La lunga ombra della sanità che dimentica gli anziani



C’è una verità che da tempo aleggia sui corridoi degli ospedali italiani, ma che si fatica ancora a nominare: la sanità ha smesso di prendersi davvero cura dei suoi malati più fragili. E quando a bussare alle porte dei pronto soccorso sono gli anziani, la fragilità diventa vulnerabilità, e la vulnerabilità spesso si trasforma in abbandono.

La maggior parte degli over 70, prima o poi, cade. Un banale incidente domestico che per un giovane si risolve in pochi giorni, per loro diventa un percorso a ostacoli. Tra patologie pregresse, tempi lunghi di recupero e rischi operatori, quelle che dovrebbero essere semplici procedure cliniche diventano un calvario.
Il vero dramma, però, non è solo clinico: è umano.

Le scene che si vedono nei pronto soccorso sono un indice impietoso dello stato del sistema. Anziani parcheggiati per ore, se non giorni, su barelle nei corridoi, in spazi gelidi o roventi, al buio, privi di privacy e conforto. Ci si abitua quasi a queste immagini, come se la disumanizzazione fosse un prezzo inevitabile della modernità sanitaria. Ma non lo è: è il segno di un sistema che non regge, che si limita a contenere i corpi invece di curare le persone.

In molti casi, questi pazienti arrivano psicologicamente fragili: spaventati dalla caduta, confusi dalla situazione, desiderosi di capire cosa accadrà. La risposta che ricevono, spesso, è un parcheggio improvvisato, magari in un sottoscala, come se fossero oggetti in attesa di riparazione.
La dignità diventa un lusso.

A rendere più grave il quadro è la gestione discontinua e frammentata dell’intero percorso sanitario. Manca sempre qualcosa: un posto letto, un medico disponibile, un radiologo, una prenotazione, un modulo, una firma. Una catena di mancanze che produce sfiducia, esasperazione, rinunce.
Non stupisce che molti anziani preferiscano tornare a casa, rischiando la vita pur di non trascorrere giorni in questi “non luoghi” dell’attesa. Di fatto, per loro, ogni giorno in corridoio è un’anticamera della morte, non per la malattia, ma per la perdita della propria dignità.

Fuori dagli ospedali, le cose non vanno meglio. Un anziano solo deve districarsi tra ricette digitali, codici, prenotazioni online, applicazioni e file interminabili. Deve spostarsi tra ambulatori, farmacie e uffici, come se fosse ancora un corpo giovane e agile.
La sanità lo vuole informato, veloce, tecnologico. Lo vuole performante. Ma ignora che spesso non vede bene, non sente bene, non legge una ricetta, non può camminare a lungo, non ha nessuno accanto.

La solitudine è una diagnosi che nessuno registra, ma è tra le più diffuse.

E poi c’è la medicina territoriale: medici di base difficili da contattare, segreterie che filtrano più che aiutare, risposte fornite a distanza, ricette mai recapitate.
Gli infermieri domiciliari, quando ci sono, rappresentano spesso l’unico volto umano del sistema: ma sono un servizio a pagamento che molti pensionati non possono permettersi.
Così, il diritto alla cura diventa un privilegio.

Questa non è solo una crisi sanitaria, ma una crisi culturale: abbiamo smarrito l’idea che l’anziano sia una risorsa, una parte viva della comunità. Lo trattiamo come un peso, un ingombro, un rallentamento.
Ma un Paese che non garantisce dignità ai suoi anziani non è un Paese moderno: è un Paese che ha perso la memoria di sé.

La soluzione non può venire da un solo intervento, da una riforma spot, da un proclama politico. Serve un cambio di orizzonte: rafforzare la medicina territoriale, investire nel personale, riorganizzare i pronto soccorso, semplificare la burocrazia, restituire centralità alla persona.
E soprattutto serve una rivoluzione culturale che rimetta al centro la cura, prima ancora della cura medica.

Perché la dignità non è un optional. E non dovremmo accorgercene solo quando, un giorno, quella barella potrebbe toccare a noi.


