Un'affacciata al balcone

 



Da ragazza ritenevo che affacciarsi al balcone fosse una perdita di tempo. Tutti, nel palazzo in cui abitavo, avevano però quest’abitudine. Dalla strada, a vederli, sembravano tanti monoliti al centro del terrazzo, con la testa mobile, simili a quelle lucertole che girano il capo a scatto appena avvistano la preda. Quelli che avevano l’abitudine a orari fissi, erano le vedette, che non si perdevano niente di quel lato di casa: dal passaggio delle auto ai pedoni, tenevano d’occhio chi attraversava la strada, chi arrivava nella traversa a parcheggiare, chi bussava al citofono, ma soprattutto chi entrava e usciva dal portone d’ingresso. Non perdevano di vista nemmeno chi andava a far la spesa. La vedetta attendeva con pazienza l’uscita della persona dal negozio, con gli occhi controllava le buste della spesa fino all’ingresso del palazzo. Sapeva tutto di quelle buste. E non solo, anche di tutti quelli che entravano e uscivano a tutte le ore. La vedetta si adagiava mollemente sul parapetto di cemento rifinito con base di travertino, sostenendo il peso del corpo sui due gomiti e quando non reggeva più, un braccio passava a mantenere la testa. Non solo il capo girava continuamente da una parte all’altra, ma anche gli occhi facevano uno sforzo immane, finendo arrossati alla fine della giornata. Aveva giusto il tempo di un caffè, una telefonata, controllare le pentole sui fornelli, ma poi subito usciva per non perdersi i rientri. Spesso l’attenzione maggiore era per gli estranei che arrivavano nel palazzo. Ne scrutava l’auto, la direzione da cui provenivano, il condomino presso il quale andavano, il tempo della visita. Se in quel momento si capitava a casa della vedetta, questi, del nuovo arrivato, raccontava una storia minuziosa e precisa.

Allora odiavo affacciarmi al balcone come quelli che passavano il tempo a indagare la vita degli altri. 

Quando uscivo sul mio terrazzo, era per guardarmi intorno. La mia attenzione andava all’edificio scolastico. Aveva grandi finestre gialle, un’enorme scala centrale e un cancello esterno. A quell’ora di pomeriggio era chiusa, le aiuole piene d’erba, gli alberi nel cortile scandivano le stagioni, l’orto del custode ben curato. Osservando, immaginavo quando di mattina eravamo lì. Vedevo l’auto della mia insegnante Adriana sempre puntuale, una Fiat 128 bianca, parcheggiata accanto al cancello d’ingresso, mentre avanzava come una soldata, con le sue scarpe basse, la postura dritta come se fosse appesa a un quadro svedese. Con lei, le colleghe, la maestra Teresa, la maestra soprannominata: la bambolina, gli scolari in ordine già in posizione di muoversi. Arrivavano sul terrazzo le voci dei bambini e a volte il profumo di pasta al sugo della mensa. Guardavo dall’alto il cortile giù al palazzo, dove giocavamo, con due alberi di agrumi piccoli, che subivano i colpi di pallone durante il pomeriggio, quando tutta la gioventù del palazzo si riversava lì.  E ancora mi piacevano i giochi di luce del sole sulle case, lo scorrere delle auto sull’autostrada in lontananza. 

La signora che abitava al piano superiore si affacciava per chiamare i suoi ragazzi e spesso scambiavamo qualche parola. Era una donna educata e dolce. Quando alzavo lo sguardo per parlarle, lei mi raccontava del pranzo, quanto avesse stirato, quello che aveva ancora da fare. Era difficile vederla affacciata, aveva sempre un lavoro da finire. 

Oggi, quando mi trovo a controllare i gerani sulla mia terrazza e vedo gente di passaggio per la strada e le auto scorrermi davanti, ripenso allora. Noto gli alberi di fronte, le persone che scendono sui marciapiedi, chi porta il cane fuori, chi fa jogging, chi corre, chi è affannato nel salire, chi osserva e cammina lentamente. A volte con lo sguardo, mentre l’innaffiatoio versa acqua, va su qualcuno in bicicletta o in moto. Noto i volti, le espressioni, il colorito del viso, le smorfie, e poi l’indifferenza e mi chiedo chissà che prima non ci si riconoscesse meglio di oggi. Abbiamo perso di vista il volto degli altri. A volte vedo qualcuno che dalla strada alza lo sguardo, mentre sto con la testa tra i gerani, e mi sorride, senza motivo e senza conoscermi. Quel sorriso non richiesto è un segno di vedersi, di guardarsi, di sentire che c’è un altro essere e non passa inosservato. Non sempre accade. La massa corre e siamo soli proprio in mezzo alla folla, dove di tanti volti, non ne vediamo nessuno. E così affacciarsi al balcone, che tanto odiavo da ragazza, per trovarla una perdita di tempo, forse era includere nella propria vita anche gli altri. Tutti nel palazzo conoscevano le date di onomastico e compleanno degli altri, ci si fermava per le scale a parlare, si bussava il vicino per sapere se avesse bisogno di qualcosa, si portava una pietanza ad assaggiare solo per aver sentito il profumo. Era un continuo imparare dagli altri, anche quando ci scappava un litigio, c’era la volontà di rimediare subito.

Interessarsi agli altri, quando non è per pettegolare, ci fa sentire meno soli. L’indifferenza della vita odierna ferisce più dell’invadenza di una volta. Le nostre nonne lo sanno bene quando affermano che la vita non è altro che “un’affacciata al balcone” in questo viaggio insieme, oltre a ricordare che siamo qui per un tempo breve.


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