La stagione della solitudine



Con l'estate  cambiano i ritmi, il lavoro defluisce, i bambini tornano alle loro famiglie, le città si spopolano, i vecchi restano soli.
Non è una ricetta, solo un ricordare che ogni anno si ripropone lo stesso incubo per gli anziani, quello di restare soli e non avere accanto nessuno. Non solo gli anziani malati, ma anche quelli che necessitano di calore umano. Si intende uno sguardo che non sia uno sfuggevole rendersi conto di una presenza, qualcuno che  presti loro attenzione, che dia un conforto, che venga dato loro un sorriso. E' avvilente vedere come persone, che hanno dato la vita per gli altri, ad un certo punto della loro, si trovino soli e non abbiano chi se ne prenda cura. Gli anziani hanno bisogno di poco, vivono a risparmio, ma quel poco deve essere vitale. Mangiare poco non significa cibo senza sapore, ma accurate ricette con poche calorie. Vestirsi, non significa come capita, ma un abbigliamento colorato, pratico, i capelli raccolti con fantasia e non privarsi di una dolcezza ogni tanto anche se incombe il diabete. Non parliamo se poi gli anziani necessitano di cure o essere accompagnati presso strutture per esami di routine. Qui ci vuole una persona che faccia da infermiera. D'estate, per chi non è più in forze è tutto più difficile. Ma come quando eravamo bambini e c'era per noi chi ci accudiva, anche in questa età  si ha  bisogno di qualcuno su cui contare. E' l'età dello scoraggiarsi facilmente, dell'umore non proprio alto, della tristezza per i figli che non ci sono, del rimpianto di quello che non si è fatto e della paura di avere poco tempo ancora. La presenza e il bene sono ancora più necessari di prima, come dell'aiuto di una persona operosa, generosa, paziente. La solitudine non è aver paura di stare da soli o non essere accompagnati, ma credere di non essere più utili, di aver chiuso con quello che eravamo prima, che i figli ci sopportino, siano a disagio con noi, che  il  tempo da questo momento in poi  non abbia nessuno scopo. E' un abbandonarsi per dipendere dagli altri, cosa questa che non fa piacere a nessuno.  A quest'età basta un cardellino che dalla gabbia cinguetta come buongiorno, un ramo di fiori al balcone, un gatto sulla ringhiera, un bimbo che cerca compagnia, piccoli gesti quotidiani che facciano capire di essere ancora preziosi, che se la pelle ha le rughe, dentro si resta giovani. La vecchiaia è un fiore fragile che vive di poco, ma basta altrettanto per farlo cadere. A quest'età bisogna affrontare la giornata con una ricca e floreale colazione, con la lettura di quotidiani e riviste, libri, progettando viaggi in compagnia, con tornei di carte, di scacchi, visione di film. La vecchiaia non è una malattia ma molto spesso lo diventa quando manca il calore degli altri. Vietato abbandonare gli anziani e il nostro assisterli, diventa lezione per noi. Accudire gli altri con affetto e gratitudine è ricordarsi che non sarà diverso per noi.


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Storia di mare a puntate sul Blog

Ricordo che mercoledì 22 giugno continua la storia di Santo, il protagonista de "L'affare Sonia", cominciata mercoledì scorso. Il romanzo si proporrà da questa pagina del mio Blog ogni mercoledì, chi ha intenzione di seguire la storia deve fissare la storia al mercoledì e magari rileggere la parte precedente.
E' la storia di un capitano della penisola sorrentina che non ha nulla di attinente con la realtà. Vorrei ricordare che il romanzo è stato scritto diverso tempo fa e lasciato a riposare per un bel po'.
Situazioni, personaggi e fatti che accadono all'interno del romanzo sono puramente casuali e non hanno alcun riferimento con la realtà. E' una storia di fantasia, nata dalla visione di un film che aveva come protagonista un attore americano e che mi ha dato lo spunto per tessere questa trama.
Tutti i diritti della storia sono riservati.

