E già si parla del Natale.

 



L'altro giorno, per radio, sentivo che in alcune parti, e non solo d'Italia, ci sono persone che preparano l'albero di Natale già all'inizio di questo mese, ma anche prima. Al solo pensiero ho avuto i brividi. Ma ci pensate? Tirare tutto l'occorrente dalle scatole già adesso e decidere come addobbarlo, cosa manca, cosa comprare, come e dove è meglio farlo. Sembra un affare di stato e poi chiamare a raccolta tutti e chiedere il permesso della postazione scelta. Di solito si sistema in una parte  centrale della casa, lasciandolo lì fino a quasi metà gennaio. E poi c'è chi deve addobbarlo, chi sistemare le luci, chi mettere il puntale, chi solo aprire i rami, come in una catena di montaggio. Con gli anni si cerca anche di svignarsela da questo impegno, demandando gli altri o adducendo pretesti per non farlo. E mentre una volta bastavano poche ore, oggi si sta a rifinirlo per una settimana. E ancora scatole in giro, tra alte e basse, tende che cambiano sistemazione, ciabatte per collegare alla presa per accendere. Un delirio! Il pensiero mi ha prospettato quello che succede tra qui a qualche mese: un dispendio di energie, di tempo, di pensieri, di lavoro che a volte non si può evitare. Preferisco il presepe, il vero protagonista, ma l'albero fa la sua bella scena. Come dovrebbe essere il Natale? Essenziale e semplice, dagli addobbi al pranzo, ai regali. Diciamoci la verità, siamo stanchi di queste fiere della vanità a ogni festa. Sembrano momenti per strafare e nell'eccedere si dà più importanza al superfluo che al valore in sé della nascita del Bambino. Anzi, le feste negli anni si sono moltiplicate. Ce n'è una per ogni avvenimento. Sembra che festeggiare sia la nostra principale occupazione: il primo dente, il primo mese, il primo lavoro, il primo amore, il primo stipendio, la casa, l'auto...

Ritornando all'albero, perdiamo il nostro tempo ad addobbarlo secondo uno stile, a rimodernarlo secondo le mode, ci struggiamo se non troviamo le palline col bordo di un particolare colore, il puntale di un certo prestigio, le rifiniture come fossero stucchi del 600, i fiocchi di stoffe particolari. Tutto questo per avere più che un albero una sorta di gru al centro di una stanza o in un angolo della casa dove, se va bene, qualche pallina cadrà al suolo, qualche nodo si allenterà, una lucina farà capricci. E si dovrà pur spazzare nei paraggi, col pericolo di provocare un disastro. Insomma, abbiamo un altro componente della famiglia che ci fa compagnia per tutte le feste. E poi il presepe, a meno che non sia qualcosa di teatrale, deve comunque stare accanto all'albero e pertanto trovargli un altro appoggio, sacrificando un mobile, un tavolo, una sedia, perdendo in questo modo uno spazio utile. Ma sopravviviamo perché è un allestimento momentaneo. A volte penso che si debba tenere fisso in un cantuccio di casa come pezzo dell'arredamento, senza mai smontarlo. La nostra religione ha una ricca e lunga tradizione e del presepe non possiamo fare a meno. Se lo incorporassimo all'interno delle nostre case, sin dal nostro insediamento, sarebbe una santa cosa. Non dovremmo assistere a queste maratone di fine anno che ci fanno odiare il Natale. Avremmo modo di guardare la capanna, Gesù, Giuseppe e Maria con i pastori sempre, come se avessimo dato loro un riparo a vita. 

Ci sono alcuni, invece, allergici al presepe e tutto ciò che ricorda Natale, per cui se pongono la sacra famiglia in una capannuccia di minimo trent'anni, cioè sgangherata e due palline con un filo su un albero spelacchiato, è proprio il massimo. Questo perché a loro basta un simbolo, come dicono.

C'è anche chi preferisce allestire proprio una stanza come se fosse la Cappella Sistina, in un luogo inaccessibile della casa, lasciando entrare qualcuno solo quando lo permette e sotto sua visione.

