La festa dei nonni

 







Oggi, 2 ottobre, festa dei nonni. Rappresentano le radici della famiglia, l'anello di congiunzione tra passato e presente. Molti aiutano nella gestione dei nipoti quando i genitori lavorano, li accompagnano a scuola, controllano i compiti, li accolgono per lunghi periodi. I bambini ricordano anche ai grandi la loro infanzia con una fase di ritorno a quel tempo, migliorando il legame all'interno della famiglia. È un tornare di nuovo a casa dove ogni persona diventa una preziosa presenza che ridefinisce valori e affetti.

I nonni di oggi sono diversi da quelli del passato, hanno una vita autonoma, piena di interessi, ancora nel pieno delle loro attività, con impegni da fare invidia ai giovani. Hanno un aspetto curato, usano i social e conoscono la tecnologia. Chi si aspetta il nonnino che legge il giornale col bastone e la nonnina che sferruzza un maglioncino, si sbaglia. Potranno anche leggere e sferruzzare, ma come ultima cosa in una giornata interminabile. I nonni di oggi lavorano a computer, vanno in palestra, seguono corsi vari, e sembra non vogliano lasciare quello che per anni è stato il loro stile di vita.

Tutto questo non pregiudica il rapporto coi nipoti. Per i nonni sono una ventata di freschezza: non danno le ansie vissute con i figli, si capiscono al volo, in un rapporto privo di divieti che infliggono i genitori. Vivono una seconda fase di genitorialità con i figli dei figli. Il rapporto tra loro è molto più disteso: non è attanagliato dal dovere o dalla responsabilità. 

Trasferiscono anche tante notizie, storie, ricordi, sia della loro vita che dei loro genitori. Attraverso una tradizione orale si trasmettono testimonianze significative, che restano indelebili nella mente e nel cuore dei nipoti. Raccontano vita vissuta con uno sguardo sui tempi che cambiano, consuetudini, usi e costumi. Detengono un patrimonio prezioso di vita di grande esempio per le nuove generazioni. E non mancano casi quando i nonni, per importanti motivi, prendono il posto dei genitori assumendosi la completa responsabilità dei loro figli. 

Mia nonna, da bambina, mi raccontava che c'era un giorno al mese in cui si incontrava con la nonna paterna per rammendare le lenzuola del corredo con strappi o altro. Immaginavo le due nonne a tagliare e cucire, ogni tanto un battibecco, mentre riducevano il lenzuolo in strofinacci rifiniti di orli e ricami. Era un vero laboratorio. Da adulta, ho preso anch'io quell'abitudine. Così come mio nonno mi ha trasmesso l'amore per la natura spiegandomi, durante le nostre passeggiate nei campi, come proteggere le piccole piante, i rami, la posizione da assumere per falciare l'erba o piantare semi. 

I nipoti di oggi sono tutti figli della tecnologia, con una grande abilità a muoversi tra questi aggeggi da far impallidire anche il nonno più moderno.

I nonni oggi più che le fiabe raccontano fatti, dialogano con loro come se fossero adulti. Ci sono bambine che insegnano "l'outfit check"  prima di uscire alle nonne, che prendendo esempio da loro, si guardano allo specchio, pronte per uscire, mentre fanno un selfie e controllano se la "mise" per l'occasione è giusta. E, se la beccano con un boccolo fuori posto, sono capaci di farle la piega in un baleno. 

Per non parlare della difficoltà dei nonni nell'acquistare i giocattoli. Molti sono rimasti a Mazinga, Voltron, al Commodore 64 o alle bambole classiche mentre oggi c'è ben altro, in gran parte giochi elettronici. I nonni trovano sempre il modo di accontentare i nipoti, mentre i genitori cominciano a mettere regole: quando e quanto deve mangiare, a che ora fare i compiti, a quante palestre e feste può recarsi e a che ora può guardare la TV e per quanto tempo, quando e se lavarli, con quale sapone, che tipo di sugo, quanto zucchero...

