta”.

All’inizio della storia, la morte di Mary è definita “un brutto affare” senza mai parlare di assassinio, come se tutti ne conoscessero il motivo.

L'erba canta, il titolo del romanzo, è tratto dal secondo verso  di West Land di T.S. Eliot, con cui Lessing fa riferimento al mondo annientato da due conflitti mondiali, mettendo a nudo le sue ferite insanabili e profonde, proprio come l'erba dei versi attende invano l'arrivo della pioggia.

La finestra sul cortile

 



Non è il titolo del film di Hitchcock del '54, ma la mia finestra nello studio che affaccia sul cortile di casa. Nel vecchio studio, a piano terra, dava sulla strada, ora, al secondo piano, dello stesso stabile, dà sul cortile interno. Una finestra di 90 cm per 150 cm che fa entrare, oltre alla luce, un piccolo pezzo di casa esterna con piante rampicanti. Quando la apro, cosa che faccio appena entro, ogni mattina, la brezza che giunge da fuori mi porta i profumi delle piante e i canti degli uccelli facendomi svegliare. La cosa più bella e insolita, il canto degli stormi mentre scrivo. Più che canto, un vocio infinito, simile più a un ciarlare che a un cinguettio o canto di uccelli. 

Spesso, quando alzo lo sguardo per controllare  e valutare lo scritto sul monitor, un'ombra copre la luce della finestra. Allora mi distraggo e osservo fuori, attirata dai tanti volatili che vanno nei loro nidi sulla muraglia di confine. Dal cemento emergono sfiatatoi circolari creati per mantenere asciutto il muro. 

La verità è che gli uccelli scelgono solo gli scoli asciutti, facendoci identificare quelli umidi. 

Spesso mi incanto a osservare come portano all'interno gli sterpi e i rametti per il nido ed è veramente impressionante il lavoro che fanno. Qualche ramoscello talvolta fuoriesce e subito lo inseriscono all'interno con piccoli movimenti del becco, in modo da non lasciare niente che penzoli. A vedere il muro, quando non sono al lavoro, non emerge niente che possa far pensare a dei nidi nel cemento. Fanno un lavoro pulito e, una volta sistemati i loro covi, si danno da fare per il cibo. A volte dai buchi, perfettamente circolari, emergono beccucci di passerotti in attesa di essere imboccati da madri svelte a rimpinzarli. La loro è una staffetta inesauribile: volano via dal nido, tempo alcuni minuti e ritornano carichi di cibo che calano nelle bocche affamate. Lo fanno con cautela e lentezza, contrariamente al loro volare forsennato di quando si allontanano per recuperare vermi e altro. Verso la fine del muro penzola un lungo groviglio di edere e rami che si calano giù dal terreno sovrastante. Quell'ammasso, che a giorni sarà tagliato, crea un po' di frescura e un riparo alle loro corse senza freno. Col vento di questi giorni i cespugli appesi al muro svolazzano facendo disperdere polvere, foglie  e pulviscolo per l'aria prima di planare al suolo. In fondo, vedo un ritaglio di collina a terrazze che degrada verso la strada. Lì, in alto, dei papaveri si ergono tra la folta erba come punte di colore e, in ultimo, uno sprazzo di cielo turchino. Mi sembra un quadro impressionistico, tra colori e punte, insetti, qualche geco dormiente e ancora lento nelle sue corse lungo i muri. Il silenzio è rotto, da questa parte di casa sempre in agitazione,  dalle madri che imboccano i figli. Ma quanto mangiano questi uccellini? 