A me basterebbe un alberello di media altezza con fili e palline e biscotti zuccherati a ricordarmi l'infanzia, lucine fioche bianche e una capanna accanto. Sarebbe opportuno  un Natale sobrio, anche in previsione del fatto che le nostre case sono piene di oggetti e continuiamo a riempirle come stive di navi. 

Il Natale è la festa più amata che mette tutti d'accordo, simbolo della nostra fede e unisce le famiglie almeno una volta all'anno. Si aspetta il Natale per vivere gli amici, i parenti, i figli, i nipoti. Molti lo aspettano sempre come la festa di quando erano bambini, vorrebbero riavere le stesse atmosfere, le stesse persone di allora. 

Caro albero, non me ne volere, ma mentre la capanna e i pastori sono presto posati a chiusura del Natale, tu prendi un tempo maggiore: le palline vanno nelle scatole per grandezza, colori, avvolte nella carta singolarmente, i fili ben piegati, selezionati per lunghezza, colore, spessore, le luci ben arrotolate, il puntale in una scatola a parte. Ma stai tranquillo che, per quanto a fine festa sia una fatica, la tua postazione è d'onore: accanto al balcone, con le splendide luci intermittenti che abbagliano chi guarda, un posto elegante per i doni che giacciono a terra in attesa della sera della vigilia. Sono secoli che ti sobbarchi della fatica di fare da sfondo ai regali, vivendo nelle case, ascoltando gli umori dei suoi abitanti, le richieste di ciò che chiedono. E poi certe volte ti caricano così tanto da scadere nel trash e più ti caricano più ci sarà da lavorare. E poi? Trascorrerai gran parte dell'anno in cantina o in un angolo buio per il resto dell'anno. Sembri un po' Cenerentola: per pochi giorni nello sfarzo e tutto il resto nascosto in un angolo. Ma a volte per un attimo di palcoscenico si è disposti a fare di tutto.


La morte nella vita




 La morte, per quanto ne dicano, è qualcosa di inaccettabile, anche per noi cristiani che confidiamo nella resurrezione. E qui la nostra parte umana, che ci impedisce di capire ciò che l'uomo può solo con la fede.

Restare al buio, non vedere più quella persona ci mette una tale angoscia che dobbiamo trovare per forza altre strade per raggiungerla. Eppure proprio quando si allontana per sempre da noi siamo, nei suoi confronti, più propensi a comprenderla. Riusciamo a ricordare perfettamente momenti insieme, come se tutto a un tratto ci venissero incontro travolgendoci. E stranamente ricordiamo solo cose positive, come se la mente cancellasse tutto il superfluo di una vita divina e non più umana. Ci appare in tutta la sua bellezza,  in un incantesimo. Il suo vuoto resta lì, in un posticino dentro di noi, che cerchiamo di colmare con i ricordi, i sorrisi, le parole, l'affetto palesato da vivo, le sue azioni a confermare quanto ci amasse. E' come se fluttuasse nell'aria dispensando la sua vera essenza, un profumo che ci inebria.

Siamo capaci, in questo caso, di perdonare, di vederla realmente, senza intralci dei nostri egoismi, orgogli, cattiverie. Siamo in una dimensione dove possiamo confrontarci e dialogare in modo corretto, riuscendo a riprendere anche momenti che in vita non abbiamo superato. Tutto si appiana, si regola, a metà strada, guardandoci in faccia per la prima volta. Non sono gli occhi che vedono, è la nostra energia che vuole a tutti i costi mettersi in contatto completamente, abbandonandoci a un sogno. E in questo sogno siamo sinceri, guardiamo e apprendiamo ancora tutto quello che, quand'era in vita, non siamo stati in grado di vedere. Potrebbe essere un paio di lenti di ingrandimento, la morte, un piano di lettura profondo che non può essere fatto diversamente e in vita, quando la nostra umanità invade ogni campo.

E non è un trasformare il ricordo o rielaborarlo a nostro favore e piacere, piuttosto spogliarlo dei suoi eccessi, dei suoi ricami e renderlo leggero, così leggero da oltrepassarci.

