La Pasqua


La Pasqua è una festa ricca di significati: rievoca la Resurrezione di Cristo nel periodo di rinascita della natura che esplode con la Primavera e, con la nuova stagione, viviamo il passaggio del tempo. Pasqua significa “passaggio, chiamata, andare oltre” dall’ebraico Pesach. La Pasqua cristiana avviene il sabato mattino quando le donne andarono al sepolcro e non trovarono Gesù.


Lì i segni della Resurrezione. Il sepolcro scoperto e le bende a terra lasciavano intendere che Cristo aveva solo abbandonato il luogo. Il mistero è proprio in quel vuoto, quell’angoscia che prende con la scomparsa di chi crediamo sia andato via per sempre. Ma dopo cominciarono i segni della sua presenza, di stare ancora lì con lo spirito dopo la morte del corpo. La Pasqua riprende due momenti storici. Il primo, dal Vecchio Testamento, rievoca il passaggio del popolo Ebreo dalla schiavitù egiziana, durata 400 anni, verso la libertà. Qui il passaggio, è quello del popolo guidato da Mosè attraverso le acque del Mar Rosso verso la Terra Promessa. L’altro momento è tratto dal Nuovo Testamento e rievoca  la Passione e la morte di Cristo con la sua Resurrezione. La prima Pasqua è festeggiata dagli Ebrei e descrive  l’esodo di un popolo alla ricerca della sua Terra, l’altra è quella dei Cristiani e rievoca la Resurrezione di Cristo. La Pasqua, in entrambi i casi storici, è un passaggio, un lasciare una condizione per un’altra diversa ma migliore. Un cammino con il nostro corpo, tempio della nostra anima e con la nostra spiritualità, fuoco divino che ci spinge verso la strada da seguire. E’ un risorgere dalle nostre stesse sofferenze, propedeutiche alla crescita fisica e interiore, così come un cammino verso la conoscenza di chi siamo, come se fossimo eterni bozzoli di una farfalla cui ambiamo diventare. Nella vita i nostri passaggi sono a volte impercettibili, a volte irruenti, altre intensi. Tutti lasciano segni sul corpo e nell’anima. Sono fatti di tante lezioni di vita che apprendiamo strada facendo, imparando dall’esperienza ma lasciandoci guidare da quello spirito che alita intorno a noi e ci consente di trovare la strada.  La Pasqua è quel sepolcro vuoto che lascia pieni di stupore e di paura per qualcosa che sfugge alla nostra realtà e alla nostra dimensione, così come il rumore del silenzio di un luogo che a ricordo ha lasciato solo  le bende. Eppure quel silenzio si carica di speranza  per qualcosa che forse non è stato compreso sul Golgota, quando tutto aveva avuto fine. C’è un momento in cui ci si ricrede, che forse quello che agli occhi umani era impossibile, si svela e diventa una luce da seguire. Da allora viviamo nel suo silenzio e nel rumore delle nostre vite. Quando abbiamo bisogno di Lui cerchiamo in quel vuoto in cui isolarci e coprirci del suo spirito. E’ quello che ritroviamo dentro quando ci chiudiamo ai rumori esterni e ci viene incontro quella voce che alberga in noi infallibile e attenta. Il sepolcro vuoto è la prova che il silenzio in noi è pieno della sua voce che ci visita, ci aiuta, ci sorregge. Qual è il valore della Pasqua oggi, quando la vita è diventata più ricca di stimoli e di rumori? Il sepolcro aperto e silenzioso ci ricorda che anche quando Dio non risponde con le parole, con gli sguardi, con i sorrisi, lascia al nostro silenzio le risposte migliori. E’ lì che tutto risorge e si trasforma in energia, linfa di vita che scorre sempre nuova. E risorgere è procedere e andare avanti senza lo sconforto del Golgota e nemmeno la paura del silenzio, ma solo con la speranza  che niente andrà perso. La Pasqua è intraprendere sempre una direzione univoca, piena di luce e inconfondibile. La vita è mentre ci dirigiamo verso questa luce che a volte fa cadere, altre illumina, e ancora acceca. La nostra religione vuole che tutta la sofferenza del bozzolo abbia come premio quello di diventare una bellissima farfalla. D’altra parte tutta la vita è continuo passaggio, da una condizione all’altra, ce lo insegna la natura, compresa la nostra nascita, che da embrione diventa feto e poi uomo. A Pasqua festeggiamo tutti i passaggi della nostra vita. Ad ogni passaggio uno stadio nuovo da cui ne parte un altro. E che sia sempre il migliore per tutti noi.



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L'arte di intrecciare


Non abbiamo più la passione di aggiustare le cose, ce lo vieta il  consumismo, la voglia di cambiare e la convinzione di buttare via le cose vecchie. Il discorso finisce di solito così: il tempo che spreco ad aggiustarlo, lo guadagno comprandolo nuovo. O anche “la spesa non vale l’impresa”. Una volta non era così: non c’era il benessere di oggi e  prevaleva il gusto del fare. Mio nonno, da bambina, mi portava per i campi nei suoi giri di perlustrazione, con i suoi “tortanelli”, piccoli rami elastici con cui legava tutto ciò che pendeva e non stava al suo posto. Era come un sarto: aggiustava la vite, tirava su una ciocca di albicocche, innestava, legava i cespugli per dare loro una forma. 
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Aveva sempre al seguito le cesoie e i rametti per cucire, suturare, otturare, innalzare. L’arte che aveva nelle mani  era inverosimile. Una volta gli ho chiesto dove prendeva quei laccetti e corde di rami  di cui si serviva per lavorare e così  mi elencò tutti gli alberi da cui si ricavano. Mi parlò delle ginestre, del salice, dell’ulivo, dell’olmo, del ciliegio, del castagno, alberi che forniscono ramoscelli sottili per legare o intrecciare. L’uso che ne faceva era notevole e non gli bastavano mai quelli ricavati dai suoi alberi. Quando la scorta finiva andava al mercato di Piano per procurarseