Sul muretto di fronte un bambino
ha tra le mani un telefonino ed è tutto preso dal gioco, gli occhi fissi al
display come spilli. Osservo lo spazio intorno a lui, gli alberi, la siepe, le
aiuole e non capisco come faccia a non rendersene conto, a non vedere. Il suo
collo è completamente sporto in avanti. E pensare a tutta la fatica dell’uomo a
mettersi in piedi, in posizione eretta. Ma non è colpa sua, è nato nell’era tecnologica,
dei bottoni da pigiare e dell’interazione con le macchine. Davanti a questa
scena mi ritorna alla mente quello che io riuscivo a fare in pochi metri di
cortile, da bambina. Non ho mai più provato una libertà come quella di giocare all’aria
aperta. Si scendeva tutti a un’ora prestabilita e compatibile con gli orari del
condominio e subito la scelta cadeva sul gioco della “campana”, detto anche della
“settimana”. Si partiva col disegnare le caselle al centro del viale e intanto
che si tracciava la sagoma, gli altri si
intrattenevano a contare le catenelle, a
far rimbalzare la pallina, a mostrare le
figurine. Appena pronti, partiva la conta. Era un gioco di abilità, di
equilibrio, controllo del piede a non sostare sulle linee, di ginnastica, facendo
attenzione a non infrangere le regole. Gli occhi di tutti seguivano il piede del
giocatore, con la speranza che finisse in fallo per dare ad altri la
possibilità di giocare. Noi ragazze mettevamo i pantaloni per non scoprirci le
gambe nei salti. Quando accadeva di indossarla, evitavamo passi lunghi, ci si
muoveva come anchilosate e per questo motivo, quasi sempre, il nostro gioco
finiva presto. Il tempo passava senza accorgercene. Si scendeva col sole e si
saliva col buio, soprattutto in estate. I giochi erano tanti: la palla
avvelenata, il nascondino, un due tre stella… Non importava quello che facevamo,
ma come stavamo insieme. Si imparava a litigare, a rispettare l’altro, a
prendere posizione all’interno del gruppo, ad aiutare i compagni. Il gioco come
momento educativo e formativo. Quei rumori di palloni che balzavano, gessi che
tracciavano, reti che venivano sistemate erano attività che impegnavano molto e
non davano tregua, erano sottofondi alle nostre risa e chiacchiere. C’era una
collaborazione e una complicità che fuori dal gioco non abbiamo mai avuto. Si
formavano gruppetti a raccontare la giornata, i compiti, gli episodi scolastici. Era così che si cresceva insieme. C’era
sempre tanto da dire e da confrontarci. Oggi un freddo schermo cattura
l’attenzione facendo allontanare dalla realtà. E’ finito il tempo di vivere
all’aria aperta, di guardarsi intorno e scoprire la natura. Di generazione in
generazione i giochi non sono diventati altro che chiudersi in un piccolo
spazio, laddove prima si tornava a casa solo per dormire. I nonni avevano
giochi ancora più semplici dei nostri. Molti raccontano dello “strummolo”, il
gioco della trottola e passavano ore in mezza alla strada a rincorrere il pezzo
di legno che girava tirando una funicella. Altri creavano il loro trabiccolo
fatto con assi di legno e ruote di ferro per prendere una discesa e correre
all’impazzata. Era l’antenato del monopattino. Spesso camminavano tenendo la
tavoletta in mano tirata da una cordicella mentre chiacchieravano come adulti
lungo la strada. E come non menzionare i giochi con la corda, la staffetta, la
cavallina, le biglie…Giocare è sperimentare la vita, conoscere quello che si ha
intorno. Il gioco, per il pedagogista tedesco Friederich Froebel, è
l’equivalente lavoro degli adulti. Con esso il bambino crea, impara a
rapportarsi. Giocare non è un lusso ma un bisogno, così come prevede anche la
Convenzione dei diritti del bambino. Oggi i piccoli ricevono solo doni tecnologici.
Con un telefonino giocano anche a letto, magari guardando il display sotto le
coperte, ancora con gli occhi appiccicati. Il gioco è vita, per i piccoli come
per i grandi. Quando sono ritornata al bambino sul muretto, era ancora lì a
smanettare convulsamente a telefono. Che tristezza per i genitori che si pongono come unico
obiettivo quello di regalare sempre l’ultimo modello alla moda ai figli, un benessere irrinunciabile. Con telefonino al
seguito possono controllarlo, chiamandolo mille volte al giorno, avere in tempo
reale sue notizie e posizione, e fornirlo di uno strumento, secondo loro, con
cui potersi difendere. Esprimono così le
loro paure e loro angosce che trasferiscono ai figli. Questi, adeguandosi, giungono a paradossi, come quello di comunicare
col telefonino anche da una stanza all’altra. Questo non è gioco, ma un grande
fratello che aleggia tra di noi, incrementando il nostro senso
di inadeguatezza. Il gioco rendeva autonomi e il bambino si sperimentava, mentre oggi la tecnologia li rende dipendenti.
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