Mediterraneo


Macron in visita dal Papa ha rimesso in moto immagini di storia e  un antico rapporto Italia Francia che, sebbene fondato su buoni propositi di vicinato, è sempre stato un po’ teso e guardingo. La Francia, come d’altra parte l’Inghilterra e la Germania, hanno sempre avuto mire espansionistiche nel Mediterraneo. A tale proposito ricordiamo la strenua lotta che i Siciliani attuarono contro gli Angioini nella Guerra del Vespro del 1282 sfociata nel Trattato di Avignone nel 1372 dopo anni di lotte. E come non ricordare la discesa napoleonica in Italia nel 1796, quando l’Imperatore fece del suolo italico merce di scambio e cedette all’Austria la Repubblica Cisalpina e Cispadana, col Trattato di Campoformio nel 1797.Risultati immagini per il mare mediterraneo
 I Francesi conquistatori e liberatori. L’eredità napoleonica fu una profonda trasformazione giuridica, economica e sociale dando impulso a quella codificazione con cui fu riorganizzato il sistema giudiziario abolendo la feudalità. Ancora oggi i nostri vicini hanno mire espansionistiche mai abbandonate concretizzatesi in una politica colonialistica, interesse a cui si sono dedicati anche   gli Italiani. La questione migranti oggi non è che l’appendice di antiche mire e nuovi assetti politici internazionali. I migranti sono le nuove pedine dello scacchiere geopolitico ed economico che hanno cambiato la fisionomia del Continente africano. Prima del 1990 nei paesi africani si combatteva all’interno degli Stati, dopo, le guerre si sono moltiplicate anche tra Stati e Stati ampliando interessi e dinamiche per i molti attori sulla scena. Gran parte di questa scena è presa dalla Francia: “L’impero coloniale francese si estese su gran parte dell’Africa occidentale e settentrionale, ma alla fine degli anni ’50 i venti della libertà iniziarono a soffiare in Africa e la Francia perdeva tutte le sue colonie. Tuttavia, l’euforia dell’indipendenza fu breve. La Francia ha mantenuto le truppe, le basi militari e l’influenza politica nelle sue vecchie colonie: ed è nata la politica di “France-Afrique”.La Francia era il guardiano dell’Africa, difendendo l’Occidente nella regione”, dice Antoine Glaser, autore di France-Afrique.
Gli interessi in Africa sono notevoli e l’Occidente ha bisogno delle guerre per giustificare il potere che  mantiene in quel Continente.
Non siamo di fronte a una semplice partenza di gente che scappa dalla guerra, ma davanti a un’azione predatoria da parte di quegli stessi paesi che dicono di portare aiuti in Africa. E la stessa Francia, grande arbitro con gli Stati Uniti, nell’Africa occidentale, sembra quasi non volersi immischiare con gli immigrati, come succede a tutti quelli che, stando in difetto, fingono di non vedere. L’Africa è diventata il più grande business per l’Occidente ricca com’è di ogni sorta di bene: petrolio, diamanti, oro, il continente più ricco e più affamato. Sin dall’Unità d’Italia si accentuano le incomprensioni con i vicini francesi. Secondo Gilles Pecout, professore di Storia Contemporanea alla Sorbona di Parigi, profondo conoscitore della storia italiana ed europea dell’Ottocento, che parla dei rapporti Italia Francia soprattutto nel periodo risorgimentale, la Francia è la prima  a condannare la formazione del nuovo Stato italiano visto come nato dalle conquiste del Piemonte contro il volere del Papa, contrariamente  agli Inglesi che approvarono ma si opposero allo Stato Pontificio. Nasce un’Italia che minaccia gli interessi di molti nel Mediterraneo. Il ruolo del  Papato per i Paesi cattolici come Francia e Spagna continuò ad avere prerogative e prestigio come quelle prima del 1870. Subito giunse  a Roma un incaricato francese presso la Santa Sede così come una nave, la Orenoque, stazionò a Civitavecchia. La