La paura di crescere

 

Sembra facile crescere, e non in senso auxologico,  cioè sganciarsi da chi eravamo ieri. Ma non lo è.
Pur senza accorgercene, ogni giorno diventiamo qualcosa di diverso rispetto a ieri. Quando passiamo da una fase all’altra della nostra vita, dobbiamo per forza abbandonare cose “vecchie” per fare spazio al “nuovo”. Questo significa includere nuove esperienze, selezionare ciò che ci fa bene, scoprire di cosa abbiamo bisogno e tralasciare ciò che non merita più la nostra attenzione. A volte, però, manca la forza di lasciar andare ciò a cui siamo legati, e questa difficoltà genera in noi stanchezza e malessere.

La paura di crescere e guardare avanti può raggiungerci a tutte le età. Anche i giovani faticano a lasciare la loro adolescenza, e prima ancora l’infanzia, che rimangono addosso come vestiti ormai troppo stretti. Così, da un giorno all’altro, non siamo più gli stessi. Cose che facevamo fino a poco tempo fa perdono significato, per un motivo o per un altro. Si passa dalle bambole agli outfit, dal brufolo al dopobarba, dal divertimento alle responsabilità, dallo studio a un figlio.

La paura riguarda soprattutto le responsabilità, che col tempo cambiano e aumentano, e tocca anche chi ha più anni sulle spalle, quando iniziano a crollare le certezze di una volta. È la paura delle situazioni che non riusciamo più a gestire, la paura che possano danneggiarci, che ci porta a credere di non essere più indispensabili come un tempo. Se nella giovinezza il timore è quello di non sapersi gestire e di non essere all’altezza, nell’età avanzata si teme di finire nel dimenticatoio, di essere considerati marginali, e si rischia di perdere interesse ed energia per andare avanti.

Ci sono persone che si fermano a un’età della loro esistenza e se la cuciono addosso, facendo di tutto per restare in quella dimensione. Ma l’età non è qualcosa di rigido: è una condizione che si modella con le nostre esperienze, la nostra volontà, i nostri desideri, le nostre attese, le nostre passioni. Per questo non possiamo essere statici e fingere di essere identici a ieri, né esteticamente né interiormente. Il desiderio di restare sempre uguali è un limite che non ci permette di apprendere e di vivere davvero. Vivere pienamente ci aiuta a guardare avanti e a non cercare dietro ciò che non c’è più. Fa paura il tempo che passa senza che da parte nostra ci sia sforzo, desiderio, partecipazione. Fa paura il vuoto che creiamo intorno come una corazza per proteggerci dagli eventi e dalle situazioni che, inevitabilmente, ci raggiungono. La vita è come una pasta da lavorare: ci vuole acqua, lievito, sale, cura nel maneggiarla e amalgamarla, e poi bisogna farla assestare, riposare, controllarne la lievitazione.

Proiettiamo la nostra paura su noi stessi e sui nostri cari, come se restare identici nel tempo,  senza cambiare abitudini, aspetto, mentalità fosse garanzia di permanenza. Ma crescere significa acquisire nuovi abiti mentali oltre che fisici, maturare le nostre idee, essere attivi e accettare i cambiamenti come necessari, non come una maledizione del tempo. Crescere è sperimentare, è vivere, e vivere è costruire giorno dopo giorno. La paura, invece, ci impedisce di sviluppare tutto ciò per cui siamo nati.
Cambiare pelle non è tradire chi eravamo, ma onorare chi stiamo diventando.


Maria: figura antica e moderna

 



                                                                        Madonna della seggiola, Raffaello Sanzio, 1514

In un’epoca di crisi globali, trasformazioni sociali, la figura di Maria, che la tradizione cristiana riconosce come madre di Gesù, continua a esercitare un fascino attuale. Non solo per i fedeli, ma anche per chi osserva il fenomeno religioso da un punto di vista culturale, sociale o simbolico.

È protagonista nella storia dell’arte, nella musica, nella letteratura e nell’immaginario popolare. Dalle icone bizantine alle Madonne rinascimentali, dalle processioni mediterranee alle rappresentazioni contemporanee, il volto di Maria ha attraversato il tempo trasformandosi senza perdere forza comunicativa.

È proprio questa capacità di adattamento a rendere la figura mariana una presenza costante nella cultura: ogni generazione la rilegge secondo le proprie sensibilità e domande.

La Mariologia tradizionale mette in luce virtù come umiltà, obbedienza e purezza, così come gran parte del sentire popolare, enfatizza un aspetto spesso trascurato: la forza di Maria.

