L'estate e la voglia di leggere




   L'estate ci invita alla lettura sotto l'ombrellone, a bordo piscina, ai piedi di un albero in montagna, o lungo le rive di un fiume a valle. Il tempo libero deve essere ben speso e la lettura è un momento tutto nostro. Cosa leggere?
Non ci sono istruzioni da seguire, si procede per gusti, per interessi, per voglia di conoscere un autore, un libro acquistato per curiosità e  solo per sentito dire.
Già dalle prime pagine ci accorgiamo se fa per noi. Questo è un metodo infallibile per leggere con trasporto.
A volte la scelta cade su quello che dopo alcune pagine si rivela ben lontano dalle nostre aspettative. Il libro è un'avventura e scoprirlo strada facendo è molto meglio che conoscerne anzitempo il tutto.
Ci sono poi libri che possono interessare, fanno il nostro caso se solo li conoscessimo. La pubblicità serve a questo e spesso si crede che un libro molto pubblicizzato sia indice di buona lettura. Non sempre questo binomio dice il vero. E non mancano le delusioni in tal senso.  In questo blog parlo molto di libri e anche dei miei,  in particolare in questo periodo del mio ultimo romanzo "Nel mezzo del tempo" Graus Editore. E' la storia di una donna, un vecchio amore, una zia ingombrante, un marito inaspettato, un futuro da costruire. E ancora famiglie, incontri, progetti e speranze. Una storia nata percorrendo un sentiero quando ho rivisto in vecchi ricordi persone che nemmeno ricordavo più.
Ringrazio qui tutte quelle persone che, a loro insaputa,  hanno contribuito, in vari modi, a far nascere il romanzo. L'arte dell'incontro a volte è fondamentale nella scrittura e spesso sono gli altri a fornirci  gli elementi  per farne materia di scrittura. 
Una storia da poter leggere sulla sabbia o nella frescura del bosco e condividere con gli altri. 
Di solito non amo rileggere i miei libri, primo per essere molto critica con me stessa e trovare sempre qualcosa che non mi va e poi per ricordare ogni fase del lavoro svolto. Non mi piace rivivere le stesse emozioni di quando l'ho prodotto. 
Eppure questo romanzo voglio leggerlo di nuovo, come lettrice, per ricordare la carica che avevo quando l'ho scritto e chi l'ha letto ha raccontato di essersi trovato nella stesa condizione. Così mi sono ripromessa di farlo recandomi in uno dei luoghi descritti al suo interno, come  Santa Maria del Castello o la spiaggia di Marina di Vico e perché no, seduta in panchina alla Villetta o lungo i sentieri delle colline. E questo vale per me che sono l'autrice del romanzo e per il lettore che voglia avvicinarsi a questa storia immerso nella natura di cui tanto si parla all'interno, aspetto non secondario rispetto alla trama e ai personaggi.
 Margherita, Davide, Felicina, Andrea si dividono la scena, dove ognuno impara qualcosa dall'altro in una reazione a catena. Il tutto con l'ironia irrefrenabile di zia Felicina, persona saggia ed ermetica anche dietro un'apparente  allegria.
Una lettura leggera ma di approfondimento, d'amore nel suo valore universale e di scoperta per i luoghi che diventano essi stessi personaggi. Non mancano le sorprese, il mistero, l'attesa, la rivelazione. Il libro non vi lascerà soli, vi terrà compagnia per 179 pagine che scorreranno via veloci, arrivando all'ultima senza rendervene conto.