scena di Macron al cospetto del Papa mi ha ridato la stessa pressione esercitata allora con segnali favorevoli verso il Papato fino al 1904, quando il Presidente francese Emile Loubet si recò in visita ufficiale in Italia. Questo gesto spezzò la tradizione. Dimostrava che l’autorità del Pontefice  rappresentava un problema per la politica interna ed estera dell’Italia. Così dopo la perdita di autorità, la Chiesa fu riportata in auge dalla pubblicazione del Sillabo di Papa Pio IX nel 1864, dove si stabilisce l’infallibilità pontificia. Nel 1894, gli alunni di un liceo francese, come ci informa lo storico Pecout, leggendo un manuale di geografia, apprendono che l’Italia era diventata una nuova potenza europea con grande meraviglia dei Francesi, data la mancanza di mezzi dei cugini italiani. Come negli amori tempestosi, nel 1901, con un accordo segreto, Italia e Francia stabiliscono la ripartizione del Nord Africa con Cirenaica e Tripolitania all’Italia e il Marocco alla Francia, un accordo poi saltato visto la neutralità dell’Italia quando la Francia assale la Germania. All’inizio del novecento l’immigrazione italiana era fenomeno massiccio e tra i paesi ospitanti anche la Francia. Qui gli Italiani si stabilirono in Provenza, Lione e Nord della Francia. Questi erano ambulanti, sterratori, muratori, idraulici, commercianti, sarti, barbieri, minatori, ferrovieri. A Marsiglia gli Italiani erano pastori, tra i nomi Della Corte e Scaramelli, proprietari di oleifici. Nella regione di Parigi gli italiani si stabilirono a Vitry, Villejuif, Montruil.
Gli italiani di Quebec, un regista e uno storico, per ripercorrere la saga degli italiani a Montreal, scelscero come simbolo il bar e come titolo Caffè Italia, per sottolineare come gli Italiani erano soliti riprodurre le stesse forme associative della patria per sentirsi una comunità anche fuori dall’Italia. A Marsiglia ci fu una lunga presenza di Italiani fin dai primi dell’800, tra piemontesi e napoletani. Nel 1901 erano 90.000. Con la legge del 1889,  per ottenere la cittadinanza bisognava aver soggiornato per 10 anni o aver contratto matrimonio con un francese. Ma gli Italiani erano trattati con supponenza e sfottorio, conflitti che si acuirono nel tempo raggiungendo il picco con la carneficina di Aigues Mortes del 1893. Nel 1905, Marcel Pagual, bambino di 10 anni, ricorda di un compagno di scuola che per giustificare un’assenza portò un biglietto con su scritto “Napator” (il n’a pas tort), che stava per “ Non ha colpa”. A questo doveva aggiungere che il padre era marmista proveniente da Carrara, in Toscana. Questa appartenenza alla Toscana e a Dante, padre della lingua italiana, metteva al riparo da ogni opposizione. La storia ripete le sue fasi come le sue colpe, e a volte, proprio per aver avuto ampia esperienza in campo, dovremmo essere scevri da competizioni e mostrarci più ragionevoli. La Francia oggi mostra la stessa resistenza di ieri, quando era paese ospitante, vietando gli approdi, che vorrebbe dirottare altrove, ma avendo gran parte nella regia occidentale in fatto di migranti.  Mi vengono a tal proposito i versi di un epigramma del Misogallo, opera del 1792 di Vittorio Alfieri, un’opera satirica antifrancese, dove si afferma che i Francesi hanno di buono la lingua e le gambe :” Falso orecchio hanno i Galli, e semi naso,/ Scema testa, corti occhi, e molle mano./ Che resta in fondo dunque di un tal vaso,/ Onde abbia uscirne un popolo sì vano?/ Due gran cose; ed entrambe/ Fan tutto l’esser loro, lingua, e gambe.” Lo stesso Mediterraneo è diventato il simbolo dell’identità europea e ormai non si può dire che si trovi “in mezzo”. E’un ponte traballante che bisogna rendere più solido e sicuro se l’Europa non vuol cadere in un rovinoso fallimento.

