Nella mia raccolta di poesie "Ritorno nei prati di Avigliano", ce n'è una che mi ricorda le mie lunghe discese e salite per andare a mare, giù a Seiano. La poesia è "La scalinata" e descrive un piccolo spaccato di giornata afosa, quando scendendo a mare , si poteva ammirare un panorama mozzafiato che già ai miei occhi di bambina era qualcosa di impagabile e ancora oggi ne apprezzo la bellezza più di allora.
E' una lunga scalinata, di cui non ricordo il numero degli scalini, come un ponte , che dall'alto della collina si riversa a mare. Non è l'unica scalinata da queste parti, ma quella che percorrevo io era fantastica. Innanzitutto non aveva appoggi laterali, bisognava fare attenzione a non cadere a destra e a sinistra e se ciò accadeva ci si trovava in piccoli burroni da dove non si risaliva facilmente sul ciglio delle scale. Tenevo sempre ben stretta la mano della nonna, ma talvolta, come la vispa Teresa, la lasciavo per raccogliere i fiori lungo i bordi e immancabilmente mi procuravo delle sbucciature alle ginocchia. In questi casi non piangevo, capivo di essere stata testarda e facevo finta di niente, scacciando anche il dolore, per poi giungere sulla sabbia a mare con dei rigagnoli di sangue che colavano fino ai piedi. Era questo un buon pretesto per andare subito in acqua, senza attendere il fatidico quarto d'ora di sole, come voleva nonna, con la mia ciambella rifinita di cordoncino col quale il nonno mi bloccava per non lasciarmi andare oltre il limite. Quando avevo bevuto un bel po'd'acqua e il sole aveva prodotto un bel colore dorato sulla mia pelle, ero pronta per mangiare il mio panino farcito sulla mia sedia.
Dalla spiaggia guardavo su per le scale e mi preoccupavo per il ritorno. In lontananza vedevo le persone in miniatura che a piccole file scendevano a flusso continuo giù e osservavo come quel serpentello si snodava tra alberi e roccia ricca di vegetazione, come una linea morbida in verticale, il cui ultimo punto baciava la sabbia a pochi passi da me.
Ricordo che le cicale non lasciavano in pace nemmeno la spiaggia: era un concerto ovunque e non ho un ricordo più bello delle mie estati se non di quelle accompagnate dalle cantilene delle cicale. Risalire era la cosa più straziante: stanca di sole e di mare, con la pelle arsa, il mio cappello ampio, in mano i miei secchielli e i miei piedi così restii a fare anche il più piccolo passo. I nonni s'inventavano di tutto per alleggerirmi la salita e tra una risata e una corsa, guardandomi alle spalle, vedevo il mare allontanarsi.
Lungo il percorso incontravamo tante persone di nostra conoscenza con le quali ci intrattenevamo a parlare e nel frattempo potevo riposare. Talvolta mi inoltravo nei rovi di more e cominciavo a raccoglierle, ponendole nel mio secchiello,pungendomi e beccandomi qualche puntura d'ape, per poi riprendere a salire. Qualche volta inciampavo e allora mi sedevo rivolta al mare e ammiravo le scie sull'acqua, l'argento dei riflessi e il sole cocente che quasi accecava. Il nonno, vedendomi in quelle condizioni, finalmente mi prendeva sulle sue spalle a cavalcioni e io beata, nella mia postazione preferita, gli davo anche le direzioni da prendere. Così posta, riuscivo a toccare i rami degli alberi, a strappare le olive e le foglie, i fiori lungo i muri. Solo le lucertole mi allontanavano e avevo anche la forza di cantare le mie canzoncine dell'asilo.
A casa affondavo nel lettone di nonna, rosolata dal sole, vinta dal sonno e dalla stanchezza, dal peso delle mie gambe che si imbrigliavano nelle lenzuola e quasi non me le sentivo più.
Niente mi avrebbe però distolta dallo scendere ancora per la lunga scalinata e quando di buon mattino eravamo lì, sul punto più alto, a guardare l'incanto ai nostri piedi prima di scendere, per me era una gioia immensa. L'aria intrisa di profumi mi stordiva piacevolmente e la vista di quel mare piatto con piccole barchette e scie mi riempiva gli occhi; e i nostri passi sui ciottoli e sterpaglie scandivano un ritmo piacevole mentre il cielo, come un telo azzurro steso su di noi, benediva la giornata.
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