Se poi c'è una pausa nel lavoro di trasporto, allora i giovani stormi adottano un altro registro: il loro vociare assume proprio una cadenza del parlare e io immagino le loro conversazioni. Cosa potranno dire? Che oggi, per esempio, è bel tempo ma ventilato, che qualche figlioletto avrà fatto indigestione con tutti quei vermi, che in giro c'è poca roba o forse sono stanchi del loro girovagare. Ma potrebbero essere conversazioni anche più civettuole! I momenti di silenzio ci sono, di solito, verso la seconda parte della giornata. Ma sebbene manchino le voci non altrettanto accade con i movimenti: talvolta ne vedo qualcuno in picchiata dall'alto verso il  suolo, uscire con una fretta pazzesca dal buco, altre volte farfalle come piccole aliene svettano lungo la muraglia, incuranti degli ospiti che si aggirano nei paraggi. Se proprio stanno in silenzio per qualche ora, vedo piccoli sciami di api, mosche e altri insetti librarsi nell'aria. La primavera è anche qui lungo il cemento di casa ma ricco di verde, giù e su. Immaginavo i nidi solo sugli alberi come una volta quando ero bambina nel terreno dei nonni. Anche gli uccelli si sono adattati ai cambiamenti ma credo più ancora alla nostra presenza. Vogliono stare in compagnia e sentirsi protetti, forse anche solo dai nostri sguardi, che ancora apprezzano le meraviglie del mondo naturale. Dimenticavo i piccioni che si appollaiano lungo la mensola di acciaio, alla sommità del muro, a mo' di tettoia che ripara dall' acqua e dai detriti. 

I piccioni arrivano in picchiata e si lucidano le penne, poi a piccoli passi si inoltrano nel cespuglio fino a volare via e di nuovo tornano. Quest'angolo di finestra mi offre uno spettacolo che spesso mi distrae. Mi ricorda che, mentre scrivo e leggo, fuori la vita continua e mi viene a trovare bussando con suoni, colori e profumi.

Oggi non ho potuto fare a meno di prenderla in seria considerazione.

Le filatrici

 


Una tela di grande interesse per me, incontrata al Museo del Prado, è “Le filatrici” o anche detta “La favola di Aracne” di Velasquez. Una tela alta 2 metri e 52 cm per 1 m e 67 del 1657. 
L’opera fu commissionata da Pedro de Arce, un nobile, guardia del Re. Nel 1744 la tela subisce un danno a Palazzo Reale, per cui oggi si trova al Museo del Prado.

La favola, già nelle Georgiche di Virgilio, fu resa famosa da Ovidio nel VI libro delle Metamorfosi. Racconta di una giovane tessitrice della Lidia, abilissima, tanto da indurre gli altri a credere di aver appreso l’arte direttamente dalla dea Atena. La ragazza portava avanti la tesi che fosse la dea ad aver imparato l'arte da lei. Ciò procurò le ire di Atena che la volle sfidare. In gioco la tessitura di un'opera che contenesse gli amori degli dei e loro colpe. Aracne portò a termine il lavoro con grande maestria, attirandosi però l’avversione della dea, che distrusse l'opera e colpì la ragazza. Aracne, avvilita, voleva suicidarsi, ma la dea intervenne in tempo per trasformarla in un ragno e quindi lasciarla tessere a vita. L’orgoglio l’aveva talmente accecata da essere punita.

In primo piano ci sono cinque filatrici tra cui spicca quella di destra ben illuminata, mentre sulla sinistra le si contrappone l'ultima accanto al drappo rosso. La donna al centro, posta in ombra, sembra fare da ponte tra le due parti della composizione. Sul fondo un grande arazzo riproduce il "Ratto di Europa" di Tiziano. Velasquez moltiplica gli spazi e le azioni con scene realistiche e mitologiche.

 Successivamente si diede una nuova interpretazione alla tela, dove le due scene vogliono simboleggiare in primo piano un laboratorio di filatura, in secondo piano il mito di Aracne. Sul fondo la donna con l’elmo rappresenta la dea, ma la dea è posta anche in primo piano, al centro, mentre si abbassa nell'accarezzare un gatto soriano. Il laboratorio presenta con realismo ciò che accade all’interno di un luogo di lavoro femminile, in questo caso la tessitura, tra le arti più antiche.