Centri commerciali senza librerie



Ieri sono stata in un centro commerciale. Non amo fare spese ai grandi magazzini, ma una volta l’anno mi accade di andarci. Sono stata invogliata dal fatto che dovevo comprare dei libri, ma con mia grande meraviglia,  non c’era una sola  libreria in tanti metri quadrati di mercato. Come è possibile che in luoghi così affollati non ci sia nemmeno una libreria? Tanto consumismo esula dalla possibilità di leggere? Come si costruiscono questi centri? La lettura in Italia non si può ascrivere nemmeno tra gli hobby. L’AIE, l’associazione italiana editori,  ci fornisce una notizia che non fa che aumentare la meraviglia: 13 milioni di italiani vivono in comuni che non hanno nemmeno una libreria. Molte sono state costrette a chiudere, altre lo hanno fatto trasformandosi in altri esercizi commerciali e la lettura è diventata roba per specialisti. Eppure ieri, sulle panchine fuori ai negozi, ad attendere i familiari mentre facevano spesa, c’era tutta gente fornita di smartphone, con la testa china a cliccare in modo compulsivo. Se al posto dello smartphone avessero avuto un libro, il loro cervello avrebbe fatto percorsi più umani, più creativi e meno ansiosi. Anche la conversazione sarebbe stata più valida del telefonino. Parlare e scambiare idee, opinioni, fatti è sempre meglio che smanettare su un piccolo aggeggio. Lo smartphone ci isola dal mondo facendoci sprofondare in una solitudine pericolosa. Ma la conversazione ha ormai perso il suo valore e, a parità di possibilità, se due persone sono sedute vicine, ciascuna ama parlare con un interlocutore virtuale anziché conferire con la persona accanto. Se ieri ci fosse stata una libreria, qualsiasi, potevo guardare la vetrina, comprare libri, leggere qua e là, sbirciare copertine, autori e magari avrei usufruito anche io della panchina per leggere. La libreria ti apre un mondo, e un libro a orizzonti dove sei tu il protagonista. In ogni buon esercizio commerciale i libri stanno all’ingresso, una sorta di fermata obbligatoria, dove si fa il pieno di energia vitale. E’ come se  il cervello avesse bisogno di benzina. Ma la gente deve acquistare e non perdersi nei libri. Ma il tempo a sfogliare e comprare libri non  impedisce di acquistare altro, può solo incentivare.Immagine correlata
Questa operazione, apparentemente casuale, è invece studiata a tavolino. La massa  deve spendere e non leggere, sarebbe una perdita di tempo. Se legge capisce che il consumismo è una droga e smette di comprare. Un centro commerciale privo di  libri  è predisposto a favore di chi non legge mai. A questo punto si può concludere dicendo che i centri commerciali sono per gente che deve rispondere agli acquisti, dove comprare è l’unico dio a cui votarsi.  Le campagne pubblicitarie agiscono alla grande su chi non pensa. Ecco un motivo per cui il centro commerciale non mi attira, non c’è quello che fa per me. Spendo in negozi conosciuti, dove anche la storia delle mie compere fa parte di me e quando esco, posso trovare la libreria. Se leggi, pensi e compri solo il necessario, ma se sei narcotizzato dalla pubblicità, compri di tutto. Ed è anche vero che si perde tempo prezioso in cose inutili e non per la lettura.  Ogni volta, come scusa per non comprare un libro, si dice che non si ha tempo per leggere. Ma il tempo per un libro lo si deve trovare sempre, è vitale. Leggere è la migliore terapia per guarire, per capire, per rapportarsi, per confrontarsi. Continuerò a comprare tanti libri, ma non continuerò ad andare ai grandi magazzini: troppo dispersivi, caotici, inefficienti e incomprensibili se privi di librerie.

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Giorgio Bassani


C’è una letteratura che sonnecchia  davanti ai grandi che affollano i libri di scuola e il motivo è dato, forse, dal fatto che sono troppo vicini a noi per dare loro lustro. Una letteratura che, una volta studiata, continuerebbe a dormire se il cinema di tanto in tanto non prendesse a prestito le opere di questi autori e ce le rendesse come capolavori. E’ una letteratura che di solito si conosce bene solo all’Università per i tempi necessari e gli approfondimenti dovuti.



