In un articolo su una rivista di
qualche settimana fa, si legge di una donna inglese di 68 anni, che chiede il
divorzio dal marito Hugh di 80 per non essere più felice con lui. La Corte non
glielo ha concesso visto che l’infelicità non è una colpa. Tini ha solo
trascorso 40 anni col coniuge e non è mai stata felice e adesso dice basta. Nessun
maltrattamento, avversione, impedimento da parte del marito, non c’è alcuna sua
colpa. Mi chiedo, ora, se le parole
astratte abbiano valore ed esistano non solo come concetti. Darwin insegna che
il cambiamento è alla base della nostra stessa vita e noi ci ostiniamo a
reputarlo un fatto negativo. Eluderlo, come in questo caso, solo per trattarsi
dell’ultima parte di vita, non è né saggio né scientifico. La felicità, tante
volte osannata o messa qua e là come un ingrediente con cui condiamo quello che
scriviamo, fa parte della schiera delle parole che esprimono sentimenti e
pertanto non si vedono. La felicità non è un teorema, né una formula, ognuno la
interpreta in un modo dandole un valore soggettivo. Così per la Corte non conta
che a Tini non piaccia più la voce del consorte, la sua presenza accanto,
l’odore del suo corpo e la consistenza delle sue idee. Per 40 anni ha sopportato
il marito e deve continuare a farlo. Forse la Corte non ha pensato alla
fragilità cui si va incontro con la vecchiaia, all’esperienza che porge la vita
da posizioni diverse rispetto a tutte le altre volte e alla maturità che rende
importanti cose diverse dal passato. La vecchiaia è tirare le somme anche in
relazione alle aspettative di una vita intera e per le quali possono esserci
ancora probabilità di riuscita. E visto che non possiamo spiegare la felicità, non accettiamo l’infelicità come colpa. Una volta
per essere felici bastava ascoltare i nostri bisogni, poi essa è mutata in uno
stato di serenità, e ancora in qualcosa che a tutti i costi vogliamo portare a
termine. Ma può significare anche avere una tranquillità interiore, sentirsi
appagati, o vivere per un obiettivo. E può anche intendersi, come in questo
caso, di non voler più sopportare determinate azioni o comportamenti del
coniuge. Forse era necessaria una vita intera per capirlo, e proprio per questo
dovrebbe avere valore e non eluderla solo per trovarsi alla fine. La Corte, da
parte sua, ha un pregiudizio: che a questa età non si debba ambire più ad
alcuna felicità, ormai il tempo è andato e i disagi che si provano finiranno
presto. La vecchiaia, come anticamera
della nostra fine terrena, non deve esigere o volere. Diventa così un
pregiudizio nei confronti di un rapporto che solo quella coppia ha vissuto e in
cui nessun altro può interferire. Dovremmo cominciare a pensare che la vita è
in ogni momento e ad ogni età ci sono bisogni ed esigenze diverse di cui tener
conto. Ma la Corte preserva l’uomo, in questo caso più anziano, che molto
probabilmente finirà prima della moglie, mentre non ha tenuto conto della donna che ha avuto il coraggio di dare un nome
alle cose e fare chiarezza nella sua vita, proprio in virtù della saggezza
acquisita. A volte è un rischio invecchiare:
si capiscono tante cose a cui prima non si dava importanza. In ogni caso nessuna
agenzia esterna può arrogarsi il diritto di interferire tra due persone che
vivono insieme da una vita e sono diventate un’istituzione e in virtù della
quale nessuno meglio di loro può sapere quello che c’è da fare. Lo Stato
dovrebbe tenere a cuore il bene dei cittadini e la felicità è un bene per tutte
le età. Quello che viviamo alla fine della vita non è meno importante di quanto
effettuato durante, talvolta può pregiudicarne l’intero percorso.
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