Ci sono cose che comprendiamo dopo, solo dopo. La sua morte la vediamo dal nostro futuro, girandoci indietro e guardando dove è finita la sua corsa, il punto preciso che ha segnato il suo distacco da noi per sempre. E torniamo lì, mille volte ad abbracciarlo, sollevarlo, sorridergli, accoglierlo, in una dimensione nuova. Nessuno, dopo aver perso una persona, può guardare solo avanti. Più persone care lasciano il nostro cammino più ci si affatica a procedere nel caricarsi coloro che sono rimasti indietro.

Chi muore resta in chi vive, sembra questo il suo compito. Lì la sua casa, e spende tutta la vita per restare in eterno di anima i anima. E la morte ci attraversa tutti.

L'amore liquido






Tanto tempo fa, ma proprio tanto tempo fa, l'uomo si proponeva alla sua amata e lei, se d'accordo, gli diceva di sì. 

L'uomo sapeva come conquistare una donna, ed era capace di cose al limite del possibile pur di averla. La donna, a sua volta, non si permetteva di avvicinare un uomo per dirgli quanto le piacesse. 

Oggi anche le donne arrivano a proporsi, anzi a volte sono loro a corteggiare fino a far capitolare il prescelto. Molte sono capaci di smantellare situazioni affermate pur di accaparrarsi l'uomo. 

Non c'è un vero e proprio corteggiamento, tutto avviene tramite social. Ci si incontra dopo una battuta scambiata, una risposta a una pubblicazione, a una foto carina. Un cuoricino sbucato da qualche parte, una visualizzazione di troppo. Si sta continuamente a controllare le risposte, i commenti, i tempi intercorsi tra un'azione e l'altra. Così ci si vede. La parola giusta è frequentazione, il tempo in cui ci si conosce e si spera scatti qualcosa, rendendosi conto se sia il caso di procedere o fermarsi. Così si vive  lo stare insieme: fatto di serate piacevoli, senza stress, senza domande, senza problemi. Si vive il momento, evitando tutte quelle che sono le tradizioni, le considerazioni, le problematiche, i riti di una volta. La donna, rispetto all'uomo, vuole certezze e quando non le trova, parte col suo "hermaneutic labor" cioè quel lavoro di interpretazione  ponendosi frasi del tipo: che cosa sono per lui, che cosa possiamo diventare insieme, gli piaccio, sta bene con me? Cosa saranno questi silenzi? Perché non mi parla? Forse non sono il suo tipo?

E poi da sola si dà le risposte: "Se non gli piacessi, uscirebbe mai con me? Forse avrà avuto una brutta esperienza per andare così cauto. Avrà paura di essere lasciato. Non vuole sbilanciarsi. Se non fosse serio, non mi avrebbe fatto il filo!" Come se la serietà bastasse ad amare.

Il filo, proprio così, qualcosa di così sottile che facilmente può spezzarsi! Forse non c'è nemmeno stato. Ma poi lei riparte a far finta di niente, convinta che si stia facendo troppe domande. E allora comincia a chiedersi se siano una coppia, innamorati, fidanzati o cos'altro? 

 Oggi più passa il tempo più è difficile trovare l'anima gemella senza sfociare anche negli interessi. Non si parte dal sentimento ma dal ragionamento. Ma se chiedi all'altro se sia innamorato di te, ti risponde che gli piaci, che non è la risposta alla tua domanda; se vuoi sapere che cosa siete insieme, ti risponde che state bene, ma non ti dà la risposta alla domanda; se accenni a dei programmi da fare insieme, ti risponderà che la vita è ora e non bisogna farsi troppi  problemi per il futuro.

Oggi non ci sono progetti, il futuro non è preso in considerazione e se non fosse per procreare, nessuno avrebbe l'esigenza di mettere su famiglia. I "bambocci" di una volta prendono casa anche da single e chi si attarda a farlo, ti dirà che non se la sente di lasciare da soli mamma e papà.  Un figlio va programmato per dargli non il meglio ma il superfluo. E se i conti non tornano, si devono aspettare tempi migliori. Sempre che il rapporto duri. 

Ma senza un minimo di progetto, senza risposte convincenti, in situazioni sempre provvisorie, sempre lì con il timore che possa spezzarsi tutto, dove, se stai bene al momento, si va, se invece cominci a dare fastidio, fare domande, cercare certezze, può giungere al ghosting, e non ti spieghi come sia scomparso all'improvviso, allo stesso modo di come sia comparso nella tua vita, che vita è?

 Ma l'amore va oltre l'apparenza, la bellezza e la piacevolezza dell'essere giovani e belli e funzionare alla grande è solo un inizio, che non basta per entrare in un rapporto a due.

L'amore, sentivo da qualche parte "è una capacità", aggiungerei di approfondire, comprendere, curare, coltivarsi in modo reciproco. È sempre presente un certo individualismo anche in coppia e non si adotta facilmente il plurale "noi", in continuo conflitto con "l'io". Il conto si paga in due, ciascuno esce con i propri amici, si hanno interessi lontani l'uno dall'altro, gusti diversi, così come le famiglie di provenienza sono delle perfette sconosciute. 

Quello che manca è proprio la relazione, quel confronto e dialogo indispensabili per comprendersi, entrare in sintonia ed essere uno e non più due.  Si preferisce rimanere con i propri pensieri, le proprie scelte, la propria autonomia, le proprie finanze, i propri errori e l'altro non deve interferire minimamente. Ma che relazione sarà mai quella priva di fiducia, e di stima, nei confronti dell'altro? Si scambia la conoscenza con lo stare insieme 24 ore, per poi, appena lontani, non riconoscersi più.

L'amore non si mostra ai superficiali ma a coloro che hanno pazienza di apprendere, di comprendere, di leggere anche l'impossibile, di apprezzare, di entrare in un'altra vita, ed entrarci per volerci stare e non scappare al primo problema, discussione o impedimento. 


I pastelli


                                             Lavoro di Molly Gambardella                                                 

Sin da bambina ho amato i colori. I pastelli avevano il potere di colorare la realtà, trasformarla o crearla  a mia misura. Non era per estraniarmi ma per mettere radici in essa e declinarla, arricchirla, rafforzarla. E pur tenendo gli occhi aperti, sognavo. Non solo davo vita al disegno, ma stendevo sul foglio una rappresentazione lasciando agire i personaggi. Da qui forse anche la passione a scrivere. I miei eroi dovevano parlare, vivere, realizzare i loro sogni. A lavoro finito spiegavo agli adulti quello che proponevo  e i loro"perchè" avessi fatto in quel modo o chi fosse il tal personaggio,  erano, per me, lo stimolo a farne altri, dando vita ad altre narrazioni.

Sin dal primo appoggio della penna sulla carta ricordo anche i pastelli. All'inizio li utilizzavo per la loro delicatezza anche quando scrivevo: avevo l’illusione di non stropicciare il foglio, di poter cancellare meglio o di rendere con i colori le parole più intense. Le mie scatole "Giotto" erano da sei, dodici, o trentasei. Conoscevo i colori e li confrontavo con le cose reali. Spesso mi alzavo dal tavolo per portare il pastello sul pane, accanto all’uva, sulla bottiglia, sulle mele, per verificare la tonalità reale. Quando non mi convinceva,  sfumavo, o ne sovrapponevo un altro, o cancellavo per alleggerirlo. Temperare era sempre una tortura: vedere sotto gli occhi il pastello assottigliarsi mi faceva star male oltre a farmi sentire in colpa. Lo avevo ridotto io in quello stato! Allora era tempo di metterlo a riposo. Quando li riponevo, dovevano essere tutti temperati e allineati. Il disordine nasceva sul tavolo quando cominciavo le mie sedute artistiche. Mi concentravo solo sul foglio, tirando fuori, senza guardare, quelli che servivano. Alcuni cadevano a terra, qualche altro finiva sotto un mobile e, pur accorgendomene, aspettavo di finire. A lavoro ultimato avevo sotto gli occhi quella che di mattina era solo un’idea, lasciandomi stanca ma soddisfatta. Tutte le mie energie convogliavano sul foglio. Usavo pastelli, dita, penne, molliche di pane per schiarire. Col tempo il materiale aumentava con righe, righelli, compasso. Era il tempo delle proiezioni, del punto di fuga, le strade con gli alberi in lontananza, l'orizzonte da definire, i dettagli da esaltare, i colori da ravvivare in un disegno sempre più preciso e dettagliato.