Gli esami di letteratura prevedono la lettura dei romanzi e ho visto ragazzi tornarsene a casa per aver fatto dei sunti delle trame e andare a provare l’esame. Quando in sede d'esame si balbettava, sintomo di una lettura che non c’era stata, il prof. tuonava: “Senza la lettura del romanzo non sussiste l’esame”. La conoscenza dell’opera era come il catechismo. Con questo voglio dire che ce ne vuole per conoscere un autore se non si affonda nei suoi scritti. La lettura del romanzo porta direttamente alla centralità delle sue tematiche. Quest’anno il tema dell’esame di maturità è la solitudine declinata in tutti i suoi aspetti e Giorgio Bassani, con la sua produzione, mette in moto i temi dell’emarginazione, delle convenzioni della normalità e dell’identità. Aspetti che ritroviamo ancora oggi in una società che dovrebbe essere più libera e includere il diverso ma che ancora si mostra come allora Nacque a Bologna nel 1916 e dopo la laurea in Lettere si dedicò all’insegnamento. Partecipò a molte sceneggiature di film, fu redattore della rivista “Botteghe Oscure”, nel 64 diventò vicepresidente della Rai fino al 66. La critica ha manifestato grande interesse per i suoi libri a cominciare dagli anni 70. Muore il 13 giugno del 2000.
 Egli parte dalla sua Ferrara, luogo di vita reale e che conosce bene, e in quel microcosmo riesce a rapportarsi a visioni di vita anche fuori da quella provincia.  Narra storie vere di un mondo borghese e provinciale che si imbatte nella brutalità del Fascismo. Con le leggi razziali del 1938 questo mondo, costituito in parte da comunità ebraiche, viene sfaldato e l’autore ne ricalca gli eventi trattando il tema della solitudine e della morte. Una visione sentimentale e intimistica che si fonda sulla memoria che egli ripercorre non per rievocarne nostalgicamente gli eventi, ma per trarre da quegli eventi discernimenti e legami con i fatti reali. La sua è una ricerca minuziosa dei fatti sondando un terreno a volte sconosciuto anche quando la realtà appare di facile lettura. La memoria non lo abbatte, gli rende lo strumento necessario per la riflessione. Giorgio Bassani è un poeta e un narratore che ha scandagliato  la  realtà attraverso la memoria producendo narrativa di un certo interesse, non solo nel nostro paese ma anche fuori. Molto legato alla sua città, nelle sue storie esprime un mondo perfetto che lentamente inclina alla solitudine dell’essere conducendo alla morte come ineluttabile epilogo. Nel romanzo breve del 1958 “Gli occhiali d’oro”,  affronta la solitudine di un medico che vede perdere il suo prestigio quando è sospettato di omosessualità. Provincialismo e moralismo fiaccano la sua voglia di affermare quello che è. Il medico veneziano Athos Fadigati si trasferisce a Ferrara dove conduce una vita  tranquilla e dove è rispettato da tutti. La storia si capovolge quando conosce un giovane intellettuale ebreo con cui intesse una relazione. I due sono accomunati da un senso di angoscia profonda che li porta a condividere le proprie solitudini fino a quando subentra la crisi, davanti all’evidenza di una situazione che non può avere futuro. L’analisi delle rispettive personalità ci rende la condizione della Ferrara storica. Allora come oggi la paura del diverso  lede la tranquillità di una vita fatta di agi e di benessere. Il diverso come colui che spezza questa continuità. Il medico vorrebbe che la sua omosessualità fosse accettata magari gradualmente, così com’era la sua