"Quell’angolo di terra più degli altri mi sorride".

 


I ricordi sono sempre viziati dalla nostra percezione del presente. Quel che resta d’immutabile è la parte essenziale e incontrovertibile del fatto che si mantiene grazie a qualche elemento che più di un altro si fissa nella mente. Del mio periodo agreste, definisco così quello della mia infanzia, ritornano i colori: il blu, il verde e il giallo, colori primari. Proprio i colori del cielo, dei prati, dei fiori: narcisi, girasoli, margherite. Toglievano il grigio ai giorni noiosi che anche i bambini vivono senza che gli adulti se ne accorgano. Così come ritornano tre elementi fondamentali: l’alveare, il portone e l’arco sotto il quale si trovava il cancello. Tre cose che il tempo non ha mai spazzato via. L’alveare, da cui mi tenevo a debita distanza per la paura di essere punta dalle api ma poi mangiavo volentieri il miele che i vicini mi offrivano. Lo sgranocchiavo tenendolo in mano come una sfavillante tavoletta di cioccolata, andandomene a zonzo per i campi. Il portone di ferro, un rosso scuro sbiadito misto a ruggine, ancora oggi rimasto intatto come l’ho lasciato, rappresenta il confine tra la mia infanzia e l’adolescenza. Oggi quei battenti chiusi hanno il potere di farmi sentire un’esclusa da un’epoca lontana che non ritorna più. Avrò passato gran parte del mio tempo ad aspettare sui suoi gradini. Attendevo sempre qualcuno: i miei genitori, i miei nonni, i parenti, i conoscenti, la processione e anche chi non avevo piacere di vedere. E’ stato lì che ho allenato la pazienza. Quando mi arrendevo, perdevo tutto quello che avevo con cura messo insieme. Ho imparato a riconoscere le emozioni delle persone scorgendole da lontano quando, avanzando verso di me, ne studiavo i volti. Ho imparato a interpretare i toni delle voci, di quello che attraverso la parola viene fuori in base allo stato d’animo. E ho imparato anche a conoscermi sperimentando le mie emozioni quando, analizzando chi si avvicinava, avevo delle reazioni, risposte ai loro modi di interagire con me. Quello spazio tra la soglia del cancello e il viale è stato importante per formare il mio carattere. Mi appollaiavo sui gradini anche solo per riflettere in seguito a una delusione, uno sconforto o per nascondere ciò che non mi andava di rivelare. Solo pochi metri dove la memoria si è attaccata come un animale recalcitrante che non accenna a spostarsi. E poi l’arco al lato destro che legava due strutture. Una sorta di cappello al sentiero che lì si faceva stretto e si fermava davanti al cancello. Al suo apparire da lontano, mi sentivo a casa. In questi momenti di solitudine, persi tra le quattro mura, con la voglia di scappare in riva al mare o in mezzo alla gente, dove il peggiore degli assembramenti sembrerebbe la più bella manifestazione d’affetto, la mente si rifugia in spazi calorosi che solo il ricordo può dare. E lì ho trovato il mio cancello, gli sguardi delle persone, i profumi, gli odori, le cadute dalla bici, i pomeriggi a giocare fino a che il vicolo perdeva luce e calore. A quel tempo, quando non ne potevo più di quello che mi girava intorno, me ne andavo sotto un noce, mi sedevo nel solco intorno al tronco e parlavo all’albero. A pensarci, era una terapia efficace: raccontavo ad alta voce ciò che era accaduto e aspettavo un feedback dell’albero. E il segnale puntualmente mi arrivava con un mallo pesante che mi cadeva in testa, quattro foglie che arrivavano al suolo svolazzando per l’aria, una brezza leggera tra i rami.  E chi meglio di un albero può esprimere un giudizio sugli uomini? E’ solido, fermo, imperturbabile. Scaricata la tensione, ero come nuova. Stamattina, al risveglio, pensavo all’albero sotto cui mi ritiravo allora per quattro chiacchiere. Ascoltava senza giudicare, partecipava senza interrompermi, comprendeva senza distorcere ciò che gli raccontavo. Una volta una lettrice mi scrisse dicendo che ero presuntuosa a sostenere di amare Avigliano più di chi ci abita oggi. Il mio era solo un modo di far capire l’importanza di Avigliano nella mia vita: rappresenta la mia infanzia.  Sono ricordi di cose perdute, di cui non mi resta più niente ed è proprio per questo che la mente trova continuamente pretesti per farli riaffiorare. E poi i luoghi non sono proprietà private, siamo noi che li carichiamo di significato con il nostro vissuto. Sono continuamente riportata a quel passato in modo involontario. Avigliano è e resterà il mio luogo, unico, e non credo che questo tolga qualcosa a chi ci abita. E come diceva Orazio “Quell’angolo di terra più degli altri mi sorride”.

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