È stata capace di accogliere l’imprevisto, affrontare incertezza, migrazioni, persecuzioni, lutti. Una donna che ha vissuto fragilità reali, rendendola vicina a tante persone. Ed è figura di resilienza, cura e coraggio, valori che parlano profondamente al nostro tempo.

Simbolo della dignità della donna; icona di un femminile capace di tenerezza e determinazione insieme; punto di riferimento per una spiritualità attiva. In questo senso, Maria appare come una donna concreta, capace di assumere responsabilità e di attraversare il dolore senza perdere speranza, oltre a rappresentare il simbolo universale di protezione materna.

Ogni 8 dicembre, con la festa dell’Immacolata Concezione, migliaia di persone si radunano in piazze e santuari. Queste manifestazioni rivelano il bisogno di un punto fermo, di una figura che rappresenti cura, protezione e luce in un mondo che spesso appare frammentato.

Maria, per molti, non è solo oggetto di devozione: è una presenza che invita alla tenerezza, alla compassione, e alla capacità di ripartire anche quando tutto sembra difficile.

La sua forza simbolica risiede nella capacità di incarnare temi universali: maternità, coraggio, dolore, speranza, fiducia. È forse per questo che, nel cuore di una modernità sempre più complessa, la figura di Maria continua a essere cercata, amata, reinterpretata.

In lei, molti trovano ancora oggi un sorriso che consola, un volto che ascolta, un simbolo che unisce.

Libri da leggere: "Cuore di tenebra"

 




Cuore di tenebra è un potente romanzo di Joseph Conrad, del 1899, che ha la forza di un viaggio interiore e non solo nel cuore dell'Africa. Si pone come uno dei testi fondamentali della narrativa modernista, allo stesso tempo romanzo di formazione e di avventura.

L’autore, polacco di nascita ma vissuto in Gran Bretagna, plurilingue, ex marinaio, scrisse numerosi romanzi in cui fece confluire le sue ricche esperienze di viaggi.  Al servizio di un Compagnia belga, in veste di ufficiale, nel 1890 ebbe l’incarico di risalire il fiume  Congo alla ricerca del misterioso agente coloniale Kurtz.

Marlowe, il protagonista, è un marinaio che racconta la sua esperienza di viaggio  ai suoi compagni. Lo fa senza alcuna precisione, a volte quasi in modo sbadato. A sua volta è presentato da un narratore anonimo e racconta un'avventura di anni prima. Questo sistema di narrazione è un  dispositivo che produce un effetto di distanza e inaffidabilità, accentuando la dimensione interpretativa del testo.

La narrazione non è lineare né oggettiva: è un flusso di percezioni, riflessioni e immagini simboliche che dissolvono progressivamente la distinzione tradizionale tra racconto d’avventura e allegoria morale.

Marlowe rappresenta  colui che osserva, critica ma non completamente dissociato da quella politica coloniale, per cui il lettore spesso è in difficoltà: non capisce fino a che punto dice il vero, se sia affidabile o meno. E questa incertezza interpretativa accompagna e fa da sottofondo, come una colonna, a tutto il romanzo. Ma il personaggio incisivo è Kurtz, il centro simbolico del romanzo: un emblema dell’auto-distruzione morale dell’Occidente. La sua caduta non è un incidente, ma l’esito logico delle premesse ideologiche del colonialismo. Kurtz rappresenta  ciò che diventa un uomo dopo che ha smesso di farsi domande e il potere senza freni che crede di essere la parte migliore, portatore di luce. E proprio in questa sua concezione  c'è la caduta e l'oscurità.

L'oscurità non è nei popoli che non conoscono la civiltà, ma nelle menti che credono di rappresentare la parte buona, che ha l'obbligo di trascinare gli altri.

L'autore mostra gli orrori della colonizzazione e di come in nome della civiltà essa porti sfruttamento e devastazione. 

Quando Marlowe vede Kurtz non lo riconosce più. Offre la rappresentazione complessa e la problematizzazione dei rapporti tra Africa ed Europa, civiltà e barbarie. Cuore di tenebra ha segnato la narrativa del Novecento introducendo una visione psicologica e simbolica del viaggio. Ha influenzato autori, filosofi, registi. La sua grandezza non consiste solo nella bellezza della prosa, ma nella capacità di farci guardare dentro ciò che vorremmo evitare: le zone d’ombra, le contraddizioni, le paure profonde.