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Un po' di me


 Tutti mi chiedono chi sono, ma io come faccio a presentarmi? Cosa devo dire? I miei nonni, i miei antenati, i "contra nomi", cosa ho fatto, i miei pregi, i difetti? E’ sempre imbarazzante parlare di sé e si resta senza parole quando ti chiedono:” Tu a chi sei figlia?” Ovviamente non basta dare il nome del padre, si chiede di più, allora si vuole il “contra nome” come si dice da queste parti, della famiglia e visto che le famiglie sono due, bisogna parlare di entrambe. Poi si passa  ai fatti eclatanti accaduti, le cose di dominio pubblico e tutto quello che basta a individuare perfettamente i genitori. Mi sembra di passeggiare tra “Uno nessuno e centomila” di Luigi Pirandello. Però mi va di darvi un piccolo assaggio di chi sono, sempre che riusciate a seguirmi.


Sono nata nel mese di marzo, faceva freddo,  mia madre a letto, stufa a  gas in un angolo, le nonne a beccarsi per la disputa sulla mia somiglianza. L’ostetrica era per strada, l’orario, indecente: le due di notte. Sui lamenti  di mia madre si innestavano i clamori delle donne: chi voleva una bambina, chi un maschio. Questa la prima querelle. La seconda fu quella del nome. In ogni famiglia che si rispetti i nomi dei nonni sono tenuti in considerazione. Quando giunse l’ostetrica, mia madre era ancora in alto mare e allora le nonne dovettero trovarsi un intrattenimento. Cosa scelsero? Non ci credereste mai, perché disquisirono sul dolore.  Io già inorridivo solo a sentirle e forse fu per questo che tardai tanto, non volevo capitare in mezzo alla questione. Intanto mio padre si dileguò, non voleva intromettersi in "cose da donne". Andò via sicuro di avere il suo bel maschio, premio di tutte le ansie mal celate tra l’altro. Vi lascio immaginare venire al mondo tra quattro donne indaffarate e  sapere che  mio padre  aspettava un maschio. La mia nonna paterna aiutò mamma a partorire e pur essendo la suocera aveva un fare amorevole. Mi sentii strattonata a più non posso, volevano a tutti i costi che togliessi d’impaccio mia madre da quella situazione, e io, refrattaria alle loro interferenze, attesi con comodo e quando mio padre fece capolino dalla porta, sbucai fuori come una refurtiva capitata in un sacco. Nacqui senza capelli e mia madre me lo ha sempre ricordato, e  pensare che ora ne ho tanti forti e lunghi. Tornando a quel sei marzo, mio padre come entrò, così uscì. Lui voleva un maschio, ma nacqui io e fui la più grande delusione della sua vita. Perché vi chiederete, bene, il maschio avrebbe preso la sua attività, avrebbe continuato il nome della famiglia. Queste erano le considerazioni di mio padre che, di punto in bianco, girò i tacchi e andò via.
Secondo round della mia nascita, mentre l’ostetrica mi lavava e mi preparava e mamma veniva messa a riposo, le due nonne cominciarono a discutere sulla somiglianza. Un argomento principale che non lascia in pace nessuno e si fanno riferimenti fino alla settima generazione pur di trovare qualcosa di attinente con un parente di famiglia. La nonna materna diceva che ero tonda come mamma al che insorse la nonna paterna affermando che poteva dire quello che voleva, ma ero la testa tagliata di mio padre. Come se non bastassero le parole, cominciarono con le foto. Una di papà, una di mamma, cacciate dalle rispettive nonne che tiravano fuori, segno che erano venute preparate per la guerra, e sbattendole in faccia all’altra, invitavano a vedere la somiglianza. Se non ci fosse stata l'ostetrica a dirimere la questione, le cose avrebbero sortito un brutto effetto. Alla fine la malcapitata disse loro che la genetica si esprime per geni dominanti presi da entrambe le parti e quindi di stare buone. In quanto a me, stavo benissimo, mostravo forza e soprattutto, a detta di tutti, fulminavo con gli occhi. I miei occhi sono stati sempre oggetto di discussione in famiglia: mia madre li vedeva lo specchio del mio carattere, mio padre cominciò ad amarmi dopo aver visto che i miei occhi potevano tranquillamente scambiarsi per i suoi (quanto siamo vanitosi), quando tardavo a dormire, facevano riferimento ai miei occhi che sembravano dei fari accesi nel buio e mia madre mi ricordava la cosa con parole del genere: "Chella nu tene gli uocchie ma doje feneste aperte, spalancate …semp!" Le metafore su questa parte del mio volto si sono sprecate, non solo in famiglia. Ancora oggi, mio padre quando mi vede, si  affaccia nei miei occhi dove dice che vede chiaro. Ed io gli rinfaccio che intanto mi preferiva maschio. Lui si rifà dicendo che mi vuole bene e io gli rinfaccio che non è vero. Gli ricordo che quel sei marzo ha abbandonato la casa della partoriente, che sarebbe stato  bello se fosse stato presente. Ma lui mi guarda come un cucciolo  e mi ricorda che mi faceva il latte, mi coccolava, mi imboccava, mi portava a spasso ed io di rimando rispondo che poi ha capito che una donna poteva fargli comodo e lui mi ha risposto che una donna è una miniera e quando sono nata non capiva niente. Ma quando gli ho chiesto se adesso capisce di più, mi ha risposto che non ce n’é bisogno, adesso sono io che devo capire lui.

