Un’orchestra di voci e suoni per gli auguri



Stamattina mi mancano tanto gli auguri affettuosi di mia madre, di mia nonna, di mia zia Tonia e  di mio nonno. I loro auguri erano i migliori mai avuti.
Mia nonna mi faceva gli auguri portandomi la colazione a letto, comprandomi un vestito nuovo, andando a passeggio con lei, dolci e  pranzo speciale. Si ricordava chi mi faceva gli auguri e chi mancava, come se fossi stata un’adulta più che una bambina e cominciava a brontolare chiedendosene il motivo. Mi manca il suo passo mentre saliva le scale con un vassoio pieno di ogni bene facendo tintinnare il servizio buono di tazze, piattini e bicchieri. Cosa non c’era su quel vassoio. Latte appena munto, pane con miele, dolce, frutta tagliata e secca, sfogliatella. In un angolo del vassoio appoggiava sempre un biglietto imbustato con su rose giganti e dietro la scritta.” Buon Onomastico alla mia Filomena dalla nonna e dal nonno”. Mi chiedevo se ce ne fosse bisogno visto che lei era lì con me e mi stava dimostrando quello che aveva segnato a penna. Ma era fatta così. Senza biglietto, per lei, non c’era festeggiamento. Da qualche parte ne ho ancora, con quelle rose enormi di vari colori e forme. Si sedeva con me dopo aver aperto le finestre della stanza e mi cominciava a raccontare la giornata di lavoro svolto. Mangiavamo insieme, dando ospitalità anche ai cani che entravano dietro di lei. Ero una principessa nel letto matrimoniale, alto da terra più di un metro, con 4 comodi materassi. Mi diceva auguri cantando e schioccandomi due baci sulle guance come due panettoni. Lo schiocco mi rombava nelle orecchie per mezza giornata. Lì sedute facevamo festa, mangiando, ridendo, cantando e giocherellando con i cani che la accompagnavano sempre.  Sento ancora il profumo della sua pelle, il modo di porgere le labbra, come mi stringeva. Quando non ne potevo più, mi tiravo sotto il lenzuolo per un altro riposino. Lei socchiudeva gli scuri delle finestre e mi diceva di stare ancora un po’ mentre si lavava e vestiva. Poi sarebbe venuta a fare altrettanto con me per uscire. Andavamo a prendere gli auguri altrove e a darne. Il nonno era meno plateale, più sobrio e silenzioso. Ma quando saliva, prendeva il mio viso con le sue mani enormi e piene di ferite e mi dava due baci affettuosi. Poi mi chiedeva se volevo scendere e io mi tuffavo tra le sue braccia mentre mi stringeva forte. L’unica persona che mi faceva sentire su una torre. Stretta dal suo abbraccio sarei andata alla fine del mondo. Giù in cucina mi metteva seduta accanto al tavolo e lo osservavo mentre faceva colazione. Era la volta di pane e pomodorini con origano, olio e sale, pezzi di formaggio, marmellata e fette biscottate, latte e dolci. Ovviamente piluccavo, avendo già fatto colazione, giocavo con i cani e da quel momento il giorno era mio. Il nonno cucinava per me dopo aver sentito le mie pretese. Già il fatto che cucinasse era una festa. Nonna non era alla sua altezza in cucina ed era un privilegio averlo ai fornelli. Per l’occasione non mancava il pollo ruspante, pasta imbottita e tante cose che non ce la farei a ricordare. Il suo bene lo dispensava in ogni sua azione ed io lo sentivo attraverso la fiducia che mi dava, l’essere orgoglioso di me, il proteggermi con fatti e parole e dandomi sempre il suo sorriso. Un uomo così grande e così buono.
Gli auguri di mia madre erano rumorosi. Partiva col portarmi il caffè a letto, con le sue strofe di canzoni o indovinelli e poesie, conosciute a memoria e che, immancabilmente, mettendo la testa fuori dal cuscino, mi facevano ridere e aprivo gli occhi. Poi la aiutavo a declamare la poesia o a cantare la canzone e quello che mi faceva morire era che, quando mi baciava quasi mi soffocava. Io a dire basta e  lei a rispondere: “Ma chi ti darà più i miei baci? Vuoi mettere il mio affetto? Nemmeno i figli lo faranno, solo la mamma, solo la mamma!” Su quel solo la mamma insisteva, e ci faceva un poema, ricamava parole, portava esempi, modi di dire, fatti e io la ascoltavo come Dante con Virgilio. Per quella giornata le attenzioni erano tante. Si arrabbiava se non mangiavo le cose che proponeva, poi mi vedeva sempre pallida e mi rimpinzava come un uovo. Per la giornata ero dispensata dalle faccende di casa, potevo uscire, accompagnata da lei, avevo un regalo e un pranzo d’onore. Gli onomastici più belli sono stati così e non li ricordo per l’abbondanza quanto per l’affetto vero, forse un affetto come si dava una volta che molti credono eccessivo e cerimonioso, invece era vero e sentito. Oggi, nelle nostre fughe, anche l’affetto è dimezzato. La formalità è diventata essenziale, ridotta, tutti si limitano al pensiero. Forse nei cambi di generazioni si perdono azioni che valevano molto. Mia zia Tonia, per esempio, quando era in vita, mi telefonava ad ogni onomastico anche quando era ammalata e avrei dovuto farle io visita. Mi manifestava il suo affetto, la sua stima, la sua felicità nell’avere questa nipote.  Mi diceva sempre: ”Mi basta sentire che tu stia bene. Riguardati e pensa alla tua vita che nessuno pensa per te. Sono felice di chiamarti e se non lo faccio sto male!” Questo era amore, quello che si prova e si dimostra senza fare conti di alcun genere. Lei mi ha insegnato questo: che il bene non è razionale e se vuoi bene agisci sempre per primo. Tutti dovremmo sperimentare questo. E poi una telefonata sempre gioiosa con sorriso e parole di conforto quando era lei ad averne bisogno. Mi ha insegnato che mentre doniamo agli altri traiamo il nostro conforto, nel dare, abbiamo, nell’amare, riceviamo, nell’esserci, ci siamo. Quattro figure che hanno dato luce alla mia vita. Stamattina, appena mi sono svegliata, non sapevo con chi mi trovavo, se tra le poesie di mamma e le sue prediche o le tenerezze di mia nonna, se tra le braccia forti di mio nonno o con mia zia che mi raccontava, tra una risata e l’altra, le storie di vita. Quando hai un’orchestra  di voci e suoni che nuotano nella mente, come fai a non aprire gli occhi consapevole che sia un giorno buono?

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