La Sperlonga




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Sperlonga di Vico Equense (Na)


Ci sono sentieri e sentieri. Alcuni brevi, impervi, altri lunghi che non hanno via d’uscita, altri ancora che si trasformano in altro. E poi ci sono quelli del cuore che, se anche non li vedessi più per il resto della tua vita, restano tracciati dentro come una via maestra. Sentieri, luoghi di favole e fiabe, dove si possono incontrare lupi e bambini,  cacciatori buoni e streghe,  dove accade che ci si può perdere o incantarsi ad ammirare un panorama spettacolare, a sentire un fruscio,  un cinguettio,  come se tornassi  a ripercorrerlo come facevi da bambino. E se ci ritrovi i profumi intensi di una volta, appiccicati addosso, non lo si abbandona più. Ti riporta le corse e le guance rosee, il sapore delle caramelle Rossana che cadevano di bocca quando un rumore incuteva paura, l’odore di latte, rappreso da qualche parte sul vestito e quello dell’erba strappata dai muretti. Attraversando oggi questo sentiero, pur giungendo da lontano una vivida pellicola di ricordo, ogni cosa  pare come allora, e il tempo si trasforma in uno stupido espediente per ingannare la mancanza delle cose, dei luoghi e delle persone. A primavera sa di aria frizzante e fiori freschi; dell’estate restano i ronzii delle api e le cicale, l’aria come di piombo, carica di umidità e una piacevole freschezza dell'acqua sul suo cammino. Ma in autunno c’è la sua più bella rappresentazione, fatta di odori aspri e di colori, delle prime stoppie arse, della leggera umidità nelle prime ore mattina e al calar della sera, del silenzio  fatto di voci che dal fondo arrivano a raccontarci un ricordo o un possibile miracolo di quello che mai abbiamo lasciato dentro di noi. In inverno, al pensiero di quel rigoglioso e fresco percorso fatto in estate, ci si riscalda un po’. Così gli alberi si tengono stretti evitando ogni fruscio, ogni sollazzo se non scossi da un forte vento. E a guardarli con le braccia di un colore sbiadito, ti rendi conto che fino a quel momento non avevi mai visto il mare in lontananza e che quando lo percorri  sei sempre assorto, pronto a depositare un pensiero o a rimuginare un fatto o a provare una gioia di cui non sapresti descrive il motivo e nemmeno te lo chiedi, saturo di tanta bellezza, dove ogni cosa è al suo posto: il mare scivola delicato, i gabbiani sono a riposo, le tane sono piene dei loro abitanti, le foglie secche portate via dal vento, mente sui rami si trovano i primi segni del nuovo che avanza. Si giunge poi alla fonte, ben preservata dalla vegetazione. Punto nevralgico sotto il verde degli alberi, a bordo della strada con un gettito forte e deciso. Non è la sete che ti avvicina alla fonte ma la voglia di berti il posto con sorsi senza respiro. E così mostrando i recipienti pieni d’acqua fresca si decanta la Sperlonga, simbolo di luogo puro e incontaminato. Il tubo da cui fuoriesce il gettito è imbalsamato dal tempo. Avrà buttato fuori metri cubi d’acqua, avrà trattenuto al suo interno la storia da cui sgorga, portando a valle  il racconto di come si è sciolta la neve o da quali punti della montagna arriva. E se smarrisci il senso dell’orientamento,  c’è la casa lassù, sì, quella grezza con tanti usci e finestre privi di imposte, come fosse un fortino di guerra da cui spiare il nemico che avanza. E’ diventata il logo della Sperlonga. E i soldati sono i tanti animali che lì hanno trovato ricovero, che sbirciano da lontano quelli che si avvicinano per studiarne le intenzioni. Un aspetto antropico che convive con la natura e che racconta come la matrigna leopardiana impedisca all’uomo di costruirsi la dimora in posti come questi.  Eppure quel cemento racconta un modo per incontrarsi, una voglia di confondersi, di far parte integrante della sua bellezza, ma allo stesso tempo un simbolo di impotenza umana davanti allo spettacolo della natura. Un sentiero remoto, percorso dai nostri antenati in epoche diverse,  arricchito dei passi di tanta gente, tutti i giorni  e in ogni stagione. Chi lo ha percorso ritorna sulle sue orme come chi va a trovare un parente o un amico, unico luogo così stretto tra mare e monti, così vissuto pur essendo solo una sorta di passaggio tra i monti. Un sentiero  a cui tutti ricorrono, come se fosse un padre affettuoso che ogni volta consola: a chi una pacca a chi un bacio a chi un sorriso, oltre a un’aria ricca di ossigeno e di vitalità. Un sentiero che inizia con coloro che lo hanno già attraversato, lungo il Cimitero di San Francesco, per continuare salendo i fianchi della collina affidandosi ai suoi anfratti. Antica strada percorsa da lavoratori e gente che si spostava da una parte all’altra della penisola. Tra gli ulivi si scoprono scorci unici e non è raro che tra un ramo e l’altro appaia una nave lontana, o il Vesuvio con un pennacchio fatto di cumuli e cirri, o una scia dietro una barca. Qui il tempo non esiste, niente cambia, talvolta nemmeno lo stato d’animo, tutto resta uguale a se stesso.  Una volta che lo si è percorso lascia dentro la chiave per aprirlo e per aprirsi. La ghiaia, i muretti di contenimento, le strettoie, le poche case lungo il percorso, ci fanno precipitare in antiche scoperte. La Sperlonga non è un luogo, è l’anima di questa terra e in essa l’aria ricca di voci e di passi, come gli animali che affollano i loro covili, i tanti ulivi che brillano lungo il percorso nelle varietà di verde, le tante specie di erbe, di fiori, di pollini. E se quando ci entri pensi al bosco più pericoloso, quando ne esci è come se avessi ritrovato la tua dimensione vera e ti riproponi di ritornarci. Terra, cielo e mare in un unico abbraccio dove non sei una parte esterna ma il protagonista della scena e tutto quello che può accadere attraversandolo è avere un ritorno di fiamma con la natura, con te stesso e con tutti i tuoi simili. E’ un percorso quasi obbligatorio per chi vuole ritrovare la parte più vera di se stesso.