Vi ho lasciato un momento da soli nella stanza con la mia mamma tutta dolce e serena con me tra le braccia che sembravo un angioletto. Non ho mai dato fastidio da neonata, mangiavo, dormivo e osservavo. Mia madre diceva che forse gli occhi mi sono sempre serviti per guardare in modo così attento. Fortunatamente giunse mio padre che per l’ennesima volta  faceva per guardarmi ma gli mancava il coraggio. La madre lo invitò  dicendo che aveva fatto un buon lavoro, mio padre rispose che il vino del padre era stato testimone, ma la nonna materna tenne a dire che anche il pollo ruspante aveva fatto la sua parte. Insomma ero frutto di alimenti genuini, ma arrivati agli occhi si fermò la discussione, poteva parlare solo mio padre che aveva visto quanto gli assomigliassi e parlò come un oracolo dicendo che avevo due lanterne. La madre voleva sapere quali e papà rispose quelle fuori al balcone con la luce da cento gradi, la nonna annuì ma si avvicinò toccando il mio naso per appurare se fossi come una lanterna. Lei ebbe a precisare che più di una lanterna i miei occhi erano luci di una nave nel porto, e papà le rispose di si, ma quando sono tutte accese. Queste storielle me le ha raccontate la nonna materna quando voleva farmi capire a chi assomigliassi. Quando, oggi, chiedo a mio padre di definire il colore dei miei occhi, risponde: "Comme nun sai o culore e gli uocchie toje? Sono castani, no verdognolo, ma che dico verdone, vanno sul verdone!" "Ma chi Carlo" gli dico? "Il regista attore?" "Ma che dici, dico di colore, ce l’hai verdone". E poi a ridere. Non si è mai sentito verdone come colore degli occhi.

Bene, tra le notizie importanti che vi ho fornito sapete due o tre cose: ho gli occhi grandi sul castano, sono nata il sei marzo e ho fregato tutti perché volevano il maschio. Se avrete pazienza, saprete il seguito.

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Scrivere e leggere per educarsi

C'è chi le storie le scrive e chi le vive, ma tra scriverle e viverle c'è di mezzo l'esperienza. Non si scrivono storie al posto della vita, o non solo per sognare. Si scrive per liberarsi di un'esperienza, per costruire su di un'esperienza e per proiettarsi in un'esperienza. 


C'è chi è assuefatto alle continue letture tanto da non saper vivere la realtà che può sembrargli un altro pianeta; c'è chi leggendo fa crescere le sue proiezioni mentali tanto che non riesce a far a meno di fantasticare. C'è anche chi fa della letteratura una nostalgia volendo ritrovare quello che non ha più o qualcosa di nuovo a cui tendere. La migliore ricetta è quella di conoscere per vivere più della nostra vita, per vivere vite che non possono essere per noi e così facendo ci arricchiamo anche di storie. A lungo andare e con tante esperienze, possiamo diventare cinici o indifferenti. L'indifferenza è un sentimento che non deve attecchire, ci rende amorfi e inutili. Il vero lettore e il vero scrittore sa sempre meravigliarsi e incuriosirsi. Per lui non ci sarà mai fine a quello che può insegnare la letteratura, non si è mai completi, mai sazi. Ed è proprio la fame di sapere che la letteratura si prefigge di colmare. Si scrive per colmare questa curiosità, questo chiedersi "cosa farei se fossi in questa situazione, cosa manca a questa esperienza, ci sono cose che non conosco e posso sapere attraverso le esperienze degli altri". A volte si può conoscere anche solo riportando un fatto vero, nel trascriverlo si impara, si capisce, si comprendono tante cose. D'altra parte tutto è nato con la scrittura e scrivere è il nostro vivere raccontato che lasciamo agli altri. Chi viene dopo di noi avrà un mondo da vivere e da leggere e in quella scrittura c'è quel che resta di noi. Nessuna esperienza vale veramente fino a quando non la svisceriamo ben bene e resta appiccicata alla carta per poterla rivivere. E in questo turbinio di vivere, scrivere, leggere  e rileggere, s'impara.Si scrive e si legge anche per educarsi.