Poi sono arrivate le scatole di pastelli professionali, al disegno si aggiungeva la pittura e le mie librerie nascondono, ancora oggi, fogli e fogli di prove, di studi da riportare su tela e disegni  di particolari da studiare. I pastelli sono sempre stati oggetti preziosi per me. Il miglior profumo che avessi mai avuto era quello dei colori stemperato addosso, che si spargeva nella stanza quando disegnavo. E ancora quello strusciare o sfregare ora con mano leggera ora più a fondo sul foglio, che girava sotto le mani e che finiva solo quando non c'era nessun altro spazio da riempire. 

Eppure quando vedevo amici e compagni con kit superaccessoriati di ogni tipo di colori, per me restavano scatole vuote e senza calore: non le aprivano mai per non consumare i pastelli. Non erano esplorate come le mie quando tiravo tutto fuori e riponevo solo alla fine. Facevano la loro figura di accessorio scolastico a mo' di suppellettile. Le mie erano attive, fremevano sotto le mie mani e tra le dita, sapevano cosa stavano raccontando o cosa colorare, a chi stavano dando vita. Sapevano di quel profumo che, sin da piccoli si identifica con la scuola. Spesso gli stessi compagni, che avevano queste valigie da architetto, mi chiedevano di disegnare per loro e in due minuti vedevano sotto gli occhi la realizzazione di quanto richiesto. Poi, osservandoli come si approcciavano al foglio, invadendo gli spazi con un colore che non si addiceva o fuoriuscendo dai bordi, e trasformando quel disegno, che avevo fatto con tanta cura, in qualcosa di indecifrabile, coloravo io.

Ricordo anche che quando temperavo i pastelli, raccoglievo i pezzi dal temperamatite come fossero lenzuolini in miniatura da conservare. Avevo la scatola dove adagiarli per riutilizzarli in una sorta collage al disegno, trasformandoli in ombrelloni, ventagli, vestiti femminili o coperture di tetti. Tra l’altro rendevano il disegno tridimensionale lasciandolo emergere dal foglio. 

Il mondo per me è sempre stato a colori e l’arte il luogo dove vivo a mio agio. Tutto nasce dal niente, da un colore o da una parola. Che sia scrittura o dipinto i colori entrano prepotentemente in ogni lavoro. Oggi i pastelli mi accompagnano anche nella scrittura o nella lettura, come quando sottolineo le righe con sottilissime linee di colori diversi  per ricordare una frase o voler evidenziare qualcosa di interessante o di nuovo, qualche sinestesia od onomatopea o altra figura retorica. Sulla scrivania ci sono sempre due portapastelli stracolmi che quando scrivo mi fanno compagnia, ispirandomi con quelle punte colorate rivolte in alto. A volte, quando sono al telefono, disegno qualche ragnatela e riempio i suoi spazi di colori diversi, trovandomi alla fine con un disegno che ritaglio e infilo in qualche libro. 

 




Quarto potere

 


"Quarto potere"è un film capolavoro della storia del cinema del 1941, diretto e interpretato da un giovane Orson Welles che allora aveva appena 25 anni.

Richiama la funzione della stampa in democrazia, appunto definito "quarto potere" accanto a quello esecutivo, legislativo, giudiziario. Tra i temi  principali dell'opera, oltre al potere dei media, il falso mito del successo, la solitudine, la perdita dell'innocenza, l'impossibilità assoluta della verità su una persona.

La storia è quella di un magnate dell'informazione: Charles Forster Kane che in punto di morte pronuncia la parola "Rosebud". Parola misteriosa che diventa per il giornalista Jerry Thompson, il motivo per indagare sulla persona affinché ne scopra il significato. E lo fa attraverso una serie di interviste a personaggi che hanno conosciuto il magnate, costruendo in questo modo la sua storia con una serie di flashback.

