Il corrispettivo italiano è barbone,
senzatetto, una persona che vive senza dimora fissa, passando da una panchina a
un cartone, da un ponte a una galleria, a un posto rintanato. Li troviamo ai parchi,
ai bordi delle città, vagabondi per le strade, nei loro sogni ad occhi aperti. Dormire
in un cartone, nel greto di un fiume, su di una panchina, accade quando la
nostra vita viene stravolta dentro e fuori per un motivo e, quello che prima
era inconcepibile, diventa uno stile di vita.
Ci si lascia vivere, abbandonati
a se stessi, un giorno vale l’altro come
un salto agli ostacoli. Donne e uomini, anche star del cinema, si sono ritrovati
in solitudine e senza casa per aver perso quello che avevano o dimenticati da
chi doveva sostenerli. Erminio ha un disturbo mentale e, fino a poco tempo fa, viveva
col fratello che lo ha sempre criticato per non accettare la sua incapacità di
svolgere un’attività. Così lo aveva lasciato solo nella casa di famiglia a sbrigarsi
la vita senza di lui. Erminio, senza quel punto di riferimento, tornava a casa
come un automa e senza mangiare. Lentamente tardava sempre di più: ospite di
chi lo conosceva, restava ai giardinetti fino a tardi, passeggiava lungo le
strade senza meta. Un giorno, tornando a casa, vide il camion dei traslochi e
suo fratello che era venuto a prendere i mobili. Aveva perso quella casa al
gioco. Erminio si trasferì nella casa dove viveva il fratello ma di lì a poco
avrebbero perso anche quella. Da allora dorme sulle panchine del parco, avvolto
in duri cartoni che lo riparano dall’umidità e dal freddo. Del fratello non sa
più nulla e nemmeno l’altro lo ha cercato. Non ricorda più il colore dell’acqua,
né il profumo di cucinato. Mangia quello che trova. A volte si siede e ricorda.
I movimenti sono lenti, quasi si blocca. Raccoglie frutta in luoghi che
conosce, qualcuno gli porta del pane, quando può va nel convento vicino.
Martina invece è avanti con gli anni. Lei cammina per chilometri senza fermarsi.
L’avevano rinchiusa in un manicomio, ora è fuori, ma in famiglia non l’ha voluta
nessuno. Gironzola tutto il giorno e di sera si ritira accanto a un casolare.
Di mattina presto però scivola via e va
a zonzo. Alberto è un ragazzo trentenne a cui hanno sottratto dei soldi,
tanti soldi, troppi, e non si è più ripreso. Va alla ricerca di un piatto
caldo, di abiti dismessi, di parole. Ma chi si avvicina a un clochard? Amiamo
guardarli da lontano. Si parla di loro solo
quando diventano una notizia. Tutt’al più si sopportano per trovarli sulla
nostra strada. Dovrebbero essere reintegrati, avere un tetto, un aiuto, un
pasto al giorno, la possibilità di lavarsi, di vivere dignitosamente come tutti
gli altri. Sono persone che hanno smarrito la via, non si possono dire matti, ma nemmeno normali.
Sono deboli, vivono senza confronto, senza amicizie, in solitudine. L’unica
differenza con i carcerati è che sono all’aria aperta e alle intemperie quando
non diventano ludibrio degli altri o addirittura bersaglio di molti. Non hanno nulla
se non la libertà di vivere fuori dagli schemi. Ci sono strade che portano a
situazioni di non ritorno. E’ come se la vita scivolasse loro di dosso e ne
cominciasse un’altra minore, più stretta e meno umana. E pensare che un tempo
erano persone normali. Ora si abbandonano
a se stessi, non hanno voglia di opporsi, di chiedere, di cambiare. Attendono i
giorni ma solo per alzarsi col sole e stendersi su una panchina la sera. Vivono
dentro di loro perdendo di vista ciò che è fuori e a volte nemmeno dentro si
ritrovano. Non ditegli di trovarsi un lavoro visto che non potrebbe eseguirlo
con i problemi esistenziali che si
ritrova. La società è strutturata in modo tale che chi non segue le regole
resta fuori, escluso. Un tetto lo si trova, ci si adegua, ma se stesso non sempre
è possibile. A volte passa la vita a cercarsi e nemmeno ci si ritrova.
L’indifferenza della società a chi se la passa male é sintomo di problema
esistenziale non meno importante di quello dei clochard. Ma tra di loro ci sono
anche quelli che hanno scelto questa vita. Una sorta si selvaggio moderno che
non si uniforma agli stili di vita civili sempre più insostenibili. Può
rappresentare una forma di reazione, di avversione, di protesta. Anche la
civiltà talvolta produce insofferenze. Stili di vita stretti e faticosi, con
ritmi serrati e non di benessere, in una società dove la convivenza diventa una
maschera continua. Spesso è un modo per scivolare via silenziosi e vivere senza
tempo, ma altre volte è covare la rabbia di una società distratta e impietosa, piena
di ingiustizie e costrizioni, che non assicura più niente e lascia senza
difese.
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