stimata professione. Ma sa che tra pubblico e privato  c’è una sorta di identificazione che non permette alcuno sdoppiamento. E lo afferma proprio all’inizio del secondo capitolo:” Non c’è nulla più dell’onesta pretesa di mantenere distinta nella propria vita ciò che è pubblico da ciò che è privato, che ecciti l’interesse indiscreto delle piccole società”. Il mondo ci lascia sempre nella nostra solitudine ogni qualvolta la diversità si presenta come evento disturbatore a scuotere gli animi che credono di aver trovato il proprio equilibrio.  Nel ’62 fu la volta de Il giardino dei Finzi Contini, un romanzo di ampio respiro che ha, come luogo d’azione, ancora Ferrara, con una prosa che i critici accomunano a quella di Tommaseo o Manzoni. E c’è da crederlo se la Tesi di Laurea di Giorgio Bassani fu proprio su Tommaseo. Racconta le vicende di una famiglia ebrea e aristocratica del ferrarese degli anni trenta appartata nella sua villa dove vive indisturbata. Il protagonista si innamora di Micol, che a sua volta non lo ricambia. La realtà gli è contro, ma lì ha dato vita ai suoi sogni e alle sue illusioni, che si spengono sempre più col passare del tempo. La deportazione e la morte di questa famiglia rompe un incantesimo che per tanti anni aveva dato senso alla sua vita. Giorgio Bassani si appassiona alla letteratura convinto che essa abbia la chiave di lettura della realtà.  Le sue riflessioni continuano negli altri romanzi come Il muro di cinta del ʻ46, In esilio del ʻ59, Dietro la porta del ʻ64, L’odore del fieno del ʻ72. Prima ancora che narratore è autore di versi con tre volumi di liriche nel ʹ45, ʹ47 e ʹ52, rispettivamente: Storie di poveri amanti, Te lucis ante,  Un’altra libertà. In esse trasfigurano, attraverso la sua sensibilità, le sue esperienze e il suo ermetico mondo interiore, con una tecnica precisa e affinata. Non sono mancati i giudizi negativi sulla sua narrativa tacciandola di pessimismo. La sua carriera però è stata un crescendo di riconoscimenti come il premio Veillon nel 55 per il racconto “Gli ultimi anni di Clelia Trotti; il premio Strega nel 1962 per Le cinque storie ferraresi; premio Viareggio per il romanzo Il giardino dei Finzi Contini; nel 1969 il Premio Campiello per L’airone. Ma la scuola non può contenere tutto questo e gli autori restano approssimative personalità che si muovono nell’indistinto. Chi avrà fatto questo tema deve averlo preso in buona considerazione già durante l’anno e aver letto le opere. Se da una parte gli esami devono contenere spunti significativi per far riflettere i ragazzi, non si può discutere su conoscenze frammentate. Bassani fa parte di quella nebulosa narrativa che va da Moravia a Sciascia, narrativa del dopoguerra, che porta con sé un realismo critico a volte anche distante, personale, contrastante, tra un autore e l'altro, ma che contribuisce a fornire un’Italia di quel periodo ben precisa sotto ogni punto di vista. Altro peccato della nostra letteratura è che la si studia in base anche alla collocazione politica degli autori, delle epoche, scegliendo quello che va bene e non va bene trasmettere ai ragazzi. Ma la letteratura come la vita non dovrebbe subire censure, per il principio che ciascuno deve poter conoscere liberamente. E dal momento che il processo educativo è sempre di tipo gerarchico, si trasmettono conoscenze che subiscono mode e pareri personali. Molti testi adottano questo criterio inopportuno, favorendo solo determinati autori.


