Cecilia, una mia alunna con disabilità, era alta e robusta, sedeva solo in cattedra accanto a me, e mentre io lavoravo con lei, la sua insegnante di sostegno svolgeva la lezione alla classe al mio posto. Fu lei a dettare questo nostro scambio di ruolo. In quel periodo ero in attesa del mio secondo figlio ed ero spesso stanca e nauseata. Lei si avvicinava, mi accarezzava e mi chiedeva se stessi bene. Ascoltavo tutto ciò che aveva da dirmi, discorsi fatti di tante domande, cui rispondevo sempre.
Mi prendeva il bicchiere d’acqua, allontanava da me il caffè che mi nauseava di sua spontanea volontà e poi mi teneva la mano. Era materna e affettuosa. Tra le tante cose che mi raccontava, parlava spesso dei suoi rapporti affettivi all’interno della famiglia. I fratelli non accettavano che i genitori pensassero prima a lei e si dispiaceva con me per quell’incomprensione. E se accadeva che mi dedicassi più alla classe, lei reagiva male. Ero responsabile della lezione quotidiana, del programma, e mi dibattevo su come distribuire le mie forze equamente a tutti. Nell’impossibilità di poter fare di più, avevo dei momenti di abbattimento ma anche di reazione, pensando che, avendo ricevuto delle risposte positive, era il caso di continuare in quella direzione. Restai lì un solo anno, poi fui trasferita ad altra scuola. L’ultimo giorno non venne a salutarmi, non accettava che me ne andassi. La mamma mi portò un suo scritto in cui mi faceva gli auguri per il mio bambino.
Nicola, era un bambino autistico che ha insegnato alla classe l’organizzazione del lavoro, l’ordine, l’educazione e i tempi della lezione. Un bambino alto e robusto, biondo, occhi azzurri che erano una meraviglia. Dallo sguardo capivo se era offeso o arrabbiato, felice o contrariato. Dai movimenti delle mani se impacciato, impaziente, stanco o entusiasta. Mi poneva mille domande, chiedeva il mio punto di vista, controllava il modo in cui rispondevo, capiva se dicevo il vero e proseguiva nelle sue inchieste. Quando tutto filava liscio, cantava le canzoncine dei cartoni e poi voleva che si scherzasse, cantasse e giocasse insieme. Era il fulcro della classe, il direttore che dava il “la” su tutto, controllava i tempi della merenda, di uscita. Leggeva negli occhi lo stato d’animo di chi aveva davanti e così reagiva: collaborando o chiudendosi. Apparteneva al gruppo più che mai, senza di lui quella classe sarebbe stata un’altra cosa. Nella lunga esperienza di scuola, accumulata in tanti anni, ho capito che gli alunni con disabilità richiedono un percorso unico e originale fatto su misura, lo stesso richiesto, d’altra parte, da ogni altro alunno.
Devi affinare la sensibilità, controllare i tempi d’insegnamento,
adottare una didattica più distensiva, piacevole, calzante. Ho imparato molte cose da loro. Per esempio percepiscono il tuo
pensiero con una sfumatura, un gesto, uno sguardo, ti conoscono più di quanto
tu sappia di loro e te stessa, adottano strategie nei tuoi confronti per provare
la tua pazienza, la tua attenzione, per controllare se sei veramente come ti
mostri. Ho dovuto affinare e limare molti aspetti del mio carattere, misurarmi
ogni giorno con le loro richieste e atteggiamenti. Ma ero sempre lì, al loro
fianco, ogni giorno con un lavoro interessante e coinvolgente. E non erano
anche loro lì ad attendere da me il mio affetto attraverso una lezione
piacevole, con le mie energie, la mia fantasia, estro, competenze, attenzione?
Non reciproca accettazione e voglia di portare a termine le nuove conquiste da
entrambe le parti? Come possiamo chiamare questo rapporto se non affetto
incondizionato? Misurate tutto questo
con l’affetto delle persone che dicono di volervi bene, che nemmeno hanno mai
sperimentato qualcosa del genere con voi, riducendo il loro a un bene scontato
quanto inutile. Non sanno della comprensione, della pazienza, del rispetto, dell’accettazione
di un altro essere. Anche un genio è una persona con disabilità, di cui non comprenderemo
mai le sue vie mentali. E a sua volta è a disagio con chi non può capire la sua
creatività. Sono ragazzi che cercano affetto in modo esplicito: una carezza, un
abbraccio, tutta l’attenzione. Spesso
crediamo che l’intelligenza sopperisca a tutto, che se non diciamo le cose, le
capiamo lo stesso, che non dobbiamo alcuna spiegazione perché tanto gli altri
intendono ciò che celiamo. E in questa stupida concezione, perdiamo la nostra
umanità fatta di momenti in cui abbiamo bisogno di uno sguardo, una parola, una
domanda, un’attenzione invece di dare
tutto per scontato e saputo. Ti chiedono
ogni giorno se vuoi loro bene, sentono la mancanza di quando non ci sei, ti
abbracciano appena entri in aula, hanno bisogno del contatto fisico come
rassicurazione, a prova della tua reale
volontà di stare con loro. Quanti di noi si privano di questi passaggi per anni
interi, non sanno più cosa significhi un abbraccio o un bacio, una carezza o un
complimento. Provate a chiedervelo e capirete che parte della nostra infelicità
dipende anche da questo. Con gli alunni con disabilità ho imparato che non
puoi barare. Il loro mondo è vero, senza trucchi né maschere. Insegnano a vedere
con chiarezza, mentre siamo pieni di crepe. Certo che vivere allo scoperto sfibra
e quando ritorni a casa, metti tempo a toglierti i panni dell’insegnante e
continui sulla stessa riga di stile e discorsi fatti in classe. E’ come se non
riuscissi a rientrare nel tuo mondo, poiché quello che devi scaricare cominciava
a piacerti, è più chiaro e non implica sforzi.
Un’altra alunna con disabilità era molto piccola fisicamente rispetto alla sua età cronologica ed entrava in aula sorretta in
braccio dalla madre. I primi giorni furono di grande difficoltà, poi la
prendevo in consegna io e la posavo nella sua carrozzina e così cominciava la
lezione. Lei era impaziente, dopo due ore non tollerava più di stare ferma e dover
ascoltare, per cui la prendevo e la sedevo accanto a me. Aveva un paio d’occhi
celesti come il mare, e con quegli occhi leggeva tutto, anche un batter d’ali.
Era fragile e forte al contempo, piangeva per un nonnulla e sorrideva subito dopo. Aveva i suoi momenti di crisi quando cominciava a guardare il
soffitto fissandolo a lungo. Dandole subito attenzione, rifioriva. Dai suoi
cambiamenti capivo se la lezione interessava veramente a tutti, se fosse il
caso di continuare o spezzare con una pausa. Ogni tanto ripenso a quelle
lezioni intense, ricche di emozioni notando che oggi nessuno di noi riceve la
vera attenzione da un altro. Tutti naufraghi, mancanti di qualcosa, senza alcuna differenza tra di noi.
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