Percorremmo
l'autostrada francese per buona parte della giornata, procedendo lentamente, tra
chiacchiere, caffè, risate e battute.
Mio padre, alla guida, osservava le distese di viti ai nostri lati: basse, ben ordinate, in lunghi
filari a ridosso delle colline. Faceva le differenze con le
nostre e, a vederle così rigogliose, osò dire che di sicuro da quelle parti le
trattavano con sostanze chimiche per averle tutte uguali e piene di vita. Finì
per mortificare lo champagne a vantaggio dello spumante.
Ma subito
dopo osannò i francesi per la cura e l’ordine di quei terreni. Gli piacque l’altezza
delle piante, la metà delle nostre, e tante
altre osservazioni che gli tornarono utili una volta a casa.
Questa volta la fretta di raggiungere la
Spagna ci tolse il gusto del pranzo, che rimandammo alla successiva fermata.
Al passaggio del confine, il paesaggio si fece brullo e arso. Il sole picchiava
in una maniera incredibile. Si guidava da parecchio e tutti chiedevano una
sosta. Guardavo le colline bruciate intorno, la strada quasi deserta e
immaginavo Orlando, il paladino caduto a Roncisvalle. Di
tanto in tanto apparivano pale eoliche ai cui piedi vedevo Don Chisciotte
seguito da Sancho Panza per quelle campagne, immaginando i loro discorsi. Poi riportavo agli altri le storie che sovrapponevo ai luoghi. Finalmente quel paesaggio desolato lasciò il
posto alla Costa Brava. Assomiglia un po’ alla nostra costiera. In un punto
riuscimmo a fermarci per scattare delle foto. La strada da lì cominciava a scendere verso le spiagge.
Ci trovammo a Palamos. Parcheggiammo di fronte al mare e, sebbene
dovessimo mangiare, non resistemmo alla voglia di fare un bagno, non prima di
aver fatto la spesa in un vicino supermercato. La spiaggia era immensa e
libera. In lontananza si vedevano i palazzi alti della città, davanti a noi una
distesa di sabbia. Dalla posizione in cui ci trovavamo, c'era da fare un
bel tratto per raggiungere la riva. Accanto a noi gruppi di turisti di varie nazionalità. Mio padre
cominciò con le sue battute trascinando gli altri. Saremmo rimasti lì fino a sera, ma lo stomaco brontolava e ritornammo. Pernottammo lì. Non era il posto ideale ma non ci fu il tempo di cercare altrove.
Giungemmo a Barcellona verso le ore dodici del giorno dopo.
È una città molto grande, con strade enormi. Vista dall'alto è uno spettacolo. Si presentò a noi come un labirinto. Giravamo intorno alla ricerca di un parcheggio senza trovarne. Parcheggiamo nella Rambla per qualche minuto e scendemmo a chiedere, ma sulle strisce pedonali un camion quasi mi investì. Strillai contro l’autista, spaventata e incredula di essermela cavata. L’uomo fermò il camion e scese a redarguirmi. Non ci potevo credere. Gliene dissi quattro in modo così violento che quasi ebbe paura.
Ci dirigemmo al lato opposto della città sempre alla ricerca del parcheggio. Giungemmo in un’area simile a una discarica. Un tizio si presentò dicendo che dovevamo andare via di lì. Gli chiesi dove trovare un posto adatto, ma si rivolse con un fare maleducato e io lo trattai anche peggio. Barcellona fu un disastro da un punto di vista dell’accoglienza.
Poco dopo, sempre da quelle parti, trovammo l’area che faceva per noi e finalmente parcheggiammo. Dapprima andammo al Museo. Potemmo ammirare il panorama della città dall'alto. Fu poi la volta della Sagrada Familia. Eravamo stanchi ma così presi dalla curiosità di visitare. Io camminavo con la testa alzata ad ammirare le guglie della Sagrada che non finivano mai. Gli altri mi chiamavano ma io ero appiccicata alle pareti osservandone ogni centimetro. I palazzi di Gaudì erano per me grandiosi e mi dispiacque non poterli più vedere quando andammo via. Usciti da lì, abbiamo riportato il camper al campeggio poco distante dalla Rambla.
Stanchi della giornata ci mettemmo alla ricerca di un’area per
la notte. Per un verso si voleva procedere per arrivare a Valencia quanto
prima, dall’altro ci si voleva riposare. Nell’indecisione siamo finiti in un’area
di servizio per la sosta dei camion.
Mio
padre, memore di Marsiglia, organizzò un sistema d’allarme
complicato ma sicuro. Si affidò a massicce funi, con cui legò la
portiera dal lato guida, passando per il clacson e tirandola fino a legarla a quella di destra. La lezione di Marsiglia ci aveva resi sospettosi di
tutto e lì stavamo in mezzo ai bestioni. Così, nell'aprire la porta, scattava il suono del clacson svegliando tutti e intimorendo i ladri. Non
bastò il sistema d’allarme escogitato, si decisero turni di guardia. In
tutto questo il nostro amico se la rideva, non dovendo affidarsi ad alcun marchingegno, per aver accanto un camper superaccessoriato come il nostro, e quindi pensò: “Ubi maior, minor cessat”.
Dalla
mia postazione osservavo il buio pesto dell’area di servizio, in cui solo un
lampione, dalla luce fioca e intermittente, non riusciva nemmeno a illuminare da lì a qualche passo. Un po’ dormivo, un po’ guardavo fuori. Un rombo di motore, un’accelerazione, una sfrecciata di auto, ogni piccolo fruscio catturava
la mia attenzione. Fu così fino alle cinque, quando crollammo vinti dalla stanchezza, e consapevoli che, con i primi raggi di sole, di lì a poco, nessuno si sarebbe più avvicinato.
Ma alle sei di mattina il clacson suonò. Mio padre che dormiva con i miei figli nel letto sulla cabina di guida, si fiondò a terra con i ragazzi. Scivolarono fuori dall’abitacolo rincorrendo tre ragazzi che cercavano di raggiungere una vecchia Panda parcheggiata ai bordi dell’area. Riuscirono a scappare seguiti dai nostri che li avevano quasi raggiunti. Erano muniti di bomboletta spray da spruzzare sui volti per indurre il sonno. La scena cui assistemmo fu così divertente che, rievocandola, cominciammo a ridere. Da quel momento mio padre divenne una sorta di santone. Non si faceva niente senza il suo consenso. La fune divenne il nostro collaudato sistema d’allarme. Molti, dopo quella sera, ci raccontarono degli episodi cui avevano assistito nelle aree di servizio. C’erano bande specializzate per assaltare i camper.
Il nostro sistema nervoso intanto fu messo a dura prova, ma mio
padre forniva consigli e dava dritte senza sbagliare un colpo.
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