Diciamo anche che i genitori di oggi sono ossessionati da metodi, diete, cure per i figli secondo la moda, mentre non conta, per loro, l'esperienza dei nonni. È anacronistico approcciare metodi come quello della Montessori o di Steiner e bandire la realtà in cui vive il bambino con un accanimento nel seguire alla lettera protocolli non sempre migliori.

Le apprensioni non mancano mai, nemmeno con i nipoti, ma i tempi cambiano e ci sono atteggiamenti diversi. Ciò che una volta era normale oggi è fuori luogo. I nonni sanno regalare esempi, conoscenza ed esperienza. E dal momento che hanno già vissuto quello che preoccupa oggi i genitori, sono più distesi e relazionano meglio con i nipoti.





Domenica in cucina

 

                                                            



La domenica mattina, soprattutto di questi tempi, quando l'aria comincia  a raffreddarsi, il sole è più pallido e il silenzio avvolge la casa, mi piace fare colazione con calma. E mentre sorseggio il caffè, ascolto musica, guardo qualche spezzone di film, leggo le notizie del giorno.

Ma il cuore delle mie domeniche è la cucina. Ed è una vita che la domenica la vivo in cucina. Una volta come figlia ora come padrona di casa. Ho l'onere di decidere il pranzo, scegliendo piatti che piacciano a tutti. Così condivido le idee in merito per sapere cosa ne pensano gli altri e non manca, in questa fase, qualche battibecco sulla scelta del menù. Intanto c'è chi si sveglia e scompare, chi si alza a mezzogiorno e mi rimprovera di averlo svegliato con un rumore di pentole e coperchi a sbattere su tutti i fronti.

Impastare per me è quasi una cosa naturale. Che siano gnocchi, crepes, tagliatelle, pasta fatta a mano va sempre bene. La farina non manca mai a casa mia e mettere le mani in pasta attiva la parte più creativa di me. Mi copro con un ampio grembiule, raccolgo i capelli, predispongo tutto l'occorrente intorno. Una volta deciso il menù, c'è sempre qualcuno che mi chiede perché e per come abbia deciso così. Poi aggiungono che lavoro troppo, cominciano col dire che bastava un po' di pasta e una fetta di carne. Non solo mi metto al lavoro, devo anche sentire tutti questi convenevoli che non fanno altro che innervosirmi. Nessuno che dica:"Brava, desideravo proprio queste tagliatelle", oppure:"Gli gnocchi? Da quanto tempo, ottima scelta!" Più il pranzo si fa elaborato più aumentano le critiche:"Sei la solita esagerata!" Oppure:"Non ne potevi fare a meno?" Immaginate di lavorare con questi detrattori intorni mentre siete intenti a pesare la farina, sbattere le uova o scaldare le patate. 

E anche col piatto a tavola sono capaci di dire:" Ma non te la potevi risparmiare questa fatica? Li andavamo a comprare. Sei una masochista!"

La cosa più insopportabile è quando mi dicono, pochi minuti prima di mettersi a tavola, che non mangiano il primo, e qui la mia pazienza finisce. Questa è una storia da anni e io non sento più ragioni, accendo la musica e preparo senza ascoltare più nessuno.

Ogni donna trasferisce il proprio vissuto di quand'era piccola nella vita da adulta e  cucinare per me è sempre stato qualcosa di creativo sin da bambina. Certe immagini e ricordi restano dentro e si ripetono anche nelle epoche successive. A questo si aggiunge il carattere e allora non bastano gli gnocchi, ci vuole, oltre al secondo, anche il dolce e parte una torta di mele, un contorno elaborato, un piatto che non puoi fare negli altri giorni.

La domenica, per me, ha il sapore del piacere di preparare il pranzo per la famiglia dando al cibo un valore affettivo; della meditazione accanto ai fornelli, con i fuochi accesi, la musica, le pentole che gorgogliano, i profumi che invadono le altre stanze, mentre preparo tutto con cura.