 Ci sono, in primo piano, chiari elementi di femminilità, nonostante le filatrici trascorrano gran parte delle loro giornate chine a lavorare, come le gambe scoperte e piedi scalzi: della vecchia davanti al filatoio, così come la ragazza di destra e il piede della dea camuffata emergere dall’ombra centrale. Il lavoro è esaltato dalla ragazza di destra con la camicia bianca che attira tutta la luce della tela come un occhio di bue. Gli attrezzi  e la scala, il disordine sul pavimento lasciano intendere i movimenti e la continuità del lavoro durante la giornata. La disposizione della massa sulla tela è ben proporzionata con tre punti focali che sono proprio: la filatrice a destra, la donna a sinistra, che apre il sipario come per invitare a entrare nella scena, e l’elemento prezioso dell’arazzo sul fondo in un duplice significato del lavoro svolto sulla tela. La scala a sinistra  e il varco a destra da cui entra il buio, fungono da divisione per i due piani.


Fino alla metà del '900 l'opera si intitolava“La fabbrica di arazzi di Santa Isabella di Madrid”, lasciando intendere per molto tempo che fosse solo una tela di genere. Ma a un’attenta analisi si percepisce che Velasquez ha posto in primo piano elementi secondari mentre sul fondo quelli primari. A questo bisogna aggiungere che, successivamente, alla tela sono stati aggiunti 50 centimetri nella parte superiore e 37 centimetri ai lati sfalsando lo spazio iniziale della tela e sminuendo così l’importanza della scena sullo sfondo, mostrandola più lontana e reputandola solo una semplice scena secondaria, mentre tutto il motivo dell’opera è concentrato proprio lì. 

 Davanti a tre damaschi di un arazzo si svolge la scena mitologica. Le protagoniste del mito: Atena e Aracne davanti alla tela oggetto di contesa tra le due. E proprio nell’arazzo, che si vuole tessuto da Aracne, c’è la mano di Tiziano, difatti riproduce il “Ratto di Europa” che Velasquez riporta sulla tela volendo conferire un confronto tra Tiziano e quello della dea stessa. Il dipinto fu a sua volta copiato da Rubens e, dal momento che Velasquez conosceva entrambe le versioni, ne volle aggiungere una terza inserendola nel suo dipinto. Sulla stessa tela troviamo quindi Tiziano, Rubens e Velasquez.

La donna con l'elmo è proprio la dea, mentre davanti alle due protagoniste ci sono tre donne che osservano la scena, di cui una di spalle.

La scena in primo piano rivela il mondo semplice che Velasquez era abituato a ritrarre, opponendo sullo sfondo una scena allegorica da cui emerge il mito. Non è solo un semplice filare, un richiamo all'antica arte femminile, così come femminili e sensuali sono le donne, ma si sovrappone alla semplicità degli elementi un senso di umiltà che manca sia alla dea che alla giovane: la prima per non comprendere la fatica quotidiana per portare a termine un lavoro (da qui l'inserimento nel primo piano); la seconda per la presunzione di essere la migliore. Velasquez non dipinge, narra attraverso la pittura, che resta per lui uno strumento straordinario per raccontare la vita nella sua complessità, fatta di quotidianità e di pensieri profondi.


Io e Padre Pio

                    



Sin da bambina sentivo parlare di Padre Pio. Prima dei dieci anni credevo fosse un monaco del territorio come ce n’erano tanti che frequentavano casa nostra per la questua. Se ne parlava come un fenomeno più che un frate. Mia nonna, quando decideva di raccontarmi una sua storia, prendeva la sedia di paglia, la metteva al centro della cucina, si aggiustava il foulard che raccoglieva i suoi capelli lunghi a chignon e poi, con i palmi delle mani appoggiati alle ginocchia, prendeva a dire i fatti.

Mi raccontava di un uomo buono, misericordioso, giusto, con un tono sommesso, come se stesse parlando dell’Innominato, per poi alzare lentamente la voce quando si avvicinava alla parte importante del racconto.

Io la guardavo negli occhi senza perdermi le sue espressioni facciali con cui accompagnava le parole. Poi alzava al cielo le mani quando, secondo lei, rivelava ciò che di soprannaturale accadeva per opera del frate.

Alla fine era stremata: la fatica gliela si leggeva sul volto, anche se sorridente, e negli occhi, nonostante le brillassero. Non capivo la sua emozione. Tutto sommato non era che un fatto accaduto ma mia nonna, al cospetto dell’estasi di Santa Teresa d’Avila di Gian Lorenzo Bernini, un’opera di tutto rispetto, era di gran lunga più immersa: un'invasata.

