Hai tutta una vita intera davanti a te




“Hai una vita intera davanti a te”, chi non si è sentito dire questa frase almeno una volta da una persona cara, come la mamma, per esempio, cui sta a cuore la nostra vita.
Quando mia madre me la ripeteva, con enfasi e sorriso, non ci facevo caso. Credevo la vita fosse eterna, un po’ quello che pensano tutti i giovani. E’ pronunciata sempre con un sottofondo di malinconia. Un po’ come dire ne vedrai delle belle, accadranno cose, avrai da sospirare, da temere, da soffrire, da capire, da penare, da sorridere, da gioire in questo baraccone che contiene ogni cosa. Ma detta così si pensa all’eternità, che l’amore, le gioie saranno eterne, i dolori altrettanto, come un mondo statico, fermo a contemplarsi. A volte il contenuto non è in quello che la frase esprime ma in ciò che non dice. E quello che implicitamente significa è che la vita va coniugata, che c’è una radice e una desinenza per ogni cosa, che ci sono le eccezioni, i pluralia tantum, le cose passive, le attive, le costruzioni… La vita come una lingua, come un gioco da tavolo, spesso quello dell’oca, un film o un romanzo. E da quella prima volta che la sentiamo il tempo diventa un calendario su cui segnare le cose, da cui strappare i fogli e cominciare a fare i conti per le domande che pur chiede. E’ solo un’indicazione, un augurio, una frase ponte come un leitmotiv che ci accompagna. Essa ritorna in mente ad ogni età, in ogni situazione, sottolineando che anche in un minuto di vita ci sono gli attimi buoni e quelli meno. Non è il tempo che resta, né quello vissuto, né in che età ti trovi e non è più questione di quanto farai, bensì cosa ne farai della tua vita, quanto ti chiederà, quanto riuscirai a dare. Ora so che quando i genitori la pronunciano, e anch’io a mia volta l’ho detta, bisogna dar peso a quello che nasconde. Alla speranza che ognuno realizzi quello per cui è nato. L’eternità va costruita con la vita, nel bene e nel male. Quando veniva pronunciata non abbiamo pensato di essere programmati per un tempo ben preciso durante il quale dobbiamo mettere a fuoco la parte migliore di noi. Non è nascere la cosa più difficile ma partorire la nostra vita giorno per giorno.


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Il cedro del Libano




Il Libano un tempo era la terra dei Fenici che avevano come arte principale quella di costruire le navi. Il legno adottato era il cedro, pregiatissimo e favoloso da essere oggi elemento fondamentale al centro della bandiera libanese. Un albero che cresce su versanti di montagne che vanno dai  mille ai tremila metri di altezza. 
Un tempo i Fenici avevano ricchi boschi di questi alberi, così come Creta e gran parte del Mediterraneo orientale. Il cedro è un albero forte, dalla bellezza spettacolare. I rami una volta alti, tendono ad appiattirsi assumendo una forma regale. Non ha frutti ma piccole pigne dette strobili pertanto non va confuso col cedro degli agrumi. Il suo legno è ricercato ma non cresce più come una volta. Le sue distese oggi sono patrimonio dell'Unesco e già i Fenici ne conoscevano il valore se costruivano le migliori navi del Mediterraneo: un tipo per il commercio e l'altro per la guerra. Erano munite di sperone a pelo d'acqua e di rostro, con una serie di rematori. A prua vi erano anche due grandi occhi per spaventare il nemico. Quella da guerra era a doppia vela di cui una più grande dell'altra.
Tutti i popoli vicini, compresi i Romani hanno utilizzato il cedro per la costruzione delle loro navi riducendo di gran lunga la riserva a quel tempo. Così gli stessi imperatori romani dovettero difendere questo patrimonio, tra cui l'imperatore Adriano nel 118 d.C, cercò di contenere il numero di quelli tagliati. Il cedro del Libano è un punto di riferimento ricorrente nella Bibbia. In Ezechiele si descrive il cedro "bello di rami e folto di fronde, alto di tronco, fra nembi la sua cima". E ancora: "tra i suoi rami fecero il nido tutti gli uccelli del cielo, sotto le sue fronde partorirono tutte le bestie selvatiche, sedettero alla sua ombra tutte le grandi nazioni".
Nei Salmi (92,12) si legge "Il giusto fiorirà come il cedro del Libano". Si sottolinea la sua grandezza, la stabilità, la fermezza e allo stesso tempo la sua arroganza, credendosi forte. Anche in vecchiaia esso si innalza. Re Salomone fece costruire col suo legno il tempio di Gerusalemme e il suo palazzo. Il cedro, dunque, è l'identità del paese.