E resto ai fornelli fino al pomeriggio inoltrato. Una volta cucinato bisogna pulire in modo approfondito, soprattutto se si è lavorato con la farina che si infiltra in ogni fessura, imbiancando come la neve. Dopo pranzo il divano accoglie le sieste di chi deve digerire, mentre continuo senza sosta a fare pulizie. Ai fornelli mi arrivano le più belle immagini, pensieri, ricordi, storie, come se cucinare fosse un'attività distensiva e non stancante. 

Tra le altre cose giro per il terrazzo a pulire i vasi, organizzo la lavatrice, ordino il bucato ritirato, lavo a mano, metto in ordine la casa. A questo punto la giornata è finita e sono anche stanca. La serata la riservo per le mie attività: scrittura, lettura, correzioni, qualche film.  

Appena scattano le ore 20.00 in punto, qualcuno comincia s stendere di nuovo la tovaglia per la cena. Poi si affacciano nello studio, dove mi rintano, per chiedermi se devono apparecchiare anche per me. Dopo due secondi hanno già tirato fuori l'impossibile dal forno, dal frigo, dalla dispensa: la parmigiana, la pasta al forno, il dolce e tutto quello che c'è di buono. E se dici loro che poco ore prima avevano detto che sarebbe bastato un po' di pasta e un piccolo secondo, mi rispondono che, visto che c'è tutto quel ben di Dio, non possono fare a meno di non mangiare, oltretutto sarebbe un peccato.

E così fanno fuori, in men che si dica, quattro o cinque ore passate ai fornelli!

Qualcuno potrà pensare che io cucini solo di domenica, invece il giorno dopo parte di nuovo la maratona, almeno due ore prima di pranzo. Il pranzo sarà meno elaborato ma sempre di ottima qualità. E se qualche volta si va al ristorante, per spezzare la routine, al ritorno mi mancano i miei piatti, la mia cucina curata anche per la scelta degli ingredienti, a cominciare dall'olio. E mi chiedo cosa ci abbiano fatto mangiare. In aggiunta la mia cucina sembra quasi inospitale, mancano gli odori e tutto ciò che resta nell'aria anche dopo aver pulito alla perfezione.

Cucinare è come amare, o ci si abbandona completamente o si rinuncia, secondo Harriet Van Horne.



La felicità è una direzione

 


Ci sono persone che ci travolgono con la loro vitalità e altre che ci intristiscono con il loro approccio alla vita.

Dovremmo essere fortunati a trovare sempre quelli della prima categoria e invece sono i secondi a viverci accanto o incontrare di frequente.

Il carattere dice molto e spesso non ci rendiamo conto che il nostro essere influenza chi ci sta intorno. Mostrare un approccio sereno e gioioso verso la vita ne vale della nostra relazione con gli altri. Spesso una buona cultura e conseguente educazione forniscono un buon carattere, ma non sempre lo garantiscono. Si incontrano persone di malumore e biliose, colte o meno che siano. Ciascuno di noi è responsabile di chi ha accanto, di ciò che apprende da noi: i nostri comportamenti, pensieri, azioni, coinvolgimenti possono rivelarsi fondamentali per l'altro, che sia un amico, un vicino, un figlio, un parente, chi ci sta affianco.

Molti usano gli altri solo per scaricare le loro tensioni di conflitti irrisolti come se fossero contenitori in cui infilare la loro insofferenza. 

Alcuni lo fanno inconsapevolmente, ma altri ne sono ben coscienti e l'intenzione è proprio quella di fare del prossimo una cavia. La persona più vicina diventa il secchio dove buttiamo continuamente cattiverie, offese, negligenze. Sembra che ognuno si scelga il martire cui ricorrere quando è incapace di controllare la sua avversione alla vita con una carica di negatività pericolosa.