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Come nasce una storia da scrivere

L'affare Sonia nasce diversi anni fa, ero in vacanza e stavamo in un residence e, avendo paura dei gechi, che riempivano le pareti di casa dentro e fuori, ero costretta a stare spesso fuori, sul tavolo del giardino. Avevo già in mente di voler scrivere una storia con un personaggio interpretato da un attore  visto al cinema, ma non era quello il momento per farlo: ero in vacanza. La condizione in cui mi trovai, mi spinse a farlo. E così cominciai a scrivere, lì sul tavolo del giardino, lontana dalla casa, sopra di me il cielo, all'aria aperta e solo a sera, costretta a farlo, entravo in casa. Cominciò ad essere una scrittura continua e mi legai alla storia come non mai.
Scelsi di ambientarlo in costiera sorrentina senza nemmeno pensarci troppo e forse già quando ebbi l'idea la scelta fu fatta. Fu vedendo quel film, con un  attore che mi piace molto, che pensai di scrivere questa storia.

Venivo dalla lettura di tanti autori che avevano parlato di mare, letture su letture dove l'unico argomento era sempre  il mare. Letture cresciute soprattutto d'estate a mare. E così in un mese di vacanza mi trovai a metà lavoro di scrittura.
 I miei mi riprendevano per vedermi a scrivere ad ogni ora, ma non riuscivo a staccarmene, dovevo completare sempre un discorso, una scena, una descrizione.
Quando il lavoro, a fine estate, fu ultimato, lo lasciai riposare per un po' prima di riprenderlo.
Ripresi il romanzo per la correzione. E' lì che rivedi tutto sotto un'altra luce che non è quella di voler buttare fuori l'idea che hai in testa, ma rivedere tutto sotto una luce più reale, logica. Questa fase stanca. Passano giorni solo per non volere un dialogo o cambiare un luogo, o rileggendo mille volte quello che vuoi cambiare, ma non ce la fai.
Altro lavoraccio è stato passarlo dal quaderno al pc, quando il collo alla fine della giornata, assomiglia a quello di un'oca per aver fatto destra e sinistra no stop.
Cominci ad essere soddisfatta quando una semplice idea, per quanto forte, ha preso forma diventando la storia che hai davanti.

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Romanzo d'appendice

Da diverso tempo penso di pubblicare un romanzo a puntate sul mio Blog e lo farò a cominciare da mercoledì prossimo, 15 giugno. C''è nel romanzo a puntate una maggiore attenzione e partecipazione, una sorta di lettura collettiva, con un'attesa e un ripensare a quello che si è letto che non si ha nella lettura di un libro fatta di seguito. C'è anche un rapporto diretto tra chi scrive e chi legge, forse più stretto rispetto a chi legge tutto d'un fiato. Il feuilleton, che significa foglietto, nacque in Francia negli anni trenta dell'Ottocento, costituendo una delle maggiori attrattive per i lettori. Si inseriva nella parte bassa del giornale, a puntate, ed aveva largo seguito. Divenne, col tempo, quasi un dovere scrivere romanzi d'appendice vedendo che recava molti vantaggi all'editore. Autori famosi di romanzi d'appendice furono Alexandre Dumas, Charles Dickens, Matilde Serao...  

Seguirò questa mia idea e racconterò da queste pagine la storia di un uomo di mare. E' ambientata nella penisola sorrentina, ma spazia tra le Canarie e l'America. E' un romanzo con protagonista un comandante, un uomo che ha il mare nel sangue e di mare vive.
L'Affare Sonia, questo il titolo, vi aspetta, se volete, da questa  pagina.

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