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Il basilico








Devo dire che ho una seconda vita, sì, quella nei sogni. Intendiamoci, una vita che devo sempre leggere e interpretare visto i simboli e i segni che essa mi manda. Questa notte ho sognato il basilico, sogno strano e controverso. Partecipavo a una festa in un paese dell’Italia centrale  e mentre tornavo in albergo mi sono addormentata nel retrobottega di un ristorante. Mi sono svegliata verso le cinque del mattino scossa dal rumore di  alcune casse di bottiglie che venivano sistemate. Nessuno si è accorto di me, per cui alla chetichella sono uscita  e proprio lì accanto c’era la hall dell’hotel dove soggiornavo. Alla proprietaria ho spiegato  quello che mi era accaduto e lei si è mostrata dolce e materna. Mi ha portato un caffè con biscotti su un tavolo in terrazza. Si è seduta accanto a me preoccupandosi di farmi bere e mangiare e nel frattempo mi coccolava come faceva mia madre quando ero ragazza. Pur sorpresa, mi lasciavo abbracciare mentre il mio sguardo andava giù, al mare e, cosa strana, in Umbria non poteva esserci il mare. Altra cosa strana, vedevo a pelo d’acqua del grande, enorme basilico di un verde brillante, come fosse stato in un solco di terra lungo tutta la mia visuale. Mai visto un basilico così rigoglioso e io chiedevo alla signora se vedeva quello che era sotto i miei occhi nell’acqua, ma lei non rispondeva, era presa dal coccolarmi. Gliel’ho chiesto per la seconda volta ma lei niente, non aveva cognizione di quello che le dicevo. Io ne ero incantata, soprattutto per quell’unione di colori. Così mi sono svegliata con un senso di freschezza e un profumo  sotto il naso come se mi trovassi a pranzo. Ho ripensato alla mia parmigiana di ieri, scomparsa subito, a giustificare il sogno. Ma poi mi sono riportata alla pianta del mio basilico all’inizio del viale di casa, a cui attingo per profumare i miei piatti ma le cui foglie non strappo io, ma gli altri che mi fanno la gentilezza di raccoglierlo visto che sono ai fornelli. Poi mi preoccupo del modo come recidono  le foglie, gesto importante per mantenere integra la pianta. E spero che lo  facciano dall’alto e non  lateralmente, modo questo che porta i rami a seccarsi. A questo punto mi sono ricordata di Lisabetta da Messina, la protagonista  di una novella tratta dal Decamerone di Boccaccio, la quinta della quarta giornata, dove si raccontano gli amori infelici. La povera Lisabetta era innamorata del garzone Lorenzo, al servizio dei suoi fratelli. I due si amavano segretamente. I fratelli, venuti a conoscenza del loro amore, decisero di uccidere il ragazzo dal momento che, se avesse sposato la sorella, sarebbe stata una vergogna per loro a causa del suo basso ceto sociale. E così in un’imboscata lo uccisero. Lorenzo apparve in sogno alla sua amata e la informò di quanto gli era accaduto. Lei si affrettò ad andare sul luogo dove era stato sepolto e avrebbe voluto portarlo via, ma non riuscendovi, gli tagliò solo la testa e la portò con sé. La avvolse in un drappo  e la sotterrò in un vaso dove vi piantò del basilico. Lo annaffiava tutti i giorni con le sue lacrime e  il basilico crebbe rigoglioso. I fratelli si insospettirono di tanto amore per un vaso di basilico e così glielo  portarono via scoprendo la testa di Lorenzo. Lisabetta dal dolore si ammalò e morì. I fratelli furono costretti a trasferirsi a Napoli per la vergogna. Come si può notare niente può contro la forza dell’amore, nemmeno le convenzioni sociali. Ricordo a suo tempo, quando lessi la novella, rimasi così male che non feci altro che pensarci per un bel po’ di tempo. Ed ero così scossa che la lessi più di una volta convinta di non aver capito bene. Ho collegato il motivo del sogno del basilico a ieri quando, annaffiando un vasetto piccolo sul davanzale, ho visto le foglie dal contorno secco e di un verde pallido. Chissà che in quegli attimi non ci sia stato un flash back su Lisabetta da Messina, piccolo e inconscio richiamo. Quando stamattina mi sono svegliata e mi sono affidata ai libri dei sogni sparsi per casa, il basilico proliferava da tutte le parti.  Certo è che ieri ho abbondato nello strappare basilico a tutta forza per i miei piatti. Sarà stato per questo?  E’ una pianta originaria dell’India, simbolo d’amore e di dolcezza e deriva il suo nome dal greco basilikon, da “basileus”, quindi pianta regale. Dalle nostre parti è “l’odore” principe in  cucina, usata per piatti tipici.  L’amore rende tutto immenso, anche una pianta di basilico che vive delle lacrime dell’amata. E sappiamo che Lisabetta viene ricordata ogni qualvolta strappiamo una foglia di basilico. Dovrebbe essere la pianta dell’amore a dimostrazione che senza questo ingrediente niente ha vita.