Il giornalista scopre che Kane è stato cresciuto da un banchiere, strappato alla sua vera famiglia, costruendosi una vita di grande uomo d'affari. Il protagonista è alla ricerca dell'amore e del successo, ma alla fine trova solo solitudine.

La storia si ispira a un editore americano di quel tempo William Randolph Hearst, che come editore ambiva a dar voce al popolo, ma lentamente l'idea si trasformò, diventando una possibilità di plasmare le menti dei suoi lettori con distorsioni di notizie, campagne politiche pilotate, capacità di trasformare il pensiero collettivo.

Alla fine lo spettatore apprende che "Rosebud" è il marchio dello slittino della sua infanzia, che qui assume il simbolo dell'innocenza, del tempo che non ritorna più e che né il successo né il potere hanno colmato. Attorno a sé si crea un vuoto, anzi sembra quasi si crei un paradosso: più ha successo più resta solo. 

Il film portò innovazioni e tecniche rivoluzionarie per il cinema: la profondità di campo, l'utilizzo, in modo adeguato, della luce e delle ombre, una ricostruzione non lineare ma in base all'occorrenza dei tempi della storia, anticipando la modernità. Il film mostra anche una certa lentezza nello scorrere delle scene e una freddezza se confrontiamo la pellicola con quelle di oggi.

Dopo ottant'anni il film è di grande attualità poiché ancora oggi c'è il rischio che la verità sia stravolta lasciando molto spazio al sensazionalismo mentre l'informazione riduce il pubblico a una passività pericolosa oltre a non informare.

Il ruolo storico del giornalismo è quello di sorvegliare, spiegare e denunciare l'operato degli altri tre poteri. Un potere nato per controllare deve essere libero di informare senza pressioni e senza cadere nelle spire della politica e assurgere a cassa di risonanza dei partiti. Ma soprattutto essere bilanciato da etica e responsabilità senza le quali potrebbe diventare una vera tirannia invisibile, capace di orientare, influenzare e distruggere. Negli ultimi decenni l'informazione è cambiata: la carta stampata ha perso importanza con la nascita dei canali sociali che informano prima ancora della pagina di giornale. Notizie che si rincorrono non sempre tratte da fonti sicure e certe, ma per il semplice fatto di battere sul tempo e con una lettura a portata di mano con lo Smartphone, sembra che tutti abbiano in mano il mondo. La velocità batte la qualità ma navigano anche tante notizie spazzatura che più che informare inquinano e confondono. 

 Alla carta stampata resta sempre il valore della notizia certificata, quella che non ha bisogno di correre dal suo lettore ma lentamente il lettore se la va a cercare. La velocità di reperire notizie crea mostri come fake news e altro solo per riempire monitor, tablet e telefoni. Ma tutta questa velocità non fa informazione. Si è perso l'uso del pensiero, del confrontarsi prima di scrivere, dell'accertarsi prima di mandare online. Scrivere richiede tempi lunghi, la notizia va cucinata, pesata, compresa. Il ruolo della carta stampata è ancora fondamentale per i contenuti verificati, contestualizzati, approfonditi e batte con la credibilità la visibilità di una notizia continuamente ripresa come un tam tam ma vuota e inutile oltre che dannosa.

Il giornalismo non deve lasciarsi prendere dal potere mediatico che oggi ha acquisito nuove forme anche più persuasive rispetto a ieri. Nel film il protagonista, man mano che conquista il mondo mediatico, perde il suo legame con l'umano. Mette in luce che la logica capitalistica e narcisistica può guidare chi controlla. Il rischio è di ottenere una realtà distorta, presentata il modo sensazionale, riducendo il lettore a persona passiva.