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La lingua italiana




La lingua italiana è tra le più belle al mondo, non solo per l’eloquio, ma anche per la sua storia, la tradizione e la cultura che essa dispensa. Negli ultimi anni ha subito continue interferenze di parole straniere. In altri paesi si parla rigorosamente la lingua madre. Escamotage, defaillance, toilette, gourmet, tour, parole francesi, ma anche meeting, cool, step, wireless, touchscreen, make up, fashion, playback, videoclip, termini inglesi, sono di uso corrente. Come se in italiano non ci fossero le equivalenti parole o come se fosse da retrogradi esprimersi nella propria lingua. Si crede che parlare in inglese o in francese renda più raffinati o interessanti. E’esattamente il contrario: rende provinciali!  Abbiamo perso da tempo l’abitudine di dire autorimessa preferendo il garage, francese o box, quest’ultima parola “scatola” in inglese. Col tempo autorimessa verrà estromessa dal vocabolario o menzionata come parola in disuso poiché ampiamente sostituita dalla più breve e fashion box. Le parole composte sono le meno amate. Nel caso dell’asciugacapelli adottiamo tutti il phon o fon italianizzato, di origine tedesca, tratto da una marca di asciugacapelli dell’azienda AEG. Anche in politica i termini stranieri abbondano come job act, la legge sul lavoro, il welfare per dire lo stato sociale, l’exit poll per dire il sondaggio sui voti delle elezioni, e poi usiamo il brand, la firma di un prodotto, trendy, per tendenza, live, per dal vivo, e ancora trash, all inclusive e la lista sarebbe veramente lunga. Ogni 15 giorni muore una lingua secondo lo studioso francese C.Hagège e con essa tutto quello cui ha dato vita. Con le parole si perde il modo di sentire di un popolo. L’invasione subita è stata massiccia e di questo passo le generazioni future si troveranno una lingua morta e poco aderente alla realtà. Si perde così l’identità di un paese, compresa l’economia. Camilleri, grande autore del nostro tempo, racconta che la Bbc, dopo aver trasmesso la prima puntata del Commissario Montalbano con notevole successo, è informato dai dirigenti della tv inglese che, in seguito alla visione del commissario siciliano, tra l’altro scritto in vigatese, folti gruppi di turisti inglesi sarebbero partiti alla volta della Sicilia e dell’Italia incuriositi da quanto letto e visionato.