La casa in montagna

 



Avevo una casa in montagna... Sembra l'incipit de "La mia Africa" di Karen Blixen. Dico sembra, poiché là cominciava così: "In Africa avevo una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong".  Ci penso ogni anno all'approssimarsi del Natale.

Erano soprattutto i mesi invernali quelli in cui ci si andava, per una tregua indispensabile ai ritmi frenetici del lavoro in città. Non c'era alcun telefono lì, anzi, avevamo il primo prototipo di telefonino. 

Era una casetta a tre piani con spazi davanti e sul retro. Salendo verso l'ingresso, dalla strada principale, c'era un piccolo giardino con al centro il pino di Natale e le siepi intorno. Dalle camere, al secondo piano, il panorama era da cartolina: di fronte e tutto intorno le montagne che circondavano la zona, le cui cime, se imbiancate, davano uno spettacolo ancora più suggestivo. 

Di questi tempi era tutto innevato e  non si riusciva a guardare lontano: la distesa bianca non trovava confini. Quelle erano le giornate da passare con gli amici, al caldo, con un fuoco scoppiettante nel camino, o sul divano col plaid e un libro. Mettendo il naso fuori dalla porta, si avvertiva lo sbalzo di temperatura quando l'aria calda del respiro usciva come una nuvola che si allungava per poi disperdersi. Unica fonte di calore nella monotonia del bianco e freddo intorno. Il pino nell'aiuola centrale, davanti casa, dava sprazzi di un pallido verde e attendeva di essere allestito per il Natale. Misuravamo la sua bellezza dall'estensione e dagli  aghi per ramo. Quello del nostro vicino era, come lo definiva la nostra amica:"Un signor pino", per bellezza, altezza e colore intenso. Ma anche spogli da addobbi facevano il loro effetto. 

Quando finivo di leggere e il fuoco ravvivava in modo esagerato le mie gote, salivo in camera a dipingere. Il silenzio in cui ero ovattata mi  dava la giusta concentrazione per accogliere l'ispirazione. Ogni tanto aprivo la finestra per sentire l'aria ghiacciata sul viso, a prova che fuori il freddo stecchiva, e quella sferzata di brividi mi portava a chiudere subito, tornando al caldo e alla tela. A volte osservavo la vallata, i minimi particolari delle colline davanti, le aiuole giù, i bambini giocare senza sosta e pieni di energia, chi si attardava a entrare per chiacchierare con qualche amico fuori. Qualche volta si scendeva in paese prima di pranzo a prendere il pane e al ritorno, risalendo la collina, vedevo tutti i comignoli delle case sbuffare. Quelle nuvole irregolari che salivano verso il cielo, come scale sbilenche modello Mary Poppins, spennellavano un po' di ombre in quell'aria priva di contrasto. 

Per pranzo, inutile dirlo, avevo da sfamare i miei lupacchiotti, e non bastava mai niente: mangiavano a gettito continuo e con tutte le provviste, temevo di finire le scorte. Di solito eravamo sempre in compagnia, tra amici nostri e dei bambini. 

Pasti sempre caldi con la pasta in prima linea, dolci, frutta. E dal camino si prelevava qualche castagna scoppiettante. Dopo pranzo si riusciva  a far fronte al freddo con qualche passeggiata o a spaccare la legna, sistemare una siepe, qualche chiacchiera con i vicini. Ma dopo poco ci si rifugiava davanti al camino.  

 Di solito si partiva il venerdì con arrivo di sera, per restare lì fino alla domenica. Il momento di entrare in casa era sempre uno choc: il freddo ci impediva di muoverci, qualche ragnatela scendeva dal soffitto e andava tolta, urgeva spolverare, sistemare la biancheria, avviare il camino.

 Il primo giorno di soggiorno si andava in giro per il paese, o in cima alla montagna, o a cercare i negozi di ferro battuto e pentole di rame, a mangiare il dolce della pasticceria del paese che faceva una crostata di mele squisita, o in giro con amici. Arrivavamo fino al fiume, sempre imbacuccati, o andavamo nei paesi vicini. Non c'era differenza tra noi adulti e i bambini. Ci si divertiva allo stesso modo. Ma subito dopo, a casa, mi raccoglievo in camera per progettare disegni e fissare idee sulla tela.  Il silenzio, nel pomeriggio, conciliava anche una buona lettura. Raramente dormivo: per me era tempo perso, dovevo darmi da fare. Ho ultimato lì diversi lavori. Quando i miei non mi vedevano in giro, capivano e si dimenticavano di me.  Le uniche tensioni erano le preoccupazioni dei figli, quando qualche volta si allontanavano con gli amici. Allora stavo con le orecchie tese. 