Giornate silenziose

 


I giorni di pioggia o come oggi  senza sole, con cambiamenti durante l'arco della giornata portano non solo a un silenzio nell'aria ma anche interiore. L'autunno è più un luogo che una scansione temporale. È il luogo interiore dove si dà voce a parole mai prese forma, a pensieri un po' accartocciati, come le foglie, a idee accantonate come se non avessero la forza di emergere. E nel silenzio ci si riconosce, ci si legge, ci si sente. I giorni preferiti dal silenzio sono quelli dove esternamente tutto tace, tutto si assopisce, resta muto. Ma interiormente quel silenzio, quella pace dona una migliore lettura delle cose. Anche il vino per acquisire sapore deve decantare, tacere nel tino fino alla spillatura, quando le bollicine che emette versandolo nel bicchiere danno consistenza e corposità.

Così il silenzio ci pone non in una chiusura, ma in un ascolto maggiore, capace di comprendere tutto. Nelle giornate vuote e di cambiamenti climatici e stagionali, di pochi rumori e azioni, quando si sente solo la nostra esistenza fatta di battiti e lentezza, riusciamo a leggere tra le righe nel nostro io.

Molti hanno paura di questo silenzio, poiché sempre emerge dalla sua quiete una riflessione nuova o un'epifania non distinta prima, una lettura migliore di ciò che ci preoccupa o ci dà gioia. 

E molti, allo stesso tempo, invece di prendere atto di ciò che accade interiormente, riempiono il silenzio pur di non sentirsi. Rimandano, non hanno voglia di farsi attanagliare dai pensieri e odiano a morte momenti come questi. Il rumore spesso è un pretesto per riempire la paura di non saper gestire  i vuoti della parola, di non riuscire a stare in propria compagnia. Siamo interlocutori assenti di noi stessi e per metterci in moto abbiamo bisogno di intermediari, di qualcuno esternamente che tiri fuori quello che accumuliamo con tanta cura.

C'è il silenzio di chiusura e quello di timore, di preoccupazione o di stanchezza, di aver sentito abbastanza, di tenersi lontani dal mondo, di scendere in se stessi e ritrovarsi.

Non è così facile ritrovarsi, a un tratto, restando in compagnia del silenzio. È come prendere possesso di chi siamo, non più quelli che eravamo prima ma diversi, ogni giorno un po' diversi da ieri. E abbiamo paura che questo processo continuo in noi non ci faccia riconoscere più. Il silenzio rende tutto più chiaro. Fa luce su punti rimasti in ombra, su piccole nostre certezze che non vanno abbandonate. Il silenzio dentro rispecchia quello esterno, un processo parallelo alla natura che si allinea a noi. 

Giornate più lente, più buie, più corte, tutto sembra favorire un andamento naturale dentro e fuori. Il silenzio come cura, o ricarica senza alcun intervento esterno. Il rumore occulta molte cose e spegne ciò che si vede bene solo nel silenzio. In questa fase siamo ottimi ascoltatori, osservatori, psicologi, educatori di noi stessi. E non è mai un processo veloce, sempre lento, continuo, chiaro. A volte diamo esternamente l'immagine di chi contempla un aspetto della natura di un paesaggio, un orizzonte, un qualcosa fuori, in effetti stiamo solo leggendo dentro attraverso il mondo intorno a noi. Riusciamo ad ammettere, solo in questo caso, tutto ciò che non diamo a parole, conosciamo meglio i nostri pensieri che spesso sono costretti a sottostare alle proposte degli altri. È la forma di comunicazione più complessa ma anche veritiera. Non ci si inganna, si approfondisce senza alcuna difficoltà, si scende nei nostri abissi spaziando nei suoi meandri.

Sarà per questo che durante l'autunno, quando le giornate sono uggiose o prive di sole, l'attenzione cade su di noi, sui nostri sentimenti e le nostre emozioni, rendendoci malinconici e nostalgici. Bisogna saper accogliere questi momenti come stabilizzatori del nostro animo, senza paure e senza negligenze. È semplicemente un appuntamento con noi stessi. Ed è proprio il silenzio che si mette a parlare di noi.

Santa Teresa D'Avila

 


                                 Dipinto di Rubens

 Nacque il 28 marzo 1515 ad Avila, in Spagna, morì il 4 ottobre 1582. Fu una religiosa carmelitana, mistica, scrittrice. Nel 1970 è diventata la prima donna a essere proclamata "Dottore della Chiesa", riconoscimento che sottolinea l’importanza del suo pensiero teologico e spirituale.