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La collana di Venere




C’è una ruga sul mio collo, la cosiddetta collana di Venere, chissà 
perché riportata a Venere, dea della bellezza, se segna  il collo in orizzontale, in modo leggero ma visibile. Una ruga è una storia e la mia è frutto di una leggera inclinazione che ho sempre avuto reclinando il capo in basso  verso destra. Sta di fatto che da quando l’ho vista e ho capito il motivo per cui era lì, ho cominciato ad alzare il mento e la testa, ad avere una posizione dritta, sempre su.

Ma questa posizione è di chi crede di avere il mondo in mano. Alla mia età me lo posso anche permettere, se non altro per l’esperienza, ma devo convenire che non è mio costume, non per insicurezza, ma non mi ci vedo in giro a camminare come una giraffa in nome della ruga comparsa. La nostra fisiognomica mostra quello che siamo e che proviamo. Ora, vorrei provare a  camminare a testa alta, lo faccio per la ruga e non certamente per indole superba. Chi mi vede penserà ad una mia eccessiva sicurezza che devo dire è inversamente proporzionale al passare degli anni. Col tempo ci conosciamo meglio e ci sono più elementi di noi che non ci piacciono, e diventiamo con noi stessi ipercritici. L’esperienza  non basta a darci la sicurezza. Incombe sempre qualche spina che ne indebolisce la trama, che sia un pensiero, un fatto, un timore. La sicurezza si acquisisce continuamente,  è qualcosa sempre in divenire. La preoccupazione della ruga è un colpo alla vanità che fa i conti col tempo che passa. Ed è la stessa vanità a ricadere sulla riflessione e a farmi dire che le rughe sono vita, e forse la nostra parte buona. Noi le temiamo poichè rappresentano la lenta decadenza del nostro corpo, ma per formarsi si sono adoperate al massimo. Temo molto di più i volti di sfinge di chi non si è sforzato a produrre alcuna ruga. A questo punto le chiamerei elementi di generosità per aver plasmato quello che siamo oggi. Ma non dobbiamo credere che esse non possano ancora scavare formandosene altre, che la nostra generosità abbia raggiunto il culmine. Anche al meglio non c’è mai fine.



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Voglia di mare a settembre




Ogni anno a settembre mi ripropongo di andare a mare, di avere la spiaggia tutta per me e puntualmente questo non accade, ne sento solo parlare.  Colpa degli impegni, della pigrizia e della stanchezza  se ogni proposito cade nel nulla. A volte dovremmo dare priorità ai nostri bisogni, ma la rigidità mentale e l’incapacità di sottrarci alle azioni quotidiane, ci frena. In questo mese l’acqua è più fredda, il sole più tiepido, la giornata più corta, in compenso è piacevole il silenzio accompagnato dallo sciabordio delle onde a rive, l’avanzare del sole davanti ai nostri occhi. E allora per convincerci che non ci perdiamo niente, anche se non andiamo, cominciamo a dirci che il sole non è poi così caldo, che prendiamo freddo, che abbiamo un inizio di raffreddore, che non possiamo sottrarci ai nostri doveri. Ci spaventa andare in auto, parcheggiare... tutto diventa difficile. E poi c’è il pranzo da preparare, la spesa da fare, la domenica da organizzare e altre mille incombenze. Questo è il modo per non sentirci in colpa se non andiamo, tanto non ci perdiamo niente. Ma se provassimo a cambiare i nostri pensieri, a staccarci per po' dalla quotidianità, potremmo dare un  corso diverso alle nostre giornate settembrine. Se riusciamo a sconfiggere anche l'ultimo pensiero negativo che ci impedisce di incentivare il nostro desiderio, riusciamo a prendere la saggia decisione di andare con un asciugamano e un panino alla ricerca del posto dove stenderci al sole, dimenticandoci il resto. Dobbiamo scegliere, dobbiamo avere delle priorità che non siano solo di dovere ma anche di piacere, dopo una settimana di lavoro. Se ci lasciamo andare, possiamo apprezzare momenti unici. Quando la nostra visuale è sgombra di chiasso e di nuvole, il mare è una tavola, il panorama come attaccato a un foglio, anche noi per un attimo ci fermiamo. Che non è poi una cosa così malvagia, anzi concilia il riposo, la riflessione, la respirazione. E poi la brezza sulla pelle, il lento incedere nell'acqua, guardare il fondale che per tutta l'estate non si riusciva a scoprire per i molti che stavano in ammollo, gli scogli e i suoi abitanti che come noi riprendono le loro scorribande giornaliere dopo le invasioni estive. A volte si tratta di piccoli sforzi ben ricompensati. E la felicità è fatta di momenti che dobbiamo saper afferrare.


