Vi è mai capitato di osservare
come le persone hanno cura delle loro cose? Da questa rilevazione emergono
elementi per comprendere quanto amore una persona porta dentro. Questa parola,
di cui ci riempiamo la bocca, non è un carico di baci o di abbracci, ma una luce
che illumina la vita. L’amore che mettiamo nel prenderci cura di una piantina
sarà la stessa che dispensiamo al nostro cucciolo o alla persona amata. Conosco
persone che fanno appassire ogni cosa passi sotto mano: gli oggetti come le
persone. Mantenere pulita la casa, riordinare cassetti, far sbocciare un
rametto che sembrava avvizzito, curare un figlio aiutandolo a crescere, dare
una mano a un amico, sono azioni che possono apparire molto dissimili tra loro
ma che hanno tutte la stessa fonte: prendersi cura che è l’opposto di dire “me ne frego”. Di solito facciamo una selezione
delle cose di cui occuparci e quelle di
cui fregarcene, e anche senza distinzione netta, ci interessiamo solo di quello
che ci porta un tornaconto. Se il nostro interruttore è posto su “on”, questa
selezione non potrà mai esistere e mai ci freghiamo di niente, così come se
siamo in posizione “off”, in qualsiasi circostanza non siamo amorevoli. E’ un “modus
vivendi” che ci prende completamente. Definisce il nostro essere, caratterizza
il bene di cui siamo forniti. C’era un uomo, quando ero ragazza, che non lavava
mai il suo cane, nemmeno se si rotolava nel fango per spulciarsi. A vederlo
quel cane faceva male: spelacchiato, zoppicante, un occhio semiaperto, lento
nell’incedere, con lo sguardo assente. Il suo padrone esigeva, però, che accorresse
sempre al suo richiamo. E il cane correva. Si catapultava a casa solo a sentire il
suo fischio. Ma la sua dedizione non era corrisposta. Il padrone continuò a
trattarlo senza prendersi cura di lui. Ma a pensarci bene aveva lo stesso
atteggiamento per la sua auto. Se il finestrino cadeva, lui inseriva un
tappetto all’interno, ma non lo aggiustava. Con la casa faceva allo stesso modo,
lasciandola nell’incuria totale. Tutto quello che aveva era in uno stato
pietoso. Solo col tempo ho capito la sua aridità, il motivo per cui vivesse da
solo, come mai nessuno andasse a trovarlo, ammantandosi di un alone di mistero
per il suo distacco dal mondo. Lo stesso valeva per il suo campicello: quattro
piante stecchite che non potava, non dissodava né metteva in ordine i solchi. La
desolazione avvolgeva tutte le cose intorno a lui. Credo che in quell’uomo la
luce fosse del tutto spenta. Al contrario conosco persone che illuminano
intorno tutto quello che capita sotto mano: hanno attenzioni per se stessi come
per la vicina di casa, il conoscente che incontrano tutte le mattine, il gattino
entrato nel loro cancello e qualsiasi altra cosa che irrompa nella loro vita.
Irradiano una luce con la quale accendono, si occupano e si preoccupano del
prossimo, delle persone vicine, intorno e dappertutto. Non è questione di tempo
per fare le cose, ma di atteggiamento, di predisposizione, di indole, di vita
che si è disposti a vivere e a dare. Crediamo che dando luce a tutte le cose
perdiamo la nostra, ma chi dona luce viene a sua volta illuminato. Molti vanno
a risparmio, si limitano, non agiscono, non si impegnano, non producono, non
sono stimolati e se si chiede loro il
motivo di questa apatia, rispondono che non vale la pena sbattersi per il
mondo, che tanto ognuno pensa per sé, che la vita è breve e del “doman non c’è certezza” come diceva Lorenzo il Magnifico. E’ questa la
filosofia del “me ne frego”, “non è un mio problema, che siano gli altri a
pensarci”. Quando fate amicizia, rendetevi conto delle persone, quanta cura
hanno per la loro vita, quanta ne mettono nelle cose, controllate i loro
giardini se sono curati, se lavano le loro auto, se si occupano dei bambini, se
giocano con loro, se si preoccupano, se aggiustano una sedia, un tetto, come si
comportano con se stessi, da questo capirete la quantità di luce che emettono.
E se per caso risultassero “insolventi con l’Enel” e quindi messi al buio, fate qualcosa
per loro. In qualche ganglio della loro vita si annida un corto circuito che ha
fatto perdere loro l’illuminazione. Sono persone demotivate, cosiddetti “santi
che non fanno miracoli”, perché hanno perso quella luce, forse per averne data
tanta senza riceverne, per non credere
che la gioia di vivere possa essere contagiosa. Non credono più nel
miracolo della vita, nella sua bellezza, e diventano da rose a cactus nel
deserto. Queste persone fanno terra bruciata intorno, fanno in modo che gli
altri le tengano alla larga, e continuano così a vivere con la convinzione di
bastare a se stessi. Ma quale vita si può condurre se non si condividono con
gli altri le febbri e i collassi che la sua luce produce? Quando abbiamo cura
della vita, avvengono miracoli come quando coltiviamo un campo rimasto incolto
per anni. Sulle prime non si sa da dove cominciare o cosa fare. Poi
basta rivoltare le zolle, la fatica più dura, per capire che il grosso è fatto
e si può anche seminare. Dopo, quando mangiamo i frutti del lavoro svolto, non
ricorderemo più la fatica fatta per condurre il campo a quei risultati, ma il
piacere di mangiare tante cose buone. Leggevo le pagine di un libro dove una
donna aveva fatto della sua casa, semplice e umile, una reggia di bellezza e di
comodità, la stessa cura che aveva per
le persone intorno. Leggendo queste pagine ho percepito che è quello il modo di
rendere amore verso ogni cosa, non ce n’è un altro o uno diverso per ogni
azione. L’amore che mettiamo nell’annaffiare i fiori la mattina sarà lo stesso
che doniamo alla persona amata, all’amica, alla mamma, anche se a noi sembrano
tanti aspetti diversi l’uno dall’altro e che teniamo in una scala di valori dal
più al meno importante. L’amore è quella forza, impegno che profondiamo nelle
nostre azioni, l’interesse che abbiamo per la vita che scorre accanto,
l’educazione e il rispetto reciproco che ci doniamo. Mi giungono, a tale
proposito, i versi di The Waste Land, La
terra desolata del 1922 di Thomas Stearns Eliot, uno dei massimi poeti del
Novecento europeo e americano, personalità di spicco del modernismo, per quel
senso di insoddisfazione da cui siamo afflitti nel mondo moderno e che fa
spegnere quella luce di cui siamo portatori. Il poemetto traccia la crisi della
cultura occidentale come perdita della fertilità naturale, e l’autore formula
un itinerario per uscirne. Di solito, afferma, a una speranza frustrata, un
desiderio insoddisfatto, al mondo che appare arido, segue un momento interiore,
un ascolto che richiede anche un cambio di registro. Secondo l’autore: "E’ questo il modo in cui finisce il mondo/
non già con uno schianto/ ma con un piagnucolio”, un’insoddisfazione
perenne che ci allontana e ci isola, e dove mancanza di fede e spiritualità
inaridiscono le esperienze. La nostra luce non ha una batteria autonoma ma
siamo intercollegati: l’uno fornisce energia all’altro, se lo dimentichiamo, se
ci illudiamo di bastare a noi stessi, di essere tanti mondi distanti l’uno
dall’altro anni luce, la nostra esistenza
diventa arida e vuota.
Commenta...