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Il cuore è uno zingaro


E’ questo il titolo di una canzone del 1971 cantata da Nicola Di Bari a Canzonissima. Ero una bambina quando sentivo questa canzone e ne feci un ritornello, il mio, che cantavo a tutte le ore:“Che colpa ne ho, se il cuore è uno zingaro e va? Catene non ha, il cuore è uno zingaro e va ". E per lungo tempo ha costituito la ninna nanna dei miei figli che si addormentavano al primo giro di parole. Rapportiamo la parola zingaro a un girovago, senza sede, senza niente, libero, indipendente, proprio come l’amore. Le nostre conoscenze con gli zingari si limitano a questo: gente fastidiosa che chiede l’elemosina, sporca, ladra che attraversa le nostre città. Nella loro lingua, il romanes, Rom significa “Uomo”. I Rom sono un popolo sparso per il mondo che si concentra soprattutto in tre distinte aree dell’Europa: Romania, Balcani e Area Occidentale. Provengono dalla valle dell’Indo, tra India e Pakistan da dove si spostarono nell’VIII sec. in seguito alle conquiste dell’impero Romano d’Oriente al tempo di Costantino Copronimo. Parlavano il “praclito”, un idioma volgare afferente al sancrito. Tra loro molti erano esperti nella lavorazione dei metalli, conoscenza che li faceva chiamare athinganoi,”intoccabili” da cui il termine zingaro. Lentamente si spostarono dalla loro sede d’origine raggiungendo l’Occidente. Si sparsero in Europa passando per l’Africa settentrionale. Essi prendevano le usanze dei paesi in cui si stabilivano. Il primo gruppo sparso per i Balcani era formato da artigiani, contadini, costruttori e 
venditori di strumenti musicali e di cavalli.Risultati immagini per zingari dipinti
Il secondo gruppo si stabilì in Romania, schiavi alle dipendenze di principi. Potevano esercitare lavori artigianali svolgendo soprattutto quelli itineranti da cui l’arte circense. Abolita la schiavitù, nel Medioevo si trovarono sparsi e in condizioni di povertà. La restante parte di Rom si riversa per l’Europa. In Italia vivono in campi che li raccolgono, di solito lontano dai centri cittadini. Vivono di espedienti, pur attenendosi alle attività di cui sono capaci. Quelli che non hanno dimora fissa ma continuano nelle loro attività itineranti o nomadi per sostenersi, sono quelli giunti attraverso le vie del pellegrinaggio. Sempre al seguito dei signori che li portavano con loro, chiedevano di poter espiare la loro colpa di apostasia, definendosi cristiani e giungendo dalla via egiziana. Molti nomi che oggi li contraddistinguono come gitani o gipsy derivano proprio dall’essersi definiti egiziani cristiani. I Rom vivono circoscritti ma non sono mancate le persecuzioni nei loro confronti, sia durante la rivoluzione industriale che durante il Fascismo. Come gli Ebrei subirono dure repressioni. Tra loro ci sono anche molti che si sono affermati grazie alle attività circensi. A piccoli gruppi sono ben tollerati e cercano di non creare situazioni per cui possano essere allontanati dai luoghi dove si sono fermati. L’animo Rom non accetta le gerarchie e non ama tenere un capo. C’è molta libertà tra loro in un ordine orizzontale più che verticale. Al loro interno dirimono le questioni affidandosi ai più anziani, mentre quelle più spinose sono affrontate dal Krìs, una sorta di autorità massima a cui si affidano e che risolve le questioni sempre in termini di ammende da pagare. La famiglia è l’elemento fondante, molto legati tra loro i vari componenti. I figli si sentono sempre legati ai genitori anche in età avanzata. Le loro attività sono costituite dall’artigianato in cui si mostrano esperti, ma per il resto sfruttano il territorio in cui sono ospiti con accattonaggio, furto, arti divinatorie. Oggi i Rom in Italia hanno una presenza soprattutto in Campania, Lazio, Calabria e Lombardia, Abruzzo, Molise di cui metà con nazionalità italiana e la maggior parte con sede stabilita. La più grande comunità vive in Abruzzo. Accanto ai Rom che arrivano dalla Grecia e Albania, si aggiungono i Sinti, di provenienza mitteleuropea. Questi ultimi