Questa è la prova che la cultura di un paese è sempre oggetto di interesse e bisogna fare in modo che la lingua resti un valido elemento di identificazione. Una persona acculturata rende allo Stato tre volte, secondo Camilleri, così non solo una lingua la si parla ma se ne scrive, la si divulga, e ritorna alla patria in termini economici. Non bisogna scambiare questo concetto per un nazionalismo nella sua versione peggiore, ma solo un mantenere sempre verdi le radici del paese, fatto di arte, storia e tradizioni che vanno custodite. La nostra lingua è tra le più dotte viste le origini, la posizione dell’Italia nel Mediterraneo, la storia dei suoi antenati. La lingua italiana è parlata oggi, oltre che in Italia, in Vaticano, a San Marino, nel Canton Ticino, al confine con la Francia, in Montenegro, in Albania, in Romania, in Bulgaria, in Libia, in Somalia, in Tunisia, una piccola grande comunità in America, Little Italy, in Argentina e Australia, in seguito alle emigrazioni e colonizzazioni. Unico paese dove, oltre all’italiano ci sono tanti dialetti. L’interesse per la lingua italiana è dovuto all’arte, al melodramma, alla religione cattolica, alla cucina, ai siti archeologici più importanti al mondo che abbiamo come Pompei, Roma, e poi Firenze, Venezia. E anche in questo caso ci si affida all’inglese più che imparare la nostra lingua. E’una questione di ospitalità quella di imparare la lingua del paese che accoglie. L’inglese assurge a lingua mondiale per districarsi in questa Babele. In aereo gli assistenti di volo parlano tutte le lingue tranne l’italiano, per comunicare con i paesi esteri dobbiamo adeguarci alla loro lingua ma non viene fatto altrettanto da loro, anzi, se un inglese non parla italiano risulta normale, se un italiano non parla inglese viene tacciato di ignoranza.  Dovremmo a questo punto conoscere tutti la lingua del paese ospite e non far valere la legge del più forte in economia.  C’è un’avversione non solo di tipo economico, forse anche storico-culturale proprio nell’osservare che il popolo italiano è abituato ad adeguarsi a ciò che gli viene propinato e alla poca considerazione che dà alla sua stessa lingua. C’è una sorta di sottomissione agli altri e uno svilimento della propria cultura. Siamo i primi a consegnare nelle mani degli altri il patrimonio culturale, e se non ci teniamo abbastanza, non possiamo sperare che lo facciano gli altri. Nessun altro popolo si esprime usando termini desunti da altre lingue. La contaminazione dall’inglese non diventa più parlare la lingua più usata al mondo, ma un mettere da parte la nostra dove i rispettivi termini sono lasciati per sempre. Non ci vuole molto a fra morire una lingua e la velocità con cui integriamo le parole straniere è il modo sicuro per ucciderla. Altri paesi con una storia della lingua più giovane e meno interessante della nostra, tengono al loro patrimonio. In nessuna altra storia della letteratura si può trovare un autore alla stessa stregua di Dante mentre noi, che lo studiamo sin dalle scuole medie, abbiamo a riguardo ormai un’indifferenza comune, anche tra letterati. Siamo così abituati alla straordinarietà di personaggi del genere che non dicono più nulla, siamo ormai assuefatti e ci piace essere esterofili. Non solo non c’è un autore simile, ma all’estero è studiato meglio che da noi. Vogliono strapparci l’identità poiché togliendo quella è facile saccheggiare il resto con evidenti penalizzazioni economiche. Un grosso difetto degli italiani è quello di valorizzare poco le cose di valore e sopravvalutare quelle che non ne hanno. Siamo un popolo strano: abbiamo l’astuzia della volpe, ma non la lungimiranza della formica e nemmeno la vista della lince. Vogliamo crescere aggirando gli altri, evadendo le tasse, legandoci a chi strilla di più e crediamo che comportandoci da bambini capricciosi otteniamo ciò che vogliamo. Siamo un popolo eternamente giovane, pur vecchi anagraficamente. La negligenza uccide la volontà, la passione e anche il genio! La sfida è conoscere bene la nostra lingua, la nostra letteratura, e fare in modo che i giovani la apprendano bene, così da poterla amare, usare e trasmettere. Una cultura permane quando dona qualcosa, altrimenti si atrofizza. La nostra lingua si è mantenuta nel tempo grazie alla cultura che ha diffuso, compreso gli aspetti meno edificanti della ‘ndrangheta e della mafia, così come la Chiesa e la pizza, fenomeno mondiale. Lo studio di altre lingue serve per apprezzare meglio la propria, ma non per sostituirla. La conoscenza delle lingue migliora i rapporti con altre comunità, per costruire interazioni senza pregiudizi.