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Aspettando




   

Aspettare, oltre ad affinare la pazienza, è la condizione di noi umani. Tu hai fame, gli altri tardano. Tu vuoi uscire, gli altri sono impegnati. Tu devi lavorare, gli altri pretendono di essere accompagnati. Tu vuoi essere accompagnato, ma gli altri non possono. Questo ciò che accade nel quotidiano, mentre nel tempo diventa la condizione esistenziale. Così dipendiamo dal prossimo e l’attesa, molto spesso, racchiude anche la delusione. E attendiamo dal nulla risposte, dall’impossibile il reale, dal futuro i fatti. Mi riporta all’opera di Samuel Beckett, Aspettando Godot.  “Godot”, contiene la parola God, Dio in inglese, e pare voglia dire aspettando Dio. A un’analisi più attenta essa è anche formata da due vocaboli in lingua inglese: “go”, verbo andare e “dot”, punto, e quindi “non potersi muovere”. Ed è la condizione di Vladimir ed Estragon che aspettano Godot sotto un albero, in un luogo desolato. Giunge poi un ragazzo a dire loro che forse arriverà il giorno dopo. Il tempo passa, si avverte dalle foglie che cadono dall’albero, ma la situazione non cambia. Quanti di noi aspettano eventi, situazioni, mutamenti che non accadono mai. Il termine aspettare deriva da “aspicere”, guardare qualcosa che si avvicina, mentre attendere riporta più a uno stato di tensione per qualcosa di incerto. E così aspettando ci illudiamo che la vita ci venga incontro, ma gli eventi, pur manifestandosi all’esterno di noi, sono processi interiori. La realtà è trasformata dai nostri pensieri, dalle idee, dalla nostra volontà.  L’attesa è eterna se noi non spezziamo la catena, non facciamo quel cambiamento che desideriamo. Ognuno è mosso dai propri bisogni e desideri e partecipando pienamente alla vita, se  ne assume le responsabilità. E’ il trovarci da soli che ci fa paura e ci accompagna agli altri. Così diluiamo i nostri timori ponendoci in attesa, uno stato di apparente riflessione che assume poi le caratteristiche di impedimento a muoversi per non cadere nell’incerto. Con gli altri possiamo sempre attutire le debolezze e giustificarci, senza, è più difficile. 

Se decidi da solo, sei attore protagonista e il motore di questa avventura fino alla fine. Per quanto tempo possiamo agire in piena autonomia,
senza cadere nelle insidie che la vita ci tende col suo venirci addosso  quando meno ce lo aspettiamo? Pochissimo. Abbiamo
bisogno del gruppo per rafforzarci con l’approvazione degli altri. Solo allora ci muoviamo, altrimenti siamo tanti Didi e Gogo, i due amici vestiti da barboni in attesa di Godot. E nel frattempo cosa fanno? Si lamentano del caldo, del freddo, del ritardo… Chi si dà da fare non attende e non si lamenta, vive, affronta il quotidiano, rende protagonista ogni ora della sua vita. E bisogna lasciare fuori la paura che  sempre inficia la capacità di provarci, tentare per non arrendersi al progetto che fa di noi quello che vogliamo.