Teresa entrò giovanissima nel convento carmelitano di Avila, ma solo dopo una lunga crisi interiore abbracciò la vera e profonda fede. Fu colpita da gravi malattie e attraversò un periodo di sofferenze fisiche e spirituali che la avvicinarono ancora di più a Dio. Proprio durante queste esperienze nacquero le sue prime visioni mistiche, che divennero il cuore della sua spiritualità.

Nel 1515, la Spagna era uno dei regni più potenti d’Europa, guidata da una monarchia fortemente cattolica e centralizzata. Il paese era appena entrato in una fase storica di grande espansione e prestigio: Carlo I di Spagna divenne re nel 1516 e nel 1519 anche imperatore del Sacro Romano Impero con il nome di Carlo V. Era uno dei sovrani più potenti della storia europea, con territori che si estendevano dall’Europa centrale all’America.

Fu l'epoca dell' espansione coloniale, con Cristoforo Colombo che aveva scoperto l’America appena vent’anni prima, nel 1492, con le spedizioni di Hernán Cortés in Messico nel 1519, Francisco Pizarro in Perù nel 1530. 

Siamo nel periodo della Riforma protestante, 1517, iniziata con Martin Lutero che mosse critiche alla Chiesa cattolica ormai in crisi: corruzione, simonia, eccessiva ricchezza  del clero. Questo avrebbe avuto enormi ripercussioni in tutta Europa portando alla Controriforma cattolica, che reagì col Concilio di Trento tra il 1545 e 1563, e a cui Teresa contribuì profondamente con la sua opera riformatrice e mistica.

In seguito a questi eventi ci fu anche una Riforma dell'Ordine Carmelitano, fondata sulla preghiera, la povertà e l'interiorità, che si inserisce in questo grande sforzo di rinnovamento della vita religiosa. 

Si diffondevano anche in Spagna le idee dell'Umanesimo con una rinnovata attenzione all'uomo, alla letteratura classica, alle arti e alla filosofia. Nel 1478 fu istituito il Tribunale ecclesiastico dell'Inquisizione, che vigilava sull'ortodossia della fede cattolica. Anche Teresa fu sospettata per le sue visioni mistiche e i suoi scritti, ma mai condannata. In questo contesto turbolento la sua voce si fece sentire con forza, portando un messaggio di rinnovamento interiorepreghiera profonda e amore autentico per Dio.

I suoi scritti sono profondi e allo stesso modo pratici, e ancora oggi studiati. Tra le sue opere "Il Castello Interiore", uno dei capolavori spirituali. Pubblicato per la prima volta nel 1577, l'opera rappresenta il culmine del suo pensiero mistico e teologico. Teresa, con il suo stile diretto e profondo, descrive il cammino dell'anima verso Dio attraverso l'immagine di un castello formato da  sette stanze o "dimore", che corrispondono ai vari stadi del cammino spirituale. L'immagine del castello è inteso come un percorso simbolico che rappresenta il viaggio dell'anima verso la perfezione, la santità e, infine, l'unione con Dio. Un tema centrale del "Castello interiore" è la lotta spirituale. Teresa sottolinea che, sebbene il cammino  verso Dio sia lungo e difficile, è anche il percorso di una continua purificazione dell'anima. Le difficoltà interiori, le tentazioni e le sfide non sono ostacoli insormontabili, ma opportunità per rafforzare la fede e approfondire la relazione con Dio.

La preghiera contemplativa, che è una delle caratteristiche distintive dell'opera, non è semplicemente un atto di meditazione, ma un atto di completo abbandono a Dio. La vera preghiera è uno stato di presenza e ascolto profondo di Dio. È attraverso questo tipo di preghiera che l'anima entra nelle dimore più elevate del Castello.  

La sua vita è un invito a cercare Dio non fuori, ma dentro il cuore, dove, come scriveva lei stessa, “Dio solo basta”.


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