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La notte prima dell'inizio dell'anno scolastico



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Quando ero bambina il giorno prima dell’inizio dell’anno scolastico, smaniavo con i quaderni. Li preparavo in cartella, mettevo prima le etichette con i nomi, poi controllavo i pastelli, l’astuccio, il temperamatite, la gomma. Mi piaceva sentire il profumo della carta, e della cartella, anche se era dell’anno prima, ma senza un graffio, sempre sui toni scuri. In ultimo le penne, il diario e poi, una volta sistemata, la riponevo sulla sedia della mia camera. Poi cominciavano le raccomandazioni di mia madre su quello che non dovevo fare a scuola e come comportarmi. Si andava a letto presto, ma tenevo gli occhi sbarrati fino a tardi al pensiero di incontrare i miei compagni e l’insegnante. Il giorno prima era una confusione mentale e intorno a me, pressappoco come oggi, che sono passata dall’altro lato della barricata e nulla è cambiato. L’ansia che provano i ragazzi è la stessa degli insegnanti. Adesso ogni anno è un insieme di emozioni: di anno che avanza e del tempo che passa, di alunni nuovi sempre diversi dai precedenti, del lavoro scolastico differente da quello di una volta, di anni e anni di lavoro svolto, anche se sembra ieri la prima volta in cui entrai in una classe. Andare a letto, di questa sera, prima del solito, non è una buona idea, si rischia di non dormire. Il pensiero corre agli alunni, a come li troverai, cosa sarà cambiato, come si presenterà il nuovo anno, il programma, la paura di dover essere sempre al top per nove mesi, proprio come una gestazione (come del resto tutti gli anni). E poi ti accorgi che è già passato quello vecchio e non ce ne siamo accorti: non abbiamo fatto in tempo a consegnare i registri a giugno che è già arrivato settembre. Sempre tenendo gli occhi sgranati nel vuoto della stanza immagini quando i ragazzi arrivano, alle ansie delle mamme, ai ritardatari anche il primo giorno, il traffico per la città e tu che devi anticiparti per evitarlo. Quando poi hai esaurito tutti gli aspetti, passando in rassegna ogni possibile evento, chiedi venia e vorresti finalmente chiudere gli occhi e arrivare già a domani senza più alcun pensiero che viene a inquietarti. Stai per trovare la posizione giusta e ti viene in mente ancora qualche fatto: l’alunno trasferito, i nuovi iscritti, quelli vivaci che speri siano maturati, il programma, l’accoglienza. Adesso puoi stare certa di prendere sonno ma ti accorgi che hai pensato per mezza nottata e sono circa le 5 del mattino e ti tiri addosso il lenzuolo affondando nel cuscino esausta. Ma da lì a qualche ora si scatena il putiferio: la sveglia suona, non trovi il lenzuolo e hai un freddo da Siberia, colpa del sonno perduto. Qualcuno in casa si è già alzato e accende tutte le luci come fosse Natale, e pensi sia meglio andare a fare il caffè. Cominci a sentire il traffico in strada, l’ansia sale, meno male che hai preparato già tutto. E proprio mentre ci metti tutta te stessa per alzarti, ti giunge da lontano il ricordo di quando da bambina, tutta bella linda col grembiulino bianco, ti sei sporcata di latte e sei andata a scuola con l’alone a quel punto, sperando, però, che nessuno se ne accorgesse. Hai ancora qualche minuto e lo vuoi spendere tutto per dormire ma incalza un altro ricordo quello del prof che al Liceo esigeva tutti i libri già dal primo giorno e tu passavi i pomeriggi successivi in libreria dove, dopo estenuante attesa, ti veniva riferito puntualmente che sarebbero arrivati dopo una settimana. L’ansia incombe ma se ti sbrighi a lavarti e a vestirti ce la puoi fare a trovarti in aula in tempo e così finisce l’attesa spasmodica. Per superare i momenti difficili non c’è niente di meglio che affrontarli. La notte prima è come se volessimo vedere l’anno steso ai nostri piedi a raccontarci come si presenterà. Un nuovo anno manda in apnea e non c’è verso di viverlo diversamente. Per quanto vuoi fare la disinvolta, la navigata, con tutta l’esperienza accumulata, diventi una alle prime armi, sempre preoccupata per quel che sarà. Ad ogni nuovo anno va rotto il ghiaccio, a volte si tratta di un iceberg altre volte di un cubetto.  La scuola coinvolge tutti, genitori, figli, insegnanti, dove siamo tutti protagonisti. Ma per niente al mondo eludere le emozioni del primo giorno di scuola, compresa la notte. Una notte agitata è segno che siamo preoccupati e una sana preoccupazione mette in moto la nostra macchina organizzativa fisica e mentale.

