Leggo sempre con grande interesse i libri di Nagib Mahfuz,
premio Nobel per la letteratura nel 1988. E’ uno dei massimi rappresentanti
della letteratura araba di tutti i tempi e unico ad aver ricevuto il premio
Nobel. Tra i suoi romanzi spicca Vicolo
del mortaio del 1947, ambientato durante la seconda guerra mondiale sotto
il dominio britannico. L’autore affascina sin dalle prime frasi, immettendoci
in un’atmosfera esotica già con l’incipit, dieci righe per descrivere la strada
che ci farà conoscere, quanto basta per incollarci alla storia.
Nel vicolo del mortaio, alle porte del Cairo, la grande
metropoli egiziana e la più grande del mondo arabo, gli abitanti si conoscono
tutti, si osservano, si spiano, s’incontrano e scontrano. Il luogo mostra un’apparente
tranquillità dall’alba al tramonto ma dentro gli animi ci sono moti invisibili
agli altri, passioni che si vivono in silenzio, angosce e dolori impenetrabili.
Il cuore del vicolo è il Caffè Kirsha, che pullula di vita con i suoi avventori,
soprattutto a notte tarda, quando diventa il posto per i nottambuli. Tutto qui
si consuma tra l’oblio e l’indifferenza. Ed escono così, dalla penna delicata dell’autore,
i personaggi. Tra i primi Kamil, il venditore di basbusa, dolce tipico di
semolino, Abbas al- Helwn, il barbiere innamorato di Hamida, la ragazza più
bella del quartiere; Kirsha, il proprietario del caffè tormentato dalla
passione omosessuale che lo porta a scontrarsi frequentemente con la moglie;
Bushi, il dentista imbroglione che non ha mai preso il titolo di studio ed
esercita per esperienza, e ruba ai morti le dentiere d’oro per impiantarle ai
vivi; Zaita, oscuro personaggio, che procura infermità a chi vuole dedicarsi a
fare il mendicante. L’autore alterna con la sua lente d’ingrandimento la
descrizione dei personaggi e la loro vita con gradualità e tatto, con fare
preciso e armonico. Mahfuz passa da una finestra a una bottega, da un uscio a
una strada ponendosi a osservatore che rileva ma non giudica i vizi e le virtù
dei personaggi. Il vero protagonista è il vicolo, un luogo tranquillo e sicuro
che tiene al riparo i suoi abitanti dal feroce frastuono della città e in cui
tutto accade e nulla trapela. Lo stile, come dice Harold Bloom, il più grande
critico letterario americano, è ciò che contraddistingue un autore e talvolta
diventa più importante della trama. Lo stile di Mafhuz è avvolgente, le parole
scelte accuratamente, dialoghi e narrazione ben dosati. La sua partecipazione
alla vita dei personaggi si avverte in tratti d’ironia e distacco senza mai
penetrare nel giudizio, nel castigo o avversione. Tutti i personaggi sono
trattati con lo stesso interesse e passione e mai l’autore prevarica mettendosi
al loro posto. Il romanzo sembra uscito da “Le
mille e una notte” e l’autore, proprio come Sharazade, incanta il lettore
che non si sazia mai e aspetta il seguito sia esso scontato o inaspettato. L’atmosfera
è di una storia infinita racchiusa in un realismo quanto mai tangibile. Il
vicolo è un microcosmo che non manca di nulla e, tutto ciò che in esso accade,
dà la misura di quanto avviene nell’animo umano. Si alternano sentimenti,
decisioni, strategie, vendette. Nessuno è felice della sua sorte e si adopera
per cambiarla. Così per Hamida, ragazza bellissima e ambiziosa che non si
accontenta della povertà in cui vive e cerca con tutte le sue forze di uscirne.
La vita di ciascuno è spinta dalle aspettative su cui si modellano il ritmo e
le attese dei personaggi. Il vicolo è un mondo racchiuso in sé, con le sue leggi,
usanze e tradizioni, ma basta uscirne per entrare nel vortice più chiassoso
della metropoli. Nel suo ventre gli abitanti restano al sicuro pur odiandolo.
Ma fuori di lì prevale il pericolo, c’è un mondo troppo grande per loro. L’autore
ha interesse per la vita di tutti i giorni dei singoli personaggi, ed è in
quella quotidianità che riesce a tirar fuori l’indicibile di ognuno. Nel
placido vicolo scorrono le leggi di vita: di mattina si piange ma di sera già
si sghignazza. A pagina 116, Zaita, il
personaggio che vive procurando infermità, dichiara: “Ognuno di noi viene al mondo come un re, ma poi la malasorte ne fa
quello che vuole. Ed è giusto che la vita ci inganni, altrimenti, se sapessimo
subito ciò che ci aspetta, rifiuteremmo di nascere!”
La lezione di Mahfuz è che la vita, a volte, è un grosso abbaglio,
l’amore non ripaga mai come dovrebbe, e alcune debolezze del cuore non sono
altro che inganni, come la generosità e l’ingenuità. “Destino dell’uomo è essere scordato e del cuore venire trasformato”,
afferma il maestro d’inglese Shaykh Darwish, un altro personaggio, alla fine
del romanzo.
E una volta chiuso il libro viene voglia di rileggerlo per lo
stato d’animo che lascia allo scorrere delle pagine. I personaggi restano nella
mente con le loro dinamiche, le conquiste o l’ineluttabile fine cui vanno
incontro.
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