C’è la convinzione, tra gli adulti, che i giovani debbano
fare esperienza e cavarsela da soli per rafforzare il carattere. Quei
genitori, che a loro volta non hanno avuto le dovute cure, ora, adottano lo
stesso atteggiamento con i figli, lasciandoli a se stessi, come se la libertà o
lo sbaraglio li forgiasse meglio dell’esempio e del controllo genitoriale. Se ce l’abbiamo fatta noi, ce la faranno anche
loro! Questo il pensiero ricorrente. C’è poi la convinzione tra i giovani, soprattutto
tra gli adolescenti, di essere presi in considerazione solo se si atteggiano a “grandi”, un po’ per
spogliarsi del “piccolo” che ancora si portano dentro, un po’ per sperimentare
la vita adulta. Come si spiega questa voglia di sfuggire alla propria età, come
un abito troppo stretto? I genitori protraggono la loro giovinezza, almeno
idealmente, e lasciano che i figli facciano di testa loro, ricordando che, alla
loro età, si comportavano allo stesso modo. Sono amici dei figli, li proteggono,
li assecondano. Si tengono a debita distanza dalle loro sfere inaccessibili
quali sesso, amicizie, amori, progetti. I giovani oggi hanno genitori deboli, come
adolescenti che ancora aspettano di dare vita ai sogni e di avere fortuna per i
loro progetti giovanili. Attendono cambiamenti e hanno pretese come se non avessero messo al mondo figli e
questi non rientrassero nei loro progetti da portare a termine. Il discorso non
cambia per quei genitori che dirigono i figli come marionette, aspettandosi da loro onori e gloria per
sfamare quel bisogno di continuità nel figlio. I giovani hanno bisogno dei loro simili per comunicare,
confrontarsi, aiutarsi. E quando non hanno altro, ci pensa la droga, l’alcool, surrogati molto più immediati e aderenti alle esigenze del momento. L’uso di
droga è diventato sfacciato, non si fa più caso se è notte o giorno, se in un
posto riparato o in una metropolitana, ogni momento o luogo è quello giusto. A
questo punto bisogna chiedersi quando la cosa sia sfuggita di mano, quando la
nostra debolezza abbia preso il sopravvento lasciando il figlio in un limbo, da
solo, a gestirsi in situazioni più grandi di lui. Conosco una madre andata in
analisi per voler aiutare suo figlio, partendo da se stessa, e solo dopo è
riuscita a penetrare quel mondo ostile “del suo bambino”. Basta crederli grandi,
che decliniamo ogni responsabilità. E non c’entra se li abbiamo forniti di beni
materiali, ma solo quanto si sia preso a cuore la loro formazione, quanti
pensieri positivi depositati nel loro animo, quanta fiducia accordata, quanto
affetto manifestato, quanto siamo disposti a fare per loro senza mettere in
primis il nostro narcisismo, arroganza, presunzione di essere il meglio, procurandogli, in questo modo, un danno. Comunicare è trovare un posto
nel cuore dell’altro, creare un rapporto profondo. Non dobbiamo promettere ma
presentargli la vita nei suoi vari aspetti, evitando di edulcorare le verità.
Anche lo scontro è necessario. I sentimenti non vanno né smorzati né esagerati.
Se proviamo affetto, dimostriamoglielo, lo stesso se siamo contrariati, se non
approviamo, se abbiamo paura per quello che fa. Un genitore non è un dio, cerca
solo di sperimentare e capire la strada giusta. Ma quanti hanno il coraggio di
chiedere al figlio da dove viene, con chi esce, se sta bene, qual è la sua
situazione affettiva, quali i suoi desideri, i suoi sogni e le sue paure? Se
queste domande pensate siano troppo personali, immaginate quanto lo sia ritrovarsi
un figlio estraneo. I silenzi in certi casi amplificano le difficoltà, e non fanno altro che indurli a chiudersi in
quella scatolina telefono che contiene tutto ciò di cui hanno bisogno e da cui escono
fuori proprio i genitori. Fate caso: i figli non seguono i genitori su facebook, non
partecipano a eventi con loro, non vogliono che questi vadano a scuola, che si
impiccino, che controllino. E’ un
atteggiamento dell’età, della crescita, di quel bisogno di mostrarsi adulto. Simulano
comportamenti di persone vissute e magari hanno solo paura. A volte è bene
invadere il campo altrui, il modo migliore per conoscerlo, mentre a starne fuori
si finisce per non entrarci più. Un genitore che non percorre la strada del
figlio e lo lascia crescere come una pianta sferzata dalle intemperie, credendo
che così si irrobustisca, non sospetta che il vento e l’acqua possano anche abbatterlo
non trovando solide radici? La droga non è solo una sostanza, ma una risposta
rapida alle emozioni dell’adolescenza. Induce a una sospensione dal mondo,
allontana dal quotidiano che a volte è quello che più respingono. Ci sono
le mode da seguire, gli altri da assecondare. E poi si cade in
trappole, in zone d’ombra, in vertiginosi vuoti e solitudini. Allo stesso modo
l’alcool ipnotizza, dona oblio, dà la sensazione di essere grande. Ci sono poi quei
genitori che credono di avere figli ineccepibili, al di sopra degli altri, avendo
impartito loro un’educazione esemplare, così
tanto che i figli gli nascondono tutto. E’ così che langue la gioventù, sotto
gli occhi distratti o meravigliati dei genitori, che quando prendono in
considerazione il problema, è troppo tardi. E poi ci sono a questo punto le
frasi di circostanze che non servono: ma è un bravo ragazzo, è di
buona famiglia, è tanto caro, non me lo sarei aspettato. Chi assume sostanze,
lo fa con continuità. La droga va combattuta con forza e non con silenzi o con
la speranza che sia solo una brutta esperienza che prima o poi passerà. Bisogna
armarsi di pazienza, voglia di farcela, sia figli che genitori. Il vuoto, la
non comunicazione, l’indifferenza, la pretesa sono atteggiamenti nocivi. I
figli vanno “marcati” come un territorio da difendere. Bisogna averne il
controllo come si fa per qualsiasi bene. E mai mollare la presa! Una famiglia
che crede di non farcela ha il dovere di chiedere aiuto. La droga è un problema
di tutti, non una vergogna. La vergogna è di una società che guarda
indifferente alla caduta dei giovani!
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