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Cara Mehari...


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Cara Mehari, 
tu e Giancarlo eravate inseparabili. Chissà quante volte ha innestato le tue marce e ti avrà fatto correre per arrivare in tempo o per andare in giro per le indagini. E tu obbedivi rendendoti amabile nella guida. Se potessi parlarci di lui, la tua testimonianza sarebbe la più emozionante e la più aderente ai fatti. Gli inquirenti ti avranno studiata e rivoltata come un calzino nella speranza che i segni, all’interno del tuo abitacolo, svelassero più di quello a cui sono giunti. Quante volte sarai finita in sosta vietata, nel bel mezzo della strada, in vicoli stretti, in posti malfamati, o quante volte ti avrà strattonata e, in situazioni di calma, avrà  ammirato un panorama, letto una frase sul giornale, appuntato una notizia, un numero di telefono, ascoltato canzoni. E tu ai suoi ordini, sempre ubbidiente, senza opporti, devota e silenziosa. Sicuramente lo avrai accompagnato anche in luoghi più ameni, dove trovava ristoro e riposo, come qui a Vico Equense. Cara Mehari, questo posto ti è caro così come a Giancarlo che veniva qui per la sua Daniela. Quanto amore avrà sacrificato per il dovere, quanti momenti in famiglia, quanti amici lo avranno visto così poco tempo per dedicarsi al lavoro. Avrai ascoltato la sua voce mentre cantava, le sue parole al telefono, presagito i suoi stati d’animo, capito l’umore da come guidava. Sai tutto di lui, anche della sera in cui fu assassinato. Avrai pianto forse con lacrime a noi sconosciute, lasciando cadere al suolo acqua, gasolio, con disperazione e paura. I circuiti non avranno più risposto ai comandi ma alla tua collera, impotente davanti alla crudeltà cui assistevi. Dal giorno della sua morte anche tu hai subito un arresto, i colpi inferti a Giancarlo sono stati anche tuoi. Uno scempio! La pompa di aspirazione chiedeva al motore, la batteria si sarà esaurita a suonare e i fari erano disperati nell’intento di fulminare gli assassini. Nella pelle dei sedili, sul cruscotto e tra lo sterzo rimbombano ancora i colpi, tutti e dieci che ancora oggi ne rimandano gli echi. Ed eri sola ad abbracciarlo quando si accasciò. Hai chiesto aiuto con qualche rantolo di voce rimasto, prima che arrivasse qualcuno a testimoniare il tuo e il suo giorno più tragico. E’ stato troppo chiederti di vegliare tu sola su di lui negli ultimi momenti e lì ti sei fermata anche tu e non avresti immaginato che, sulla strada di casa, lo avresti condotto alla morte. Se invece per una volta fossi stata disubbidiente, avresti potuto condurlo in giro per la città, sul lungomare, a mangiare una pizza, a trattenerlo nel traffico. Così facendo le ore piccole, l’alba lo avrebbe sorpreso e la luce del giorno mandato a casa gli assassini. Sei morta anche tu quel giorno. Ora ti resta solo il colore della speranza. Il tuo verde è come una bandiera, quella della libertà. Tornerai nella città in cui Giancarlo amava venire. Quell’amore ti riporta qui, l’unico richiamo a cui tu non hai potuto resistere. Quando l’amore chiama bisogna correre e tu, cara Mehari, ritorni qui. Giancarlo ti vuole proprio lì di fronte a lei, come allora, come se un vento ora spirasse tutti i giorni e avvicinasse quei due giovani che hanno visto finire troppo presto i loro giorni ma non il loro amore. Forse proprio le loro anime, di comune accordo, come fiori recisi che gridano alla vita, hanno chiesto e ottenuto che tu venissi qui: loro complice, amica, testimone. O Mehari se tu potessi parlare, se non fossi solo una carrozzeria assemblata ma avessi conservato la memoria e potessi raccontarci…Ma a cosa servirebbe se loro due non ci sono più? Ora il tuo compito è di andare in giro come se Giancarlo fosse ancora al posto di guida, con la gioia di vivere dentro e tanto ancora da fare. Sei quel che resta di  quel giorno e anche se non corri più come allora, ne dovrai fare di strada in nome della libertà e di quel giovane che per tutti noi non è mai morto, e se qualcuno voleva zittirlo, non c’è riuscito, il suo ricordo, il suo sorriso, la sua voglia di vivere saranno come la spada più affilata che trafigge i loro petti. Vai, cara Mehari, per raccontare a tutti che Giancarlo è vivo più che mai. E tu come allora lo accompagni.

