La nostra immagine di Istanbul è legata alla storia dell’Impero Romano d’Oriente, alla nascita di Costantinopoli con l’imperatore Costantino I nel 330 d.C. Fu costruita come la nuova Roma, suddivisa in quattordici regioni, con un imponente ippodromo, un anfiteatro e un circo, luoghi d’incontro tra l’imperatore e la popolazione. Nasceva sulla vecchia Bisanzio che Settimio Severo aveva ricostruito nel 196 d.C. in una posizione strategica sullo stretto del Bosforo. Storia che si sovrappone alla città odierna di cui una parte guarda all’occidente e l’altra resta radicata al passato. Un aspetto duplice e contrastante che la rende una città unica tra Europa e Asia.
Istanbul i ricordi e la città edizione illustrata di Orhan Pamuk, scrittore turco, premio Nobel per la letteratura nel 2006, è un prezioso volume corredato d’immagini che ho letto con grande interesse. L’autore racconta la sua vita unita a quella della città, passando da fatti strettamente personali a visioni più ampie che abbracciano Istanbul tra passato e presente.
La dedica iniziale è
dello scrittore Amhet Rasit:”La bellezza del panorama è nella sua tristezza”. La
storia s’intreccia con le tante foto inserite e l’autore ci tiene a dire che: "Le
qualità che rendono una foto eterna per le generazioni future trascendono
l’intenzione di chi ha visto l’immagine e l’ha catturata. L’obiettivo vede cose
che sfuggono al fotografo e, anni dopo, le nuove generazioni, con nuovi occhi e
nuovi interessi, attribuiranno nuovi significati a questi dettagli
casuali." Alle foto mancano le didascalie, per dare la possibilità al
lettore di leggerci le proprie emozioni. L’autore ti porta non solo tra le righe
ma ti accompagna per mano nella città incantata, con i colori struggenti dei
suoi tramonti, con i minareti a conferirle quell’aria orientale, con gli
uccelli sul mare a raccontare pagine di mito. La storia della città, unita a
quella dell’autore, sono un intreccio per descrivere il luogo crocevia di
popoli e commerci, tra Europa, Asia e Africa.
Il bianco e il nero i
colori che l’autore preferisce per la sua città, i colori di Istanbul, fatti di
trascuratezza e desolazione, risvegliano nell’autore una dolce tristezza e un
desiderio di contemplazione. Lo scrittore descrive con delicatezza affondando in
ogni aspetto con la precisione del chirurgo, trasportando il lettore in un
viaggio interiore prima ancora che per la città. Nasce, leggendo, un crescendo
desiderio di passeggiare per la città da protagonisti, luogo che attrae in
maniera imperiosa. Istanbul cattura con la sua magia, col suo mare posto tra le
due rive, abbraccio di due continenti, con popoli di diverse etnie, di
convivenza tra vecchio e nuovo sullo stretto del Bosforo, il grande
protagonista della città. "Il Bosforo ha correnti marine, è ventilato,
agitato, profondo e buio. Se avete la corrente dietro di voi, se vi fate
trascinare lateralmente come un granchio, verso i battelli, Istanbul vi passa
piano piano davanti".
In un passo descrive l’anima
della città: "Le mattine piene di nebbia e foschia, le notti piovose e
ventilate, gli stormi di gabbiani che trovano riparo nelle cupole delle
moschee, l’inquinamento, i comignoli che escono dalle case come bocche di
cannoni a soffiare un fumo sporco, i cassonetti arrugginiti, i parchi rimasti
vuoti e trascurati nell’inverno e la fretta delle persone che d’inverno tornano
a casa la sera nella neve e nel fango".
