La lunga ombra della sanità che dimentica gli anziani



C’è una verità che da tempo aleggia sui corridoi degli ospedali italiani, ma che si fatica ancora a nominare: la sanità ha smesso di prendersi davvero cura dei suoi malati più fragili. E quando a bussare alle porte dei pronto soccorso sono gli anziani, la fragilità diventa vulnerabilità, e la vulnerabilità spesso si trasforma in abbandono.

La maggior parte degli over 70, prima o poi, cade. Un banale incidente domestico che per un giovane si risolve in pochi giorni, per loro diventa un percorso a ostacoli. Tra patologie pregresse, tempi lunghi di recupero e rischi operatori, quelle che dovrebbero essere semplici procedure cliniche diventano un calvario.
Il vero dramma, però, non è solo clinico: è umano.

Le scene che si vedono nei pronto soccorso sono un indice impietoso dello stato del sistema. Anziani parcheggiati per ore, se non giorni, su barelle nei corridoi, in spazi gelidi o roventi, al buio, privi di privacy e conforto. Ci si abitua quasi a queste immagini, come se la disumanizzazione fosse un prezzo inevitabile della modernità sanitaria. Ma non lo è: è il segno di un sistema che non regge, che si limita a contenere i corpi invece di curare le persone.

In molti casi, questi pazienti arrivano psicologicamente fragili: spaventati dalla caduta, confusi dalla situazione, desiderosi di capire cosa accadrà. La risposta che ricevono, spesso, è un parcheggio improvvisato, magari in un sottoscala, come se fossero oggetti in attesa di riparazione.
La dignità diventa un lusso.

A rendere più grave il quadro è la gestione discontinua e frammentata dell’intero percorso sanitario. Manca sempre qualcosa: un posto letto, un medico disponibile, un radiologo, una prenotazione, un modulo, una firma. Una catena di mancanze che produce sfiducia, esasperazione, rinunce.
Non stupisce che molti anziani preferiscano tornare a casa, rischiando la vita pur di non trascorrere giorni in questi “non luoghi” dell’attesa. Di fatto, per loro, ogni giorno in corridoio è un’anticamera della morte, non per la malattia, ma per la perdita della propria dignità.

Fuori dagli ospedali, le cose non vanno meglio. Un anziano solo deve districarsi tra ricette digitali, codici, prenotazioni online, applicazioni e file interminabili. Deve spostarsi tra ambulatori, farmacie e uffici, come se fosse ancora un corpo giovane e agile.
La sanità lo vuole informato, veloce, tecnologico. Lo vuole performante. Ma ignora che spesso non vede bene, non sente bene, non legge una ricetta, non può camminare a lungo, non ha nessuno accanto.

La solitudine è una diagnosi che nessuno registra, ma è tra le più diffuse.

E poi c’è la medicina territoriale: medici di base difficili da contattare, segreterie che filtrano più che aiutare, risposte fornite a distanza, ricette mai recapitate.
Gli infermieri domiciliari, quando ci sono, rappresentano spesso l’unico volto umano del sistema: ma sono un servizio a pagamento che molti pensionati non possono permettersi.
Così, il diritto alla cura diventa un privilegio.

Questa non è solo una crisi sanitaria, ma una crisi culturale: abbiamo smarrito l’idea che l’anziano sia una risorsa, una parte viva della comunità. Lo trattiamo come un peso, un ingombro, un rallentamento.
Ma un Paese che non garantisce dignità ai suoi anziani non è un Paese moderno: è un Paese che ha perso la memoria di sé.

La soluzione non può venire da un solo intervento, da una riforma spot, da un proclama politico. Serve un cambio di orizzonte: rafforzare la medicina territoriale, investire nel personale, riorganizzare i pronto soccorso, semplificare la burocrazia, restituire centralità alla persona.
E soprattutto serve una rivoluzione culturale che rimetta al centro la cura, prima ancora della cura medica.

Perché la dignità non è un optional. E non dovremmo accorgercene solo quando, un giorno, quella barella potrebbe toccare a noi.


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