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L'infelicità non è una colpa



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In un articolo su una rivista  di qualche settimana fa, si legge di una donna inglese di 68 anni, che chiede il divorzio dal marito Hugh di 80 per non essere più felice con lui. La Corte non glielo ha concesso visto che l’infelicità non è una colpa. Tini ha solo trascorso 40 anni col coniuge e non è mai stata felice e adesso dice basta. Nessun maltrattamento, avversione, impedimento da parte del marito, non c’è alcuna sua colpa. Mi chiedo, ora, se  le parole astratte abbiano valore ed esistano non solo come concetti. Darwin insegna che il cambiamento è alla base della nostra stessa vita e noi ci ostiniamo a reputarlo un fatto negativo. Eluderlo, come in questo caso, solo per trattarsi dell’ultima parte di vita, non è né saggio né scientifico. La felicità, tante volte osannata o messa qua e là come un ingrediente con cui condiamo quello che scriviamo, fa parte della schiera delle parole che esprimono sentimenti e pertanto non si vedono. La felicità non è un teorema, né una formula, ognuno la interpreta in un modo dandole un valore soggettivo. Così per la Corte non conta che a Tini non piaccia più la voce del consorte, la sua presenza accanto, l’odore del suo corpo e la consistenza delle sue idee. Per 40 anni ha sopportato il marito e deve continuare a farlo. Forse la Corte non ha pensato alla fragilità cui si va incontro con la vecchiaia, all’esperienza che porge la vita da posizioni diverse rispetto a tutte le altre volte e alla maturità che rende importanti cose diverse dal passato. La vecchiaia è tirare le somme anche in relazione alle aspettative di una vita intera e per le quali possono esserci ancora probabilità di riuscita. E visto che non possiamo spiegare la felicità,  non accettiamo l’infelicità come colpa. Una volta per essere felici bastava ascoltare i nostri bisogni, poi essa è mutata in uno stato di serenità, e ancora in qualcosa che a tutti i costi vogliamo portare a termine. Ma può significare anche avere una tranquillità interiore, sentirsi appagati, o vivere per un obiettivo. E può anche intendersi, come in questo caso, di non voler più sopportare determinate azioni o comportamenti del coniuge. Forse era necessaria una vita intera per capirlo, e proprio per questo dovrebbe avere valore e non eluderla solo per trovarsi alla fine. La Corte, da parte sua, ha un pregiudizio: che a questa età non si debba ambire più ad alcuna felicità, ormai il tempo è andato e i disagi che si provano finiranno presto. La vecchiaia, come  anticamera della nostra fine terrena, non deve esigere o volere. Diventa così un pregiudizio nei confronti di un rapporto che solo quella coppia ha vissuto e in cui nessun altro può interferire. Dovremmo cominciare a pensare che la vita è in ogni momento e ad ogni età ci sono bisogni ed esigenze diverse di cui tener conto. Ma la Corte preserva l’uomo, in questo caso più anziano, che molto probabilmente finirà prima della moglie, mentre non ha tenuto conto della  donna che ha avuto il coraggio di dare un nome alle cose e fare chiarezza nella sua vita, proprio in virtù della saggezza acquisita. A volte è un rischio  invecchiare: si capiscono tante cose a cui prima non si dava importanza. In ogni caso nessuna agenzia esterna può arrogarsi il diritto di interferire tra due persone che vivono insieme da una vita e sono diventate un’istituzione e in virtù della quale nessuno meglio di loro può sapere quello che c’è da fare. Lo Stato dovrebbe tenere a cuore il bene dei cittadini e la felicità è un bene per tutte le età. Quello che viviamo alla fine della vita non è meno importante di quanto effettuato durante, talvolta può pregiudicarne l’intero percorso.

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