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Il gabbiano di via Nicotera


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Non si era mai visto un gabbiano aggirarsi per la città e fermarsi davanti a una pescheria. In questi giorni abbiamo imparato che più che volare un gabbiano vuole mangiare. E se vi aspettate che lo faccia a mare, vi sbagliate! Si mantiene a debita distanza ma non perde di vista l’amico che gli offre il pesce. Avevamo appreso la lezione da Jonathan Livingston, il gabbiano del romanzo di Richard Bach. Nella storia si allontana dallo stormo e va per la sua strada. Il suo sogno è la ricerca del volo perfetto. Gli altri volavano per mangiare, Jonathan  per sentirsi libero. E aveva messo a tutti il desiderio di avere le ali per volare, per accarezzare i propri sogni, alla ricerca di una strada interiore.
Il gabbiano di via Nicotera si posa sul tetto delle auto,  forse non conosce la libertà di Jonathan, o forse è una lezione già appresa, ma di sicuro conosce chi gli fa del bene, chi gli fornisce da mangiare. E sa anche attendere prima di ricevere il buon boccone affinando la pazienza. A questo punto si potrebbe riscrivere il racconto e dire che mentre gli altri pescano a mare, il nostro gabbiano ha capito che l’uomo può fare meglio delle sue ali. Che sia un gabbiano volto all’accidia? O sta sperimentando la sua perfezione attraverso l’amicizia? O che con la sua bellezza possa ricavare più della fatica in giornate di volo per mare? E chi ci dice che non si sia stancato di un mare e un’aria dove il cibo non è più genuino come una volta?
Il gabbiano, lui e il mare in un rapporto di amore e inquietudine. Si vedono stormi planare sulla preda e infilarsi nell’acqua per uscirne  col becco pieno. Poi ritornano nei loro covi sulle rocce a picco dove elevano i loro gemiti. Danno musica al silenzio del cielo e,  insieme al suono del rincorrersi delle onde, raccontano le loro avventure nelle giornate marine. Il gabbiano simbolo di libertà  per le sue ali sempre tese in alto quasi a incontrare le nuvole e il sole, così ampie, eleganti, mentre sorvola l’etere che  riporta i racconti e i miti di ogni terra. Il gabbiano, come Jonathan, metafora dell’uomo nel suo vagare per la vita, alla ricerca della sua strada. Il mare, il suo sostentamento, il cielo, la sua libertà, la terra, la sua casa. Ma Jonathan non si accontenta di volare solo per il cibo. Aveva necessità di scoprire il volo, la strada, quella perfetta e per questo lasciò lo stormo.Se proprio vuoi studiare, studia la pappatoria e il modo di procurartela! ‘Sta faccenda del volo è bella e buona, ma mica puoi sfamarti con una planata, dico bene? Non scordarti, figliolo, che si vola per mangiare.” Così gli dice il padre per ricondurlo al gruppo. Jonathan cerca la strada maestra che lo porti in paradiso e con i suoi voli aveva capito che non sono gli occhi a vedere ma l’intelletto. Il nostro Jonathan vicano è andato oltre: non vola né per la pappatoria, né per conoscere, il cibo glielo offrono e lui non batte ciglio, ha preso la strada della terra. Un gabbiano controcorrente! Ponendosi sul tetto delle auto in sosta, in tutta la sua bellezza, invoglia l’amico a offrirgli il pasto. Come se gli rendesse un dono per il suo piumaggio bianco, il becco giallo, in quella posizione regale  che non passa inosservata. Perché andare a tuffarsi nelle onde se l’uomo gli agevola il compito? Il nostro Jonathan è al passo con i tempi. Fino a quando tutti si comportano come tutti, nulla si imparerà.

E se il gabbiano vorrà invecchiare su quel tetto di auto? Appollaiato, raccolto, con gli occhietti quasi a chiudersi, fedele fino alla fine al suo boccone?
Chissà! Di sicuro un gabbiano è sacro e nessuno mai lo manderà via. Gli uccelli rappresentano il punto di unione tra l’uomo e la natura. Disfarsene sarebbe tremendo.  Come accade ne La ballata del vecchio marinaio di William Wordsworth: una tempesta si abbatte sulla nave ma la presenza di un albatros mette di buon umore i marinai. Inspiegabilmente il capitano uccide quell’albatros, quanto basta per innescare una maledizione. Il vecchio marinaio si era permesso di spezzare la sottile unione dell’uomo alla natura e da qui la tragedia. Jonathan farà la sua esperienza, ma anche gli uomini impareranno da lui. E se di sua iniziativa non tornerà più, starà altrove a imparare la vita.


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