In questo caso non relazioniamo con gli altri ma gli tiriamo addosso quello che di peggio abbiamo.

La felicità è uno stato più che un fatto che accade, e se non siamo felici con noi stessi, contenti di esserci, di quello che ci vive intorno, di quello che abbiamo, di ciò che facciamo, saremo persone aride per gli altri.

Ci sono pessimismi che partono già a prima mattina, facce appese senza aver fatto o visto nessuno, chiamarsi il peggio prima ancora di vedere il sole. Questo atteggiamento lede principalmente chi ne è portatore. Produce malumori, tensioni, cattiverie, offese che, una volta attuate, possono rivelarsi responsabili dell'infelicità altrui.

Per questo bisogna accerchiarsi di cose e persone positive: la lettura di un buon libro, un buon film, una persona sincera, abitudini sane, tutto ciò che contribuisce a fornirci un armonioso equilibrio interiore. Se lo siamo noi, lo saranno anche quelli intorno a noi. La felicità e lo stare bene sono contagiosi e siamo responsabili  del nostro campo gravitazionale: chi ci influenza e chi influenziamo. È una catena, la felicità, qualcosa che contagia e dobbiamo investire forze e volontà per renderla attuabile. Produrre pensieri solari è per un verso dovuto al nostro carattere ma per un altro alla volontà di correggersi quando le nostre idee non ci piacciono. Quelli negativi vanno cancellati, creando un database di idee chiare, forti, interessanti, piacevoli che contribuiscono a fornirci la nostra piccola felicità. 

Tra le cose negative bisogna spezzare tutto ciò che ci fa star male, ci opprime, ci distrugge mentalmente, ci rende indifferenti, bui, tristi, pesanti.

La via per la serenità è data da piccole cose: come una giornata di sole, la bellezza di un mare invitante, la vista un amico atteso, una passeggiata solitaria benefica, un silenzio in cui incontriamo ricordi piacevoli, un aiuto a qualcuno, la gentilezza a cominciare con noi stessi. Vivere secondo il nostro essere e non per quello che gli altri ci chiedono. La felicità è fatta anche di scelte, un passo dopo l'altro lungo il nostro percorso. 

La felicità è una direzione, non un luogo, come dice l'autore giapponese H.Murakami

Analfabetismo funzionale

 



Nonostante accanto al citofono di un centro medico ci sia tanto di cartello con il numero da digitare sulla tastiera e con scritto dove dirigersi, una volta entrate all’interno, puntualmente le persone si disperdono e vanno a zonzo. C’è chi sale le scale arrivando al secondo piano, chi gira per il portoncino sotto il garage, chi si ferma a guardarsi intorno non sapendo dove andare. Uno dei medici è andato a controllare se la scritta fosse chiara, aggiungendo una freccia rossa per indicare di girare subito a sinistra appena all’interno. Niente da fare. Le persone continuano a bussare a tutti i condomini invece di digitare il numero giusto e poiché i pazienti arrivano a gettito continuo, è impossibile fare altro, per chi vi abita, se non rispondere continuamente al citofono nelle ore di studio.

Qualcuno ha addotto, come causa dell'incapacità a digitare il numero giusto, l’orario d’inizio studio, alle ore 15,30, dicendo che a quell’ora, stando ancora sulla digestione, è possibile che ci sia poca attenzione; qualche altro ha optato per una spiegazione più severa: sono persone ignoranti. Con un po’ di attenzione invece hanno scoperto che la maggior parte ha un titolo di studio, molti professionisti, solo raramente sprovveduti che, paradossalmente, sanno come comportarsi e dove dirigersi. E i medici continuano a chiedersi che cosa ci voglia per andare a sinistra del cortile, una volta entrati all’interno, invece di salire.