Io, per uscire dall’incantesimo, mi rifacevo con uno spuntino.

I fatti aumentavano nel tempo, così come vedevo sempre più spesso sue immagini in giro. Quando lo guardavo, mi faceva paura quell'aria afflitta, altre volte lo vedevo burbero, e temevo che emergesse da un momento all’altro dal ritratto davanti venendo verso di me ad accusarmi.

Molti erano i racconti sul suo conto relativi al suo rapporto con i fedeli e cominciai a preoccuparmi quando sentivo che redarguiva quelli che gli raccontavano le loro vite non proprio integerrime.

Nel tempo mi costruii l’idea di un frate superbo. Credevo si confrontasse solo con persone senza peccato, dopo i racconti di quelli che tornavano a casa avviliti dalle sue parole dure. 

Tra i fatti ascoltati da mia nonna ce n’era uno che non riuscivo a dimenticare. La storia era questa:

C’era una donna proveniente da una famiglia di malavitosi che un giorno decise di andare da Padre Pio. La sua famiglia era gravata da tali e tanti misfatti che, quando comprese di non poter aspettarsi più niente di peggio, decise di andare da Padre Pio.

Mia nonna, nel raccontare la storia, si aggiustava più volte sulla sedia, come se stesse sui carboni ardenti. Poi si ricomponeva e riprendeva a raccontare.

Continuò dicendo che quando arrivò al cospetto del Padre, questi la guardò in modo quasi minaccioso e, senza che essa avesse lamentato alcuna cosa, le ricordò di doversi comportare bene poiché era da un bel po’ che non faceva un bell’esame di coscienza. Potete immaginare la faccia di quella donna quando si sentì dire di essere una 'poco raccomandabile'. Le crollò il mondo addosso. Il colloquio finì lì poiché il Padre la liquidò così. Lei si alzò staccandosi dalla sedia con grande difficoltà. Poi, come a voler fare ammenda, gli elargì una grossa somma di denaro.

Il Padre, dopo averla guardata, sempre in modo torvo, le disse:

"Questi sono soldi che non posso accettare, sono intrisi di prepotenza e cattiveria, puoi portarteli, perché qui non sappiamo che farcene!"

La donna andò via amareggiata e delusa, senza capire come il Padre conoscesse i risvolti della sua famiglia e perché ce l’avesse con lei.  

Col tempo Padre Pio è diventato una presenza attiva. Lo vedevo in ogni luogo emergere da un dipinto, un’immagine, un oggetto, una raffigurazione. Il suo sguardo serioso e accigliato usciva ora da un ritratto in camera da letto, che al risveglio riceveva il primo sguardo; ora da un cartoncino  appoggiato in qualche angolo di salotto, da seguirti con gli occhi; altre volte da quadri religiosi, di quelli che si trovano nei conventi, posti in un cantuccio ma all’occorrenza ti ricordavi di lui e andavi a visitarlo.

 La sua chiaroveggenza e la fede lo ponevano quasi a oracolo: conosceva la vita di tutti. Da adulta lo osservavo incantata, ponendomi davanti all’immagine e parlandogli come se fosse stato mio amico. Ma mentre cercavo un dialogo che finiva puntualmente in un monologo, mi rendevo conto della mia stupidaggine. Allora cambiavo tono e cominciavo a raccontare i miei fatti come se lui ne fosse già a conoscenza e a chiedergli questo o quell’altro e perché mi guardasse come un generale dal pezzo di carta su cui era affisso invece di aiutarmi. E poi, quando mi esortavano ad andare in pellegrinaggio dalle sue parti, mi chiedevo a che pro se era al corrente già di tutto. Sarei andata solo per presentarmi a lui e avere una ramanzina per qualche situazione che non gli andava a genio?

Mi metteva una tale paura che più che un uomo di Chiesa era diventato per me un orco.

Ma è anche vero che ciascuno vede fuori di sé proprio ciò che prova dentro. La paura nasceva forse dal fatto che cercavo di sfuggirgli.