Lo scrittore non
tralascia nulla, si sofferma su ciò egli prova e ciò che gli altri vedono da
fuori. Un lavoro minuzioso, un affresco completo tra storia, letteratura,
poesia e pittura, per un lettore curioso e attento. In un passaggio afferma che:
"A partire dalla metà del XIX secolo, dai grandi palazzi della burocrazia
ottomana moderna, gli stessi burocrati, i ricchi, i pascià crearono una cultura
chiusa e assolutamente impermeabile intorno alle loro ville di legno costruite
sulle rive dello stretto, dove fuggivano d’estate. Le nostre informazioni su
questi luoghi e sulla loro cultura impenetrabile si basano soltanto sui
memoriali della seconda e terza generazione, intrisi di nostalgia, perché
invece gli ottomani non scrissero nulla". Nel capitolo decimo l’autore disserta
sul termine tristezza. La parola turca huzun, appunto tristezza, è di origine
araba e secondo i versetti coranici esprime un sentimento causato da una grave
perdita spirituale comportando la nascita di due opinioni importanti: la prima
indica una tristezza che si crea con un grande attaccamento ai beni terreni, la
seconda afferma che la tristezza dipende da una situazione di lontananza da Dio
e dall’impossibilità di realizzare i suoi progetti. La tristezza prende anche
quando l’animo è attanagliato dalla rabbia, dall’amore, dall’odio e dal
sospetto, la malinconia quando si ha paura della morte, l’innamoramento, la
sconfitta, la malignità e propone come soluzione il lavoro, la razionalità, la
rassegnazione, la morale, la disciplina e la dieta.
La differenza fra tristezza e malinconia,
secondo Robert Burton nel suo testo "Anatomia
della malinconia" è che la malinconia è considerata causa di una
solitudine felice e uno stimolo per l’immaginazione e la solitudine si trova
proprio al centro di questo dolore. Tristezza invece è come una malattia, uno
stato d’animo. "Il popolo di Instabul è triste", dice l’autore, "di
una tristezza inguaribile e il modo semplice di liberarsi di questa tristezza è
di non occuparsi dei monumenti storici, di non prestare attenzione ai loro nomi
e alle particolarità architettoniche che li distinguono. Gli abitanti si
disinteressano completamente dell’idea di storia e trattano i monumenti come se
fossero costruiti oggi e staccano pietre dalle mura cittadine per usarle nelle
loro case, oppure iniziano a restaurare i vecchi edifici con il cemento armato.
Anche bruciare e demolire il vecchio, per costruire un palazzo moderno e
occidentale, è un modo per dimenticare".
Per l’autore la
tristezza non è quella di un occidentale che guarda alle città povere e grandi,
ma lo stato d’animo degli abitanti di Istanbul che esce fuori dalla sua
situazione. L’occidentale, afferma Orhan Pamuk, che arriva in città non
percepisce questa tristezza, né la malinconia. Secondo la descrizione di tristezza
nel Corano, Istanbul non porta la tristezza come una malattia temporanea o un
dolore di cui liberarsi, ma come scelta. "Nella tristezza di Istanbul c’è
una forma di orgoglio, anzi una sorta di superbia."
L’autore s’identifica
con alcuni viaggiatori: Nerval, Flaubert, De Amicis, lasciandosi influenzare da
loro e combattendo con loro. I viaggiatori occidentali gli offrivano più
insegnamenti sui panorami e sulla vita quotidiana della sua città rispetto agli
scrittori turchi, che non prestano così tanta attenzione alla realtà che li
circonda. Per noi occidentali il 1453 segna la caduta di Costantinopoli, per
gli orientali è la Conquista di Istanbul. Gli abitanti di Istanbul festeggiano
la Conquista grazie al movimento di occidentalizzazione e al nazionalismo turco.
Nel secolo scorso metà della popolazione di Istanbul non era musulmana e la
maggior parte degli abitanti non musulmani era formata da greci, che erano la
continuazione dei bizantini, e un forte movimento di nazionalisti turchi che dall’uso
della parola Costantinopoli arrivavano alla conclusione che i turchi non
appartenevano alla città di Istanbul. I turchi occidentalizzati non amano
parlare di Conquista tanto che nel 1953, alla cerimonia del cinquantesimo
anniversario della Conquista, non parteciparono né il presidente della
Repubblica Celal Bayar nè il primo ministro Adnan Menderes, proprio per non
offendere gli occidentali e i greci.
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