Quando di domenica si tornava a casa, rientravo a malincuore. 

Crescendo i ragazzi preferivano restare a casa il sabato e la domenica e cominciammo ad andarci sempre più di rado. Passavano anche tre mesi prima di ritornarci.

Cambiano tempi e le esigenze ma restano i ricordi. 

Tutto torna

                                   

   

"Tutto torna": la vita ci riporta indietro quello che abbiamo dato. Tutte le nostre azioni, buone o cattive, hanno un percorso coerente.

 Quanto dai in bene o in male, tanto avrai. Come ti regoli con gli altri così faranno con te! 

Nel nostro agire dimentichiamo le reazioni ed emozioni del prossimo, mettendo al primo posto l'"io", "il più lurido dei pronomi", come lo definiva Carlo Emilio Gadda. E non poche volte calpestiamo gli altri pur di raggiungere i nostri scopi.

Pochi hanno la sensibilità di non ferire. 

Molti si aspettano di ricevere il corrispettivo di ciò che hanno dato, come se fossero dei cambiavalute. Allo stesso modo, se infliggono duri colpi agli altri, non sospettano minimamente la loro brutta reazione. Vogliamo essere ripagati delle nostre buone azioni ed essere perdonati o almeno ignorati quando lavoriamo contro. 

 E ancora, quando accadono brutti eventi a nostre spese, aspettiamo di vedere gli altri sotto la nostra scure. Ne siamo sicuri, forti del "tutto torna".

Ma la vita non va così. Non puoi attendere la benevolenza da chi ha ricevuto bene da te, o affetto da chi hai amato e mai si è preoccupato per te, o considerazione da chi hai messo sempre al primo posto.  Su tanta gente che riceve bene da noi solo qualcuno si comporterà allo stesso modo nei nostri confronti. Alcuni crederanno di meritarselo, altri che non devono niente a nessuno, altri ancora che non te lo hanno chiesto.  Molti  ignorano i tuoi gesti, non hanno tempo di pensarci, presi dalla loro vita. E da tutte queste esperienze nascono le nostre teorie filosofiche: se gli altri ci ignorano, anche loro saranno ignorati. Ma secondo il Vangelo non  è a chi hai fatto bene che ti restituirà ciò che attendi, ma da chi non te lo aspetti. Riceverai bene o male non dalle persone con cui hai interagito, ma da chi proprio non c'entra con le tue azioni.

Procedere senza dimenticare chi ci ha dato e chi ha ricevuto o se siamo stati corretti o reprensibili sarebbe un buon inizio. Ma tante volte accade che siamo noi a cambiare prima che le azioni tornino indietro. Ogni azione una sua reazione, è una legge fondamentale della fisica. Proprio come afferma il terzo principio della dinamica di Isaac Newton: a ogni azione può succedere una reazione uguale o contraria. Un po' quello che dice anche la legge del Karma: un'azione positiva ne porta un'altra di uguale tensione, così come quella negativa produrrà effetti spiacevoli. E a volte nella vita succedono più reazioni contrarie che di uguale forza.

 Nella realtà accade, per esempio, che, se aspetti l'attenzione di una persona e quel gesto giungerà tardi nella vita, sicuramente non starai più lì ad attenderla. Un altro, magari, proprio in quel momento comprende e vuol riparare, ma a te non interessa più. Così se ti sei dato da fare a mettere in croce qualcuno,  sicuro della sua impossibilità a reagire, ecco che, invece, ti viene contro in un momento in cui non eri preparato. 

La vita va più o meno così, solo che non ce ne accorgiamo. Tutti abbiamo sperimentato di ricevere attenzioni quando non ci speravamo più, di avere amore quando non ne avevamo più bisogno, di essere benvoluti da chi non attendiamo più. A volte tutto torna con gli interessi: una piccola mancanza diventa una tragedia, una piccola buona azione verrà triplicata, una richiesta elusa non servirà più.

La necessità di essere ricompensati a ogni nostra buona azione mostra il desiderio di essere ben voluti e sapere di non stare nei pensieri degli altri ci può far sentire inutili. Così come dispensando dispiaceri si crede che gli altri non ci facciano guerra.