vivono nelle regioni del nord e svolgono attività circensi, e in parte giostrai. Nel Meridione troviamo i Rom che vivono in baraccopoli a Mandrione, Nuova Ostia nel Lazio. Ci sono poi i Rom Lovari allevatori di cavalli, i Kalderasa, artigiani del rame che vivono in roulotte. Ancora ci sono i musicanti e gli artisti di strada che vivono in accampamenti nel Lazio. A Firenze c’è la comunità Sufi, musulmana, proveniente dai Balcani. In Val Venosta ci sono i Carner si muovono con i carri, mentre a Noto, in Sicilia ci sono i Camminanti venditori ambulanti di ceci abbrustoliti e palloncini. Altri provengono dalla Francia, sono algerini, i Kaulja, musulmani. I nuovi arrivati sono musulmani e ortodossi dell’est. Oggi ce li troviamo per strada, sul pianerottolo, ai parchi e il pregiudizio ci ha abituati alla nostra indifferenza nei loro confronti. E’ gente che vive in situazioni precarie. Quando li incontriamo sulla nostra strada siamo infastiditi credendo di avere giornate molto più importanti delle loro, e che chiedere l’elemosina sia un ripiego a un lavoro che potrebbero cercarsi. Ma chi darà mai un lavoro a un nomade? Uno stato di diritto si fa carico anche dell’indigente che sia esso italiano o Rom o altro. Più che censimento serve una collocazione, una legge che dica come agire nei confronti di uomini alla ricerca di una sede, un lavoro e una vita dignitosa. Ma a volte gli indigenti possono essere dei capri espiatori di una società distratta. Si dovrebbe conoscere la loro cultura per poter interagire e capire che per esempio alla morte di un parente sono soliti bruciare le sue cose per non creare dissapori tra gli eredi. E così danno fuoco alla sua abitazione. Sono proprio le loro abitudini, usi e costumi a svegliarci e farci accorgere che convivono con noi. Conoscere il proprio simile e vicino è un dovere. Comprendere aiuta a trovare soluzioni per la buona convivenza. Il pregiudizio su cui si fonda ogni tipo di conoscenza è che la minoranza è sempre sinonimo di anormalità, così come la maggioranza di normalità. Un popolo che arriva da tanto lontano, con una cultura differente dalla nostra, con arti a noi sconosciute, non può che arricchirci se solo sapessimo avvalerci di tale privilegio. Molti compositori hanno usufruito della cultura gitana, che ha nella musica la vera anima, per integrare i loro ritmi nelle loro sinfonie risultando oggi tra le più apprezzate composizioni. Le contaminazioni sono notevoli in molti ambiti ma quello che attira di più è questo spirito libero di chi va alla continua ricerca di nuova vita nella sua essenza più vera. Il più grande pregio dei Romani, conquistatori del mondo, fu di dare cittadinanza a tutti i popoli conquistati, elemento caratterizzante del loro Impero e ad ogni cittadino il suo stato giuridico, la propria identità. Se non fosse stato così avremmo distinto un Seneca o un Marziale spagnolo, da un Ausonio francese e un Sant’Agostino nordafricano così come il conferenziere itinerante Apuleio, e non come cittadini Romani. Eppure sono inseriti nella nostra storia latina e nessuno obietta. Discriminare è allontanare e aver paura, fomentare e covare attriti, integrare è conoscere per capire e avvicinarsi. Le paure nascono dalle differenze e diversità. Secondo uno studio di E.N.Chavarria, molti cognomi del popolo nomade appartengono oggi alla nostra antroponomastica, segno della lunga convivenza con un’etnia della quale sappiamo ancora molto poco. Ma più che temere un popolo che convive sul nostro territorio da secoli, dovrebbe preoccuparci la criminalità italiana, di gran lunga più minacciosa. Nel volgere lo sguardo all’ipotetico nemico di turno, perdiamo di vista quello in casa a cui ci siamo assuefatti tanto da non combatterlo nemmeno più. Andrebbe valutato alla stessa stregua dello straniero, volendo essere ineccepibili e non approssimativi in termini di assetto territoriale in ordine di sicurezza per i cittadini. Anche in questo caso il “cuore è uno zingaro” e va dove lo porta l’onda del consenso più che della necessità.

Dipinto di Frans Hals, Louvre.

