L’immagine dell'auto da cui esce il cane, abbandonato di lì a poco, che
tutti abbiamo visto sui media, ha provocato non poca indignazione. Che uomo
sarà quello che inganna l’animale chiudendogli la portiera dietro? Con quale animo
si appresta a lasciarlo in strada? Se in un primo momento avrà avuto un
sollievo per “il coraggio” o per meglio dire per l’infamia, subito dopo avrà
provato un senso di colpa. E nonostante questo possa attanagliarlo, non tornerà
indietro a riprenderlo. Prevale in lui l’utilità del momento: andare in vacanza
libero da ogni incombenza, finanche dal cane. Come se la vacanza fosse il
distacco completo dalla vita, la sospensione di ogni nostra connessione col
mondo. L’amara verità è che lo stesso uomo (e parliamo di genere umano) che
lascia il cane in strada non si farà scrupoli a comportarsi così pure con le
persone. Che affidamento può dare una persona del genere? Quale umanità può
esserci in lui? Avrà pure cresciuto quel cane, magari si sarà anche divertito
con lui e in poco tempo ha azzerato ogni rapporto con l’animale in nome della
vacanza. Se abbiamo così bisogno della vacanza da dimenticare chi siamo, non
penso che la stessa ci rimetterà in sesto. Prima di abbandonare il cane,
assicuratevi del buon funzionamento della vostra scatola neuronale con tanto di
sinapsi difettose per non fare, a vostra volta, la stessa fine del cane,
relegati in qualche struttura a curarvi abbandonato da tutti. Il cane lasciato
per strada farà una brutta fine se qualcuno, mosso a pietà, non gli darà
ospitalità. Questa storia me ne riporta alla mente un’altra.
Una volta avevamo un barboncino nero, allegro e
giocherellone. Si chiamava Billy e viveva in simbiosi con noi. Nulla accadeva
senza includere anche Billy. Ovunque andasse la famiglia, c’era anche lui, come
un altro figlio. Un giorno accadde che io con le mie sorelle e mia madre uscimmo
per compere. Era d’estate, faceva un caldo afoso e con noi venne anche Billy. Tornate
a casa a ora di pranzo, decidemmo di andare al mare per un paio d’ore, questa
volta lasciando il cane. Sulle prime mia madre voleva portarlo, poi si convinse.
Al rientro, aprendo la porta, i nostri occhi non credevano a ciò che vedevano:
tutto il corridoio era cosparso dei mille pezzi di sandali nuovi che erano
costati tre giorni di ricerca e una cospicua cifra. Non c’era un solo pezzo che
si potesse riconoscere. Davanti a noi si apriva un campo di battaglia. Non si
erano salvate nemmeno le parti come tacco e suola e niente lasciava intendere
che fossero i sandali se non avessi trovato la scatola vuota. Aveva triturato
minuziosamente tutto. Mia madre montò una rabbia inverosimile e a quel punto
non ci fu verso di farle cambiare l’idea di portarlo via. Quello che vedemmo
non ci faceva spendere nemmeno una parola in sua difesa. Più che il lavoro di
un cane sembrava quello di una tigre. Così lo portammo in macchina e faticammo
molto per strappare a mia madre la promessa che lo avremmo lasciato solo se
avessimo visto qualcuno prendersi cura di lui. Impiegammo tre giorni. Quando un
signore lo prese con garbo e lo portò via, decidemmo di andare. Ogni pomeriggio
tornavamo a controllare se realmente il padrone lo avesse preso in consegna: un
lavoro laborioso poiché dovevamo stare distanti con la macchina per non indurre
Billy a rincorrerci. Qualche anno dopo, in città, mentre sostavamo davanti alle
vetrine, da lontano un cane ci venne incontro: era Billy. Lo riconoscemmo
subito. Un momento imbarazzante ed emozionante: lo accogliemmo, accarezzammo,
coccolammo senza proferire alcuna parola. Il padrone ci disse che era molto
affettuoso, faceva con tutti così. Gli aveva assegnato un altro nome ma quando
ce ne staccammo, all’unisono dicemmo “ciao Billy”, spiegando che assomigliava
al nostro che aveva quel nome. A quel punto mia madre ebbe un cedimento, voleva
andare a riprenderselo, rivoleva il suo cane, ma glielo impedimmo. Quando
sentivamo la sua mancanza, andavamo al parco e attendevamo che scendesse se non
era ancora lì e lo guardavamo da lontano mentre giocava con i bambini e si
divertiva. Abitudine che durò parecchio ma poi decidemmo di finirla, dovevamo
pur staccarcene. Il giorno in cui lo incontrammo in strada tornammo a casa
piangendo e capimmo che un momento di rabbia non poteva finire così. Se solo
mia madre lo avesse capito prima, avrebbe perdonato. Anche in quel caso
prevalse la logica: aveva oltrepassato ogni limite e andava punito. La
punizione, come accade anche con gli uomini, si ripercuote su tutti e non è mai
un metodo educativo vincente. Tutti fummo puniti dal perdere Billy.
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