La moka per me è un sogno, non la uso da almeno trent’anni.
Eppure non mancano: da due, sei e più tazze e di diverse marche. Tra queste
preferisco la mitica Bialetti. Mi ricorda la mia adolescenza, quando preparare
il caffè era come dire: “Chiacchieriamo un po’”. Quando lo bevo, sono lenta,
non mi piace bollente ma nemmeno freddo. Lo bevo amaro. Purtroppo al posto
della Bialetti c’è una macchina che occupa lo spazio di un forno a microonde, sì,
tipo bar. Richiede il caffè in grani, acqua decalcificata, riscaldamento prima
di partire e una serie di accorgimenti. Il caffè è ottimo ma io preferisco la
moka.
Intanto bisogna lavarla bene, senza lasciare residui nella
guarnizione. L’operazione di carico richiede una certa esperienza: dosare
l’acqua, sistemare il colino e il caffè, posto con cura, e quando la base è
colma non premere troppo. Ogni volta si diventa più esperti fino a ripetere gli
stessi movimenti in modo automatico. Da ragazza mettevo una tovaglietta sul
tavolo, su cui appoggiavo ciò che mi serviva. Non si richiedeva solo la bravura
nel fare il caffè ma di lasciare anche in ordine la cucina. Una volta sistemata
la moka sul fuoco, avevo qualche minuto a disposizione per guardare fuori dalla
finestra, osservare il sole mentre nasceva, come inondava i campi dei suoi
raggi, la luce che rifletteva nei vetri e il mio viso riflesso ancora
addormentato. Mi giravo solo al borbottio dei primi sbuffi di caffè che mi
facevano avvicinare per controllare che i fiotti non finissero sui fornelli e
abbassavo il coperchio. Sul piccolo vassoio era già pronta la caffettiera, dove
raccogliere e zuccherare il caffè. Mentre lo versavo nelle tazzine, ne
apprezzavo il colore, la schiuma, la densità e il profumo. Poi lo portavo a mia madre, ancora era a
letto, e si beveva insieme.
Adesso il caffè è fatto con questa
macchina da bar. Di mattina, appena scendo dal letto, mi dirigo verso il piano
su cui è posta, dove, le varie spie accese mi segnalano di svuotare il
contenitore dei fondi o di aggiungere l’acqua o di caricare i grani, operazioni
che richiedono alcuni minuti e mentre le svolgi ti chiedi perché ogni volta che devi fare il caffè toccano
sempre a te. Dopo scelgo la mia tazzina nella vetrina: una colorata, sempre la
stessa. Però ce n’è un’altra che tutti
amiamo, reduce da un servizio che lentamente è andato assottigliandosi fino a
lasciarla superstite: di porcellana doppia, intorno indigene che ballano. I
colori sono caldi, un arancio rifinito di marrone e giallo con gocce sfumate blu.
È ricercata poiché rappresenta l’estate, le vacanze. Il primo
che fa il caffè, la prende. È la star della vetrina. Quando la
vedo “m’illumino d’immenso”. È possibile diventare così bambini
davanti a queste sciocchezze? Ebbene sì. È diventata famosa da quando, in un
momento di rabbia, stringendola in mano dissi che sarei andata in Brasile,
all’altro capo del mondo, provocando le risa di tutti che sanno della mia fobia
per l’aereo. E da allora, ogni volta che mi capita di berci il caffè, la rigiro
tra le mani accarezzandola, come a voler ricordare il viaggio da organizzare.
La stessa scena va avanti da anni. Se non la trovo, mi accontento della sua
vicina, ma non è la stessa cosa. Quando invece da ragazza riportavo il piccolo
vassoio in cucina, dopo aver bevuto il caffè nel letto con mamma, era d’obbligo
lavare tutto e mettere in ordine. Allora era come vivere in collegio a casa
mia. Tutto splendeva, niente sostava nel lavandino per più di un minuto e dopo
mezz’ora, se fosse entrato qualcuno, del caffè fatto nemmeno l’ombra, solo il
profumo per la casa. Lo stesso rito si ripeteva se veniva qualche ospite, con
una cura maggiore. Sceglievo il vassoio, il tipo di tazzine, il cucchiaino
inglese, la zuccheriera piccola d’argento. Guai se, mentre la moka era sul
fuoco, si notava qualche residuo di nero provocato dai fornelli dal precedente
caffè, o fuoriusciva qualche goccia d’acqua a significare che non era stata
stretta bene. Mia madre, senza pietà, lo faceva rifare, diceva che in quelle
condizioni non sarebbe venuto un buon caffè. Avevamo quella moka tra le mani
tutta la giornata: o per fare il caffè o per pulirla. Raramente era al suo
posto tra le pentole. Adesso, quando la macchina tipo bar di casa va in
riparazione, ce n’è un’altra di riserva. A nessuno viene in mente di usare la
moka. La guardo e quasi mi scuso per lasciarla da tanti anni chiusa lì dentro,
invecchiata dalla solitudine e non dall’uso. E se capita di prenderla per
nostalgia, mi sento un’incapace a ripetere un vecchio rito. Come se non fossi più abilitata al suo uso.
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