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Leggendo Cechov



Anton Cechov è il maestro del racconto. La sua prosa è asciutta, con parole precise, concetti affilati e senza un punto di vista o morale, come rilevava lo stesso Tolstoj. La narrativa russa ha una forza incredibile, trascina il lettore esattamente in quello che sta raccontando, ponendolo nello stesso stato d’animo, facendogli vivere storie lontane nello spazio e nel tempo come vicine. Quello che è stato imputato a Cechov come difetto dei racconti, diventa invece un pregio. I suoi racconti sono di una tale precisione e onestà intellettuale, che sarà il lettore ad aggiungere la sua soggettività. Ognuno legge in chiave personale, come se l’autore lasciasse di proposito il lettore a trarne le sue conclusioni. Ogni racconto ha la forza di un romanzo. Un affascinante affresco dell’epoca, della Russia, dei tipi che s'incontrano ogni giorno, che restano scolpiti in mente come dei modelli. I personaggi diventano eroi nella loro quotidianità. Nel racconto Una vita noiosa, per esempio, si narra del professor Nikolaj Stepanyc. Ci s'inoltra nella lettura con curiosità e dalle pagine emana una freschezza come se da quella che si va leggendo ne dovesse uscire qualcosa di esemplare. Si aspetta così il momento cruciale, che di fatto non giunge mai, ponendo il lettore in uno stato d’attesa e alla fine trovare considerazioni diverse da quelle che si profilavano all’inizio. Ogni rigo porta i suoi semi, lascia i suoi interrogativi. Il professore è un uomo di sessantadue anni, calvo, con la dentiera, laborioso e perseverante come un cammello, che ha un grosso problema: quello di soffrire di insonnia. Pur essendo professore emerito, vive quasi nell’indigenza per regalare ai figli un alto tenore di vita, così come gli altri immaginano debba avere. E questo lo fa soffrire: vorrebbe che i figli gli proponessero di non dare loro quegli agi, essendo in ristrettezze. Aspetto che gli viene ricordato costantemente dalla moglie Varja, che, goffa e monotona, ogni mattina gli sfila la cantilena. Il professore stenta a riconoscere in quella donna la sua Varja che ha tanto amato e che pur rappresenta un punto fermo della sua vita.
 Molto interessanti le parti in cui descrive la sua attività di docente, medico qual è, e parla dei suoi studenti. Afferma che un insegnante deve sostenere un triplice ruolo quando si presenta a un uditorio: quello di pedagogo, studioso e oratore, usare un linguaggio corretto, espressioni brevi e precise, frasi semplici, e tutto in un orario prestabilito. Insegnare è una passione. Da medico crede che la scienza sia la cosa più necessaria all’uomo. Una debolezza questo suo pensiero che, unito all’insonnia, rappresentano le due cose per le quali combatte. Continua facendo la differenza tra studenti fannulloni  e quelli che superano gli esami, e poi ancora dei benefici della sconfitta e del significato di tesi, un lavoro basato su una ricerca originale cui lo studente si dedica  in completa libertà. Altra debolezza di quest’uomo sono i ricordi e, guardando indietro, il professore si rende conto d’aver costruito la sua vita con un grande talento e si preoccupa di finirla allo stesso modo.
Un racconto interessante che mal si coniuga col titolo di storia noiosa. Ad ogni rigo nasce l’esigenza di sottolineare concetti mai sentiti prima, accostamenti mai fatti e situazioni così normali che assurgono a fatti speciali. Cechov non è mai banale, conduce per strade ben definite non lasciandoti mai da solo. “Quando all’uomo manca un centro, più forte e nobile di tutte le influenze esterne, allora gli basta davvero un semplice raffreddore per perdere il suo equilibrio, vedere in ogni uccello una civetta, in ogni rumore un ululato di un cane. E tutto il suo pessimismo o ottimismo, grandi o piccoli pensieri, tutto si riduce a un sintomo e nulla più. Il racconto termina con la consapevolezza di aver trovato l’essenza della sua vita che i filosofi chiamano idea guida, alla fine del suo percorso. E per conoscerla bisogna scandagliarla fino in fondo e scoprire la sua sincerità, onestà e che la letteratura non può essere altrimenti: la menzogna non fa parte della sua scrittura. Cechov è attratto dall’animo umano e ne descrive i suoi movimenti in storie senza trama e senza epilogo. Basta osservare la realtà per scrivere, ma sempre con frasi semplici e chiare. Non gli piacciono le parole altisonanti, un riflettere troppo sulla lingua. Essa deve rispecchiare gli stati d’animo senza affettazione, né troppe limature. L’onestà deriva da quello che si pensa senza censurare il pensiero per adattarlo a una forma convenzionale. Questo assicura l’originalità e la verità della scrittura. D’altra parte scrivere è rilevare, tutto il resto appesantisce.