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I nuovi viaggi


I viaggi in Occidente per il nostro bel mare furono inaugurati dagli Argonauti, leggendaria storia di Giasone e i suoi compagni alla ricerca del Vello d’oro, prima ancora che Omero desse vita ai suoi eroi. Furono portati dalla mitica Argòla veloce”,  costruita per andare alla ricerca dell’aurea pelle di ariete. Solida e veloce come un uccello guidava i mortali per cammini impossibili. Fu costruita con i pini del monte Pelio e pezzi di querce sacre a Dodona. Giasone  toccò le coste del Mediterraneo giungendo davanti alla Libia dove la nave si incagliò. Allora  fu portata sulle spalle attraverso il deserto fino al lago Tritonis. Il dio Tritone spinse di nuovo in mare Argo che fece così ritorno a Creta. Giasone, antesignano dei viaggi nel nostro mare, alla ricerca del Vello per poter guidare con Pelia il regno di Iolco, è un eroe diverso da Ulisse che pone il suo viaggio come percorso di formazione. Il Mediterraneo è come un utero in cui si sviluppa la storia dell’Occidente. Ma una nuova epoca viene inaugurata da Cristoforo Colombo nel 1492, quando con tre caravelle sfidò l’Oceano, segnando l’inizio della storia moderna. Giasone va alla ricerca di un Vello per poter regnare, Colombo apre a nuovi viaggi che alimentano la sete dell’oro, divenuto il nuovo pegno dell’epoca moderna. La storia continua e ancora oggi il Mediterraneo è l’utero di nuove gestazioni, e non si va alla ricerca di terre nuove, né di velli, né di scoperte. Il mare è diventato come la rupe Tarpea da cui cadono  vite inghiottite dal mare, nutrimento per i pesci. Le navi non sono più veloci come la rapida Argo e con l’urgenza di ritornare a casa. Queste sono lente, con eroi stanchi e privi di sogni se non quello di salvare la pelle al posto di recuperare un vello. Gli eroi di oggi nel Mediterraneo scappano dalle loro terre attanagliate dalla guerra e dalla povertà, dalle malattie e dalla paura. Sono guerre diverse che non combattono un pericolo ma contro i deboli, facili prede soprattutto quando abitano luoghi vergini da poter colonizzare e sottomettere. Risultati immagini per gli argonautiE Come eroi di un tempo, i deboli di oggi vanno alla ricerca del sogno perduto, correndo verso quel mare che tutto vede e sa  e non può fare altro che trasportare le paure, gli affanni, le promesse, di uomini che, in un estremo tentativo, cercano di salvarsi. L’acqua diventa la culla e non più una via  da percorrere. E mentre il mare culla e assopisce, altri defraudano i loro sogni.  Giasone  condivideva con altri eroi il viaggio, un ’impresa d’onore, oggi il viaggio è una scommessa, un tentativo che ha la sua forza nel “tutto è perduto”. E non c’è dio che sollevi gli eroi verso l’impresa. Prima sono stati privati della libertà, poi la guerra e le malattie, e solo quando stanno per perdere anche la  vita si danno alla fuga. Tanti sacrifici, tante difficoltà che si abbracciano quando non resta che la speranza. Il Mediterraneo  come il Mar Rosso, un passaggio obbligato per chi cerca la terra promessa. Ma forse siamo giunti in un’epoca in cui oltre al mare anche le terre vanno condivise, e la nuova conquista è una mentalità diversa per le nuove convivenze. La nave diventa il simbolo del sogno perduto, e dove mancano sogni la vita non ha senso. Sogni infranti che si leggono negli occhi rassegnati, sogni che cadono dai gommoni, che pendono dalle politiche colonialistiche, dalle conquiste di terre ancora vergini che solleticano la voglia di dominarle per ricavarne nuovi ori, adesso come nei miti, una febbre mai passata. Questa volta Giunone non ha a cuore la nave di Giasone: «E se non che Giunone, cui molto a cuore Giasone stava, di sua mano la spinse» (Odissea XII, 96-97), non ci sono viaggi di formazione come per Ulisse, né di scoperte geografiche. Giasone pecca di superbia nell’oltrepassare il limite e nell’essere responsabile della follia di Medea, in un’eterna lotta tra furor e ordo. Così anche oggi la nave rappresenta un limite varcato, quello di voler ristabilire un ordine attraverso uno scompiglio. Non c’è più nulla da scoprire, se non l’animo umano, una terra forse irriconoscibile, che andrebbe non solo conquistata ma anche bonificata. E’ lì che si annidano  odi e brame mai sopite. La nave sfida il mare ancora una volta,  E non ci sono venti, né divinità capaci di fermare i viaggi dei nuovi eroi. Il mare non ha voce, si lascia attraversare, un ponte tra vittime e carnefici. Argo è vecchia e stanca e non ha più voglia di navigare, oggi ha bisogno di approdare in porti sicuri, del mare ha visto ogni cosa.


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