Le fiabe ci
accompagnano anche nella vita adulta e anch'io ne ho una, che ricordo più delle
altre: Scarpette rosse di Hans
Christian Andersen. A suo tempo, quando la lessi per la prima volta, avevo
circa sette anni e mi colpì. E’ la storia di una bambina che rimasta orfana
viene adottata da una signora. La piccola riceve ogni sorta di bene e quando chiede insistentemente un paio di scarpe rosse, viene accontentata. Ma
una volta ai piedi le scarpe non si fermano più, sono magiche e non smettono di
ballare fino a quando, impossibilitata a fermarsi, le vengono tagliati i piedi.
Riaprivo continuamente il libro credendo di essermi sbagliata, ma continuavo a cadere nella trappola del
finale che non mi piaceva e non avevo alternativa. Intanto avevo a portata di
mano il libro per rileggere la storia. Ne disegnavo le immagini, scrivevo parti del testo, osservavo continuamente quella bambina. Quando ebbi la fortuna di
vedere la fiaba con un televisore e un giradischi incorporato, una voce mi raccontava
la storia che io potevo seguire con le diapositive. Tra le altre fiabe di
Andersen vedevo: Il soldatino di stagno,
La piccola fiammiferaia, Il brutto anatroccolo. Scarpette rosse è stata ritenuta la
fiaba più brutta di Andersen. A dire il vero non è l’unica, ce ne sono altre. Brutte non
solo nell’epilogo, anche nel significato. La stessa Cappuccetto Rosso porta considerazioni sul male. Allora come si spiega
il fascino che questo tipo di fiaba esercita sui bambini? Spesso sono una catarsi
per lo stesso autore che trasforma un suo vissuto negativo in qualcos’altro. La vita di Hans Christian Andersen è passata all’insegna della frustrazione e l’unica vera felicità gli fu data
dalla sua fantasia con cui elaborava la realtà nel suo esatto contrario. Quando
la vita non corrisponde alle nostre
aspettative, la psiche se ne cerca un’altra attraverso la fantasia. La forza di
questo autore fu quella di riuscire a trasformare il mondo in cui viveva, non
sempre come desiderava, in storie da raccontare. La sua vita fu tanto povera e
infelice quanto luminosa nella sua fantasia. E con le sue fiabe divenne celebre,
assecondando la fantasia: era quello il luogo dove il suo mondo ideale si
scontrava con quello reale. Il suo vissuto veniva rielaborato e trasformato, il
suo dolore ritrattato, l’amore non ricevuto se lo costruiva attraverso i personaggi
immaginari che avevano reminescenze di quelli veri e che nelle storie assurgevano
a ruoli di buoni o cattivi in base al rapporto che avevano avuto con lui.
Nacque a Odense nel 1805, figlio di un calzolaio, perse il padre all’età di
nove anni, mentre sua madre era una lavandaia. Ma fu lei a permettergli di
andare a Copenaghen dove avrebbe avuto migliori possibilità di sviluppare i
suoi progetti, nati dalla passione per il teatro e per la narrativa. La sua
voce da usignolo gli permise di frequentare ambienti di un certo rilievo, ma fu anche
oggetto di derisione per avvicinarlo al mondo femminile. E i sacrifici materni lo
condussero a una vita ricca culturalmente e pertanto riuscì ad avvicinare la corte danese. Una
volta lì non riuscì più a prendersi cura della famiglia. Spesso provava disagio per le condizioni in cui
versavano sua madre e sua sorella. E la passione per la sua arte lo allontanò
anche da se stesso, non rendendosi conto che l’unica donna che lo amò in
silenzio e per tutta la sua vita non fu degna di alcuna considerazione da parte
sua. Frustrazioni, dinieghi e privazioni resero il suo animo sofferente e non
riusciva a interagire bene con gli uomini così come i personaggi delle sue
fiabe. Quello era il suo mondo, coltivato sin dall’infanzia, trasformatosi poi
in un’ambizione coraggiosa, arrivando con le sue fiabe in tutto il mondo. Andersen,
innamoratosi poi di una donna di spettacolo, la rincorse ovunque, ma fu solo una grande delusione, storia che strasfuse nella fiaba Il guardiano di porci dove si vendicò facendole fare una brutta
fine così come lei aveva fatto con lui nella realtà.
I piedi, nelle fiabe di Andersen, hanno un
posto d’onore. Forse il padre, ciabattino, gli avrà dato lo spunto di indagare
in questo senso e sfruttarlo nei suoi viaggi fantasiosi dove relegava vite vere
sotto forma di personaggi. I piedi hanno un valore sessuale e di libertà che
forse Hans non ebbe mai se potè proferire, a tarda età, di essere vergine. Una sessualità punita e repressa con quel taglio
dei piedi, che lascia ogni bambino
sconcertato e affascinato al contempo pur non conoscendo il suo significato. Scarpette rosse è una fiaba in cui
l’autore non dà alcuna possibilità alla protagonista di esprimersi, forse non
gliela vuole concedere, sottendendo a una sessualità femminile da punire. Intanto
il male nelle fiabe fa parte della sua evoluzione, del suo alternare le forze
della vita e il bambino compensa ogni suo vuoto, ogni aspettativa, anche quando
termina, come qui, in modo estremo come unica soluzione al male. Una fiaba deve
avere forze contrapposte dove bene e male lottano, è questo ad attirare il
bambino. Egli parteggia per uno e per l’altro scambiandosi i ruoli e vivendo
quello che si vive nelle due situazioni. Il valore stesso della
letteratura, della lettura è vivere quello che si legge. Un modo di insegnare la
vita. Si cresce nello scambio di ruoli, nella paura e nell’euforia, nel
chiedersi ora cosa accade o come farò? D’altra parte Andersen affrontava i
personaggi della sua vita solo nella fiaba, era lì che li faceva agire, a cui
dava una condanna o li osannava, era lì dove lottava e non si arrendeva e dove
dava alla sua vita, così povera di affetti, un valore più alto e completo.
Talvolta il bene nasce proprio dal male e viceversa e la sua vita di sofferenze
gli diede una visione più dolce del vivere. E che importa se la vivi su un
piano parallelo, talvolta scrivere è come vivere, e vivere come scrivere. Si
vedeva come il suo brutto anatroccolo, ma “non importa di nascere in uno stagno
quando sei un uovo di cigno”. Anche nella sua condizione di disagio, Andersen
si elevava. La fiaba era la sua forza e la sua passione. Se solo lo capissimo,
continueremmo come un tempo a raccontare fiabe ai bambini, per dare loro le
coordinate del posto in cui vivono: un luogo fatto di contraddizioni e che, se
non fosse così, non ci sarebbe nemmeno la spinta a vivere. La fiaba insegna
prima ancora che il bambino possa capire. Con essa scopre i suoi beniamini, i
suoi eroi, ne ricorda le azioni e i motivi per cui agiscono, i punti forti e
quelli deboli. La fiaba è un mondo costruito con la fantasia e dettato dalla
vita reale. In essa realtà e fantasia convivono perfettamente, una fusione che
ci aiuta a correggere la vita e a fornirci motivi per superarla. E non è
privando il bambino della conoscenza del male che lo si preserva dai suoi
danni. Conoscere il male attraverso le storie può essere più educativo che
leggere fiabe a lieto fine. E per quanto possa esserci un lieto fine, anch’esso
evolve e porta in sé i mutamenti della vita che si trasforma, sempre e
incessantemente.
Commenta...
Nessun commento:
Posta un commento