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Aria di settembre





Abbiamo ancora i timpani bombardati dai clacson delle auto nel traffico, e poi sagre, gli schiamazzi fino a tarda ora, la musica delle feste, i concerti, il vociare di notte dei luoghi incantati. Poi arriva settembre, con lo strascico degli echi estivi, ma nuove voci giungono a mitigare i giorni, riportandoci alla nostra  quotidianità. Non è semplice spezzare i ritmi e far ritorno ad altre abitudini. Il primo richiamo è  la sveglia che avevamo messo a tacere per un po’, adesso torna prepotente  e puntuale a rubarci il sonno quando di mattina stentiamo  a staccarci dal cuscino. Un altro più insistente è il suono della campanella a scuola. Sconvolge il nostro risveglio, ma lo stesso suono si fa attendere all’uscita. Piacevoli i rumori secchi delle tazze sui banconi dei bar, che si erano inabissati nel baccano del traffico estivo e sono riemersi  appena abbiamo dato vigore alla nostra prima colazione, alla lettura dei giornali in santa pace, al piacere di un cornetto consumato davanti alle notizie che si affacciano dalle pagine. Tazze che picchiano, gongolano fumanti tra le mani, che le alzano  e le appoggiano tra discorsi di affari, risate e occhi ancora semichiusi, sicuri che sarà proprio il caffè il primo miracolo della giornata. Ai clamori delle strade e delle spiagge affollate si sostituiscono i fruscii nei viali, nei  boschi, nelle campagne, le brezze, le piogge come lamenti del cielo nel riprendere i suoi cicli. 



E ancora le prove degli zaini nelle cartolibrerie, i ticchettii per controllare se sono funzionanti, i tonfi di libri di testo sulle scrivanie cercando quelli che mancano, i suoni di pagine di diari e agende nuove con il piacere di scoprire i detti, le frasi del giorno, almanacchi e aforismi  dispensati qua e là. E i bambini che rincorrono le mamme alla ricerca dell’astuccio, del temperamatite, della tovaglietta rigorosamente  di moda. I carrelli nei supermercati invadono le corsie con pacchi di quaderni, merendine, succhi, oggetti, scatolame, scorte di quello che servirà.  Stiamo come al centro del guado: da un lato i giorni appena compiuti  e dall’altro l’autunno. Gli irriducibili vanno ancora in spiaggia a godere in santa pace degli ultimi bagni, come se non riuscissero a staccarsi dai sassi, dal bagnasciuga, dalle onde, dagli stridori dei gabbiani anche in giornate fresche e offuscate. Fino a quando il sole starà lì, in alto, saranno momenti unici per apprezzare il silenzio e il parlottare del mare in  tranquillità. E c’è chi  ama ammirare il panorama dall’alto, dalla boscaglia, da una terrazza, da una siepe lungo il ciglio di un sentiero e notare i primi cambiamenti: colori tenui, rami meno pesanti, acqua immobile, nuvole come stirate dalle correnti, il sole come avvolto in una coltre di nebbia di cui si spoglia lentamente. Ma c’è un suono ancora più dolce, il guizzo di un pesce che abbocca all’amo del pescatore seduto sugli scogli, o sulla chiglia di qualche barca a riposo, a riva. E’ lì dall’alba a richiamare gli abitanti dai fondali a fargli compagnia, e questi in un baleno, dal vasto mare, si ritrovano nella poca acqua del secchio accanto. I motori hanno perso il loro sprint, le imbarcazioni scivolano silenziose sull’acqua, le giornate scorrono lente. Si ricomincia, si fanno nuovi progetti, ci si immette nel pieno lavoro. E basterà la prima pioggia a farci dimenticare  l’estate,  a porre in custodia i ricordi delle vacanze. Ritorna la quiete autunnale con le foglie dalle mille sfumature, quelle più stanche abbandonano gli alberi. I primi ad andarsene sono i fiori che lasciano i vasi e le siepi, costringendo i rami a spogliarsi. E per riaverli di nuovo il prossimo anno ci si metterà all’opera sistemando, pulendo, potando, concimando i terreni che accoglieranno i semi delle prossime corolle. L’estate è la stagione dei colori, settembre ci immette in quella dei suoni. Ed è il mese dell’ascolto, che sia esso di foglie che si appoggiano al suolo o leggeri bubbolii di temporali, di brezze che vengono dal mare, di parole che a volte sentiamo per abitudine e di discorsi che non vogliamo capire. Suoni piacevoli di ricordi che arrivano senza preavviso nel mese che più di ogni altro sa di malinconia, non tanto per la venusta estate  andata via quanto per il lento inizio della nuova stagione. Ricominciare richiede forza e concentrazione e a volte anche i pensieri danno il loro suono, creando le nostre armonie.


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