Lo shopping impulsivo

 




Acquistare oggi è così facile da farci perdere il gusto di spostarci per andare al negozio con un'idea approssimativa o una lista.  Il lavaggio mentale  avviene ogni volta che accediamo ai social, con una massiccia pubblicità. È magico come capiscano i nostri gusti e i bisogni. Una volta fatta una scelta online, l'algoritmo ci prende di mira e ci fornisce continue proposte di acquisti ad hoc. 

Il click ci dice che abbiamo acquistato, il pagamento virtuale va a buon fine e noi siamo felici poiché, senza muoverci, davanti allo schermo, abbiamo comprato.  Ma può accadere anche di essere delusi. E in quel caso dobbiamo, invece, alzarci dalla scrivania e fare il grande sacrificio di preparare il pacco del reso che verranno a prelevare. Online si può acquistare di tutto. Se si decide di andare di persona nel negozio, sappiamo già dove e cosa comprare, a meno di non entrare nei grandi magazzini dove si spende  a ruota libera.

Mia madre, buonanima, amante dello shopping, usava tirarci dal letto in occasione di una spesa e, trascinandoci come somari recalcitranti, ci costringeva a seguirla, di negozio in negozio, fino a quando non trovavamo quello di cui avevamo bisogno. Si rientrava a casa solo ad acquisto fatto, nel pomeriggio, e sembravamo pellegrini tornati dalla Terra Santa. Tutto era scelto con cura, non c'era bisogno di alcun reso, si comprava ciò che si vedeva e solo quello di cui eravamo sicure.

Oggi accade anche di sbagliare taglia, di cambiare oggetto, di comprare troppo e cose che non si useranno mai. La tentazione di acquistare è un modo per sentirsi vivi, di accedere a ogni cosa, senza precludersi niente. Ma a volte non ci rendiamo conto di quanta roba accumuliamo e di cui non ci serviremo mai. Oggetti che restano nei cassetti, abiti mai indossati, che vanno a riempire i nostri armadi, utensili per il gusto di averli. Una volta si comprava solo l'indispensabile, ciò di cui non si poteva fare a meno. Se si usciva per comprare per un figlio, un altro doveva aspettare il suo turno, che significava rimandare al mese successivo. 

Oggi si spende per noia, per emulare qualcuno, per volere le stesse cose degli altri, per non privarsi di niente anche quando le condizioni non ce lo permettono. Davanti a una vetrina irresistibile si compra a qualunque costo anche se, spendendo quella cifra, si sa già di non arrivare a fine mese. Tanto ci pensano gli istituti di credito che dilazionano la cifra in tante rate. Il must è avere tutto, non deve mancarci nulla, dall'abito firmato al viaggio in terre lontane, perché così fan tutti e il confronto con gli altri viene prima del nostro portafogli.

Una volta prima di un acquisto  ci si chiedeva se fosse necessario, conveniente e solo dopo si decideva. Ogni cosa comprata era come una reliquia. Un maglioncino, un abito, delle scarpe prendevano una cura che oggi non c'è più. Se il golfino nuovo si sfilava, lo si rimetteva a posto, se si cresceva, si allungava l'abito, così come ci dispiaceva lasciare le nostre scarpe vecchie tenute così bene ma piccole, per le nuove. 

Oggi non ci basta niente. L'orologio, dopo sei mesi è vecchio, subentrano modelli nuovi; la moda esige il colore dell'anno e nuovi capi; la tecnologia vuole che si stia al passo con i tempi, fornendoci l'ultima trovata. Comprare è sinonimo di accumulare. Non tutto ciò che si compra sarà usato. Molte cose, anche costose, restano là dove le abbiamo relegate, e la cosa grave è che acquistare un nuovo capo o un'auto o una casa ci lasciano quasi sempre indifferenti, aspettiamo subito di passare a quello prossimo per sentirci meglio, o almeno sperare di essere più felici. Ma la felicità non è data dalle cose nuove o dalla quantità di cose che riusciamo a comprare. Non c'è nemmeno il tempo di desiderare che già abbiamo provveduto.

Il desiderio è il preludio di ogni cosa, quando manca, niente può avere valore per noi. E acquistare sarà solo un modo di adeguarsi alla realtà che vuole acquirenti seriali.


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