A scuola molti ragazzi portavano il suo nome e, ogni volta che facevo l’appello, uno di loro ci teneva a sottolineare che era Pio di Pietrelcina. Poi mi raccontavano il motivo per cui avessero il suo nome. Le storie avevano le sembianze di un romanzo d’appendice e, prima di arrivare alla fine, attraversavano varie situazioni drammatiche, facendoci scappare anche le lacrime. 

Un giorno un ragazzo, quando già il Padre era diventato Santo, dopo l’appello, si avvicinò e mi chiese di raccontare il motivo per cui portasse quel nome.  Non potei fare a meno di assecondare il suo desiderio. Sedette accanto a me in cattedra e, con una voce sotto tono, cominciò:

«Mia madre non poteva avere figli e in famiglia decisero di portarla da Padre Pio. Partirono in quattro in una giornata d’inverno. Non si faceva illusioni, pur assecondando sua madre e sua nonna che, in ultima analisi, dopo averle provate tutte, decretarono che c’era sempre una speranza con Padre Pio. 

In macchina mia madre stette male, un po’ per il mal d’auto, un po’ perché spaventata di andare da un frate a raccontare la sua odissea. Avvicinandosi al posto, le condizioni del tempo divennero impossibili. C’era una nebbia che non lasciava vedere a pochi metri, nonostante si andasse lentamente. Mia madre prese la cosa come un brutto presagio e divenne molto ansiosa. Mio padre, alla guida, cercava di rasserenarla ma invano. Voleva tornare indietro, diceva di non essere pronta a parlare a un frate dei fatti suoi.

Mia nonna e sua madre la tranquillizzavano, senza alcun risultato. L’agitazione raggiunse livelli molto alti tanto che mio padre stava per fermare l’auto. Così, girando bruscamente in una stazione di servizio e poi frenando per non sbattere in un muro davanti a loro, finirono nella corsia opposta contro un furgone in sosta. Furono trasportati all'ospedale.

Dei quattro mia madre riportò maggiori danni. Fu sedata per il pericolo di emorragie interne. Al momento di decidere per un eventuale intervento, il medico disse loro che però dovevano dare l’assenso poiché mia madre era incinta.

Frastornati e increduli e senza capire cosa fare, chiesero consiglio, spiegando la volontà di avere quel figlio a tutti i costi e il medico rispose: "Qui ci vuole solo un miracolo".

Mia madre non subì alcun intervento e tornò a casa dopo tre giorni.

Adesso che era incinta, temeva per il bambino e non si mosse più dal letto. Intanto io crescevo e pure tanto e, quando nacqui, arrivarono parenti da molto lontano come i Magi con i loro doni. Festeggiarono come non mai. 

Dopo qualche tempo mia madre volle andare al suo cospetto, e prima ancora che parlasse, il Padre rivolto a me, ancora neonato, mi disse: "Che hai combinato guagliò! Per poco tua madre non ci lasciava le penne!"

Mia madre lo guardò incapace di parlare. Quando si riprese, dallo choc lo ringraziò.

"Il merito non è mio ma viene dall’Alto!"

Da allora mia madre non ha avuto più paura di Padre Pio e sono iniziati i nostri periodici pellegrinaggi. Lei dice che oltre alla fede ci deve essere anche la gratitudine, poiché tutto accade per opera anche degli altri».

Il racconto del ragazzo in classe mi rese molto sensibile a questi discorsi di Padre Pio. Tornando a casa, sedetti sul lettino nella stanza di mio padre a guardare il bel dipinto di famiglia del frate: il suo viso pieno, gli occhi introspettivi sembravano di indagare nel mio animo. Per un po’ osservai, poi gli parlai: 

«Lo so che per te è difficile farti i fatti tuoi. Sei un frate! Anzi, mi correggo, ora sei un Santo. Ma mi spieghi come fai a conoscere la vita delle persone prima che vengano da te?»

Aspettavo una risposta. Ma più lo guardavo più temevo che non sarebbe arrivata. Poi mi parve dicesse: "Le risposte sono dentro di te!"

Ero io a parlarmi o lui attraverso di me?

Il lettino su cui sedevo era quello di mio padre che avrebbe subito un intervento importante. Capii il motivo per cui ero lì: mi ero affidata a lui. 

 Da allora Padre Pio è per me più di un santo.



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