Com’è possibile che davanti a un cartello semplice e chiaro la gente non capisca. Ormai i medici hanno rinunciato a cambiare o scrivere altro, mentre le segretarie vigilano attraverso il monitor della telecamera l’afflusso fuori, pronte a intervenire. Ma non è solo la difficoltà di comprensione. Altra cosa che accade è quella di parcheggiare davanti al cancello d’ingresso con tanto di cartello “Divieto di sosta”. Si fermano a metà passo carrabile impedendo alle macchine dall’interno di uscire. Questo comporta chiamare il carro attrezzi frequentemente e far prelevare la macchina di turno. Al ritorno, il proprietario dell’auto si accorge delle videocamere e chiede che fine abbia fatto la sua auto.

Già Tullio De Mauro, linguista, saggista e ministro dell’Istruzione nel governo Amato, aveva denunciato in Italia un’ignoranza notevole, con persone incapaci di leggere ed eseguire. La maggior parte ha difficoltà di comprensione, legge ma non capisce, non riesce e non sa mettere in pratica ciò che legge.

Ma la lettura di un testo è relegata al solo periodo della scuola, dopo, prendere un libro è sempre più difficile. Salta completamente la concentrazione e la comprensione affidandosi sempre più alla tecnologia che opera per noi. Si è molto più bravi a fare un’operazione con lo smartphone che eseguire un’azione in seguito alla lettura di indicazioni. Molte persone hanno bisogno di altre per capire quello che leggono. È come se davanti a uno scritto il cervello si rifiutasse di elaborare ciò che vede. E così, un semplice cartello affisso da qualche parte, che dovrebbe aiutarci a comportarci in un certo modo, ha bisogno, a sua volta, di un interprete.

Una volta due persone, sempre per quanto concerne lo studio medico, giunsero davanti all’ingresso di casa all'interno del palazzo mentre lo studio era giù. Si giustificarono dicendo che  una volta lo studio era lì, lasciando intendere che non si erano minimamente sforzati di leggere il cartello con le indicazioni, ma affidarsi alla memoria, ricordando l’ultima volta che erano stati li. Anzi, chiedendo loro se avessero letto le indicazioni, risposero che non avevano notato proprio niente.

Vi è un analfabetismo funzionale dovuto all’incapacità di poter utilizzare le competenze di base per semplici operazioni, tra cui leggere e capire, tradurre quelle parole nel loro significato e metterle in pratica. A questo si aggiunge l'aspettarsi tutto dagli altri, non essere abituati a risolvere problemi, ma delegare; avere una pessima comunicazione, con difficoltà di dialogo, incapacità ad ascoltare e comprendere prima di formulare la risposta; avere un carattere che non contempla la possibilità di sbagliare.

L’Italia è il paese dove l’indice di analfabetismo funzionale è molto alto: una persona su tre non comprende il testo letto, non riesce a sintetizzarlo, non capisce le condizioni di un contratto, la maggioranza non legge nemmeno un libro all’anno. E sono le stesse persone che navigano su internet credendolo un mare ricco di notizie, capace di risolvere ogni loro problema, sopperendo alla loro mancanza di competenze.

Tutto questo comporta un decadimento cognitivo importante, creando delle lacune ogni volta che ci si sottrae a determinate azioni, risposte, confronti, spiegazioni. Si impedisce al pensiero di esercitarsi, di esaminare questioni di varia natura e imparare ad agire in seguito a indicazioni.

 A scuola inducevo i miei alunni a trovare il percorso più breve per arrivare alla cattedra, per  far capire che anche quello era logica, matematica; così come cercare le parole giuste e non le prime che capitavano in mente, per rendere il discorso più preciso, affina il pensiero. Nutrirsi ha delle sfumature diverse da mangiare, coprirsi da indossare, percorrere da andare. Imparare a fare calcoli a mente è da preferirsi dal fare conti con la calcolatrice; memorizzare una poesia, un testo, due righe è un’esercitazione fondamentale per aiutare la memoria. Oggi ogni azione è volta a impedire lo sforzo, evitare al cervello di lavorare, sfuggendo così alle sue principali funzioni.

La pigrizia di oggi è dovuta alle macchine che lavorano per noi, prendendole per un modo di guadagnare tempo. La fregatura è qui. Noi non perdiamo tempo a trovare un sinonimo, imparare un paradigma, coniugare un verbo o risolvere un problema solo perché possiamo trovare ogni soluzione già fatta dalle macchine. Il pericolo è che un giorno non lo sapremo più fare e saranno le macchine a lavorare al posto del nostro cervello che, nel frattempo, si sarà rimpicciolito di un bel po’ e allora i nessuno leggerà. Si ha più fede nella tecnologia che nella religione.


I giustizieri

 

  



Quando il cuore si fa deserto

nemmeno un fiore di speranza.

I fiumi si son fatti sangue

e gli assassini seminano odio.

Sono colletti immacolati,

i cui grilletti portano i loro nomi,

a terra morti  e macerie

sfoggio della scintillante guerra.


La guerra,

esercizio di noia moderna

partorita da menti rotte:

rifilano la menzogna

per mezzo della paura,

giocando con le vite.


Voi produttori di armi, 

di paesi con in bocca parole di pace,

voi capi di stato

che con mano lesta armate

e l'altra fate finta di aiutare,

voi tutti contaminati dal potere,

non temete di perdere la vita

per non aver saputo difendere quella altrui?

Il mondo non è il vostro ammasso di materia modificata

ma la palla rotonda a cui sparate.

Più che radere al suolo

processate il vostro cuore.


La terra sempre darà vita

più forte di ogni guerra.

E voi sarete sottoterra quando vi malediranno.

Una maledizione senza fine.

E un giorno rinascerete vittime

in quella striscia di coscienza fatta a pezzi.

Allora non ci sarà nessuno a togliervi dal fuoco:

da giustizieri vi giustizieranno.

E la storia si ripeterà a vostro danno

senza via di scampo.


F.Baratto


I sogni sulle nuvole

 




Avete mai sognato a occhi aperti guardando le nuvole?

È quello che fanno quattro ragazzini sul tetto di un palazzo nella storia "Nuvole e sogni" di Vittoria Giorgi, Hanta Edizioni.

Nei momenti peggiori delle loro giornate, salgono sul tetto e sognano a occhi aperti con lo sguardo rivolto al cielo. E cosa vedono?

Le nuvole cambiano forma e consistenza, da pesanti a leggere, da bianco a fredde come la neve. Caricate dal vento, attraversano il cielo, mentre i loro occhi pieni di desiderio le spingono avanti. Si trasformano in grandi, piccole, e poi evaporano e si disperdono. Ma poi ritornano sotto altre forme, come ordina l’aria, se calda o fredda. 

Appare, a tratti, un castello. Lì i sogni camminano a piedi nudi o su veloci battelli  e non devono rompersi strada facendo. A volte siedono sui troni, soprattutto a sera, poco prima che le stelle, con qualche incantesimo, realizzino desideri.

Osservano e sognano. Appare loro ora un montone, un elefante, un volto, una casa, un monte, una piana. Il cielo detiene il potere di accogliere ciò che abbiamo in mente e renderlo vero.  

Le nuvole, per i quattro ragazzi, sono una grande invenzione. S’ingrossano e svaporano proprio come i loro sogni. Spesso alleggeriscono il loro buio, la loro aria pesante. Costruiscono continuamente.

I sogni sono passeggeri importanti che non vanno su mezzi qualsiasi, preferiscono le morbide nuvole che corrono da un posto all’altro, con una speranza per tutti.  

I ragazzi si chiedono:"Ma veramente crediamo di essere noi a guardare i sogni sulle nuvole? O forse sono loro che ci fanno la corte dall’alto per dare a ciascun sogno un padrone? Quando ci stendiamo a guardare forse è il cielo che prega per noi affinché alziamo lo sguardo a cercare nelle nuvole le offerte migliori, che sembrano siano a poco prezzo, ma per navigare hanno bisogno di un carburante speciale: la voglia di portarli avanti". I sogni, pensano i ragazzi, vogliono calore, sono bambini che per crescere necessitano cure. Non basta la sofficità delle nuvole, sono esigenti, richiedono la nostra presenza fino a realizzazione compiuta. "Noi ve li affidiamo, o nuvole, non potrebbero avere mezzo migliore per arrivare a destinazione".

Il dislike



In una società abituata al consenso vige la legge del like, dell'approvazione a tutti i costi. E se non arriva, si prova a esagerare pur di acchiapparli. Quel pollice alto, i cuoricini, gli abbracci servono a dire poi quanto gradisci quel post, quell'affermazione, quello scritto o immagine, quell'autore. 
Ci sono bacheche dove abbondano. Se invece non piace basta non cliccare. Se un profilo non conta un bel po' di like molti lo relegano nel dimenticatoio. E per un like alcuni accendono il mondo, altri li esigono e li richiedono a costo di chiamare gli amici e, seduta stante, aspettano di vedere quel numero in più. Come se quel like cambiasse loro la vita. Oggi nessuno vuol essere contestato, e vanno bene anche i consensi fasulli.
 Molti cliccano senza leggere, altri perché in quel momento hanno bisogno di quella persona e il like è il modo per ingraziarsela. Sono sempre esistiti i lacchè e la claque di Dio. Solo pochi leggono e mettono like con consapevolezza.
Quell'indice in giù è una condanna. Significa manifestare il proprio disappunto, diventare polemico agli occhi degli altri e scatenare anche un'interminabile questione. Il dissenso bisogna spiegarlo, motivarlo, altrimenti innesca un battibecco senza sosta.  I social sono poi diventati il luogo di avversioni, opposizioni e polemiche e se a queste aggiungiamo i dislike mantenere la pazienza sarebbe impossibile. Il like ci salva da questa gogna. 
A volte, poi,  qualcosa piace solo per un verso, ma parte il like che non spiega questa parzialità. I convinti sono pochi e non è detto che un post non possa piacere lo stesso anche senza.  

Il "non mi piace", invece, servirebbe a capire e forse a fornire maggiori elementi, a renderci più responsabili di quello che spesso diciamo anche con superficialità e sull'onda delle nostre emozioni. Servirebbe da contraltare, un'opposizione di cui tener conto. Ma a una società che ha eletto la maschera come modalità di confronto non si addice il dislike. 
Il consenso esula da determinate considerazioni, dà tutto per buono senza sfumature, non affina il nostro senso critico, non apporta alcun miglioramento, tranne che proseguire su quella linea e anche in modo più artificioso per non scendere sotto la soglia di like che ci siamo conquistati. Se non piace, dobbiamo sforzarci di più per conquistare ed essere credibili.
Non lasciare alcun like equivale a dire di non essere interessati, ma lascia comunque  in una sorta di limbo, poiché può indicare che ci sono persone a cui manca il coraggio di cliccare un pollice su, non vogliono essere riconosciute, o non vogliono dare soddisfazione o semplicemente non leggono per avere fretta e certi post meritano una lettura approfondita. A volte lasciamo scorrere tutto con noia. Il like è la nostra comfort zone, il dislike è uscirne. 
Molto spesso post anche di un certo rilievo restano orfani di like e va bene così, quello che interessa è lasciarsi leggere con o senza like, non importa. Nei profili professionisti si rivelano le visualizzazioni di ciò che viene postato, e quelli di successo, a volte, riportano pochi like nonostante le moltissime visualizzazioni. Non tutto quello che vuol far credere il like è vero come non del tutto negativo è il dislike. L'importante è non farne una questione vitale e operare con senso di responsabilità e senza prendere tutto troppo sul serio.
 
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