Ieri, sono arrivata a Napoli dopo
pranzo e ho parcheggiato l’auto di fronte all’Università a Via Porta di Massa.
Ero ancora frastornata dalla velocità sostenuta in autostrada e la musica che mi
accompagnava. Ho dato le chiavi al parcheggiatore, che dico, al maggiordomo, che con tanto di educazione, tatto, ha atteso
che mi sistemassi prima di prendere l’auto in consegna. Con quello che si
spende mi sarei aspettata anche un caffè e forse qualcosa di buono, come diceva
la signora in giallo ad Ambrogio.
Quando ho mosso i primi passi
verso l’esterno del garage, la luce mi ha indotto a inforcare gli occhiali. A
Milano avrei dovuto mettere quelli per la vista, qui devo proteggere gli occhi
dalla luce: ce n’è troppa!
Il primo impatto l’ho avuto con
la struttura universitaria. E mentre i tacchi si infilavano negli spazi dei
lastroni di basalto, ho provato ad alzare gli occhi. Quanti giorni passati là
dentro, tra i vari piani, dipartimenti, professori, libri, amici. Puntando a una
delle finestre che va verso Via Marina, ho ricordato i miei affanni a salire le
scale a piedi per paura di restare nell’ascensore. Allora mi fermavo a quel punto
e guardavo giù i passanti dall’alto, mentre il cuore batteva all’impazzata per
l’esame più che per la salita. Passando davanti all’ingresso, ho sbirciato
dentro: ragazzi con volti pallidi, alcuni tesi, con i libri in mano, gruppetti
che si muovevano verso l’esterno, qualche professore che usciva, alcuni a
parlottare di esami sostenuti o di dispense, di tesi. Mi sono emozionata a pensare ai sacrifici, ai pianti, alle ansie,
ai caffè, ai mattini freddi quando arrivavo a Napoli e il sole ancora non era
spuntato e davanti all’ingresso dell’Università c’ero solo io e qualche
piccione… Ora i venditori ambulanti sul lato sinistro danno una ventata
orientaleggiante e la strada sa di spezie, di caffè, di polvere e di olezzo dei
contenitori della spazzatura. Il cielo di Napoli lo conosco dalle aule
dell’Università. La più bella vista mi è apparsa durante gli esami. Alcune aule
avevano vetrate ampie e io guardavo fuori cercando tra l’azzurro e i tetti dei
palazzi, le antenne e i raggi del sole, le parole adatte. Il sole mi metteva un
ardire addosso facendomi trovare le parole giuste e ricordare i passi più difficili.
E quando ormai capivo che l’esame andava a buon fine, mi gonfiavo di sorrisi, distogliendo
lo sguardo dalle nuvole o quell’aria incipriata ancora di sonno se di mattina, o
dai colori caldi se nei pomeriggi d’estate. Dopo avvertivo un senso di libertà,
scaricando lentamente la tensione e avvertendo tutta la stanchezza accumulata.
Appena giù all’ingresso, pensavo che portare a compimento un esame era meglio
di qualsiasi droga. Non c’è adrenalina più sana. E guardavo il cielo, lo stesso
da cui avevo tratto forza mentre parlavo. Solo allora mi rendevo conto delle
condizioni atmosferiche, di poter correre vicino al mare, di festeggiare anche
solo andandomene in giro a perdere tempo per i negozi. E invece mi incamminavo subito
per tornare a casa. Il cielo di Napoli ha accompagnato i miei studi. L’ho visto
ridente e luminoso, con pioggia battente, col vento a sventolare il bucato
steso sui palazzi, le antenne a muoversi, foglie alzarsi a cumuli. E puntavo al
cielo ogni volta che mi sedevo davanti a un professore a conferire: avevo
bisogno di un punto su cui appoggiare gli occhi e la memoria e parlare senza
guardare l’interlocutore, un modo personale di riordinare il discorso.
Guardando le nuvole emergevano i personaggi, a uno a uno, come se li
risvegliassi da un lungo sonno chiamandoli all’appello, o i concetti. Ma in
quei momenti non pensavo solo a loro, avevo la possibilità, come un percorso
mentale alternativo a quanto accadeva, di ammirare i mille colori che coprivano
il cielo lasciando sempre qualcosa di nostalgico. Il cielo sotto il quale si
vive ha sempre un colore intenso. Ho conosciuto le sfumature delle giornate
dalle ombre e dalle luci che apparivano o sparivano sui palazzi. Napoli, un
Caravaggio, dove l’ombra non è altro che la voce di chi Napoli la vive e la
respira tutti i giorni. Davanti alle librerie tante tesi in vetrina e sulle
ante dei negozi, tutte in fila; e poi
subito dopo vetrine con pizze, pizzette, brioche con profumo di mozzarella e
pomodoro misto a carta e colla delle stampe. Al semaforo un folto gruppo pronto
per attraversare. Napoli impara ad aspettare. Dalla mia posizione vedevo le
auto sfrecciare e la gente ferma sulle strisce, dietro di me ragazzi a
raccontarsi. Napoli è questa: una grande vecchia città che pullula di vita in
ogni antro, in ogni androne o lungo le strada, nei vicoli, al semaforo, nei
bar. E’ ricca di voci, di suoni, sorniona, pigra ma anche frenetica, sveglia,
pronta, rapida, sa cogliere l’attimo. La vedi negli occhi del tabaccaio uscito
a prendere una boccata d’aria e con rapido sguardo sa perfino l’ora senza sbagliarsi
sui minuti. E i baristi scattanti dietro i banconi con caffè in mano a tutte le
ore. Il fioraio non si scolla dalla guardiola, gli vanno a mettere in mano le
monete e impassibile osserva il traffico che scorre. Napoli vive in un contesto
che è difficile spiegare, molto meglio osservare: la conosci con gli occhi, ne
senti gli odori e ne osservi i mutamenti. Palazzi con ombre leggere scolpite
dal sole a formare intarsi, colonne, volute, come uno sfarzoso salotto, è una
città che accoglie nel suo corpo pieno di vita. Passando di nuovo davanti l’Università,
ho visto un cane abbandonato. Subito si è formato intorno un capannello di ragazze: chi lo accarezza e chi lo coccola.
Eppure è sporco, pieno di fango. Si sono guardati intorno, forse era stato lasciato
lì ma nei paraggi non si vedeva l’ombra del padrone. Altri si sono fermati come
se lì ci fosse stata una star e il cane a scodinzolare in segno di riconoscenza.
Mi sono fermata presa dalla scena. Sono riusciti a organizzargli un pasto in poco
tempo. Ecco, questa è Napoli. E con tutta la fretta che ci portiamo addosso
nelle nostre frenetiche giornate, qui c’è chi il tempo lo perde per questioni
che sembrano di secondaria importanza. E sono i giovani che prendono
l’iniziativa. La scena, durata una decina di minuti, è giunta al suo epilogo
quando un signore ha deciso di portarselo via. Quando in macchina mi sono
immessa su via Marina e il sole ancora donava sfumature di giallo ai palazzi,
mi sono detta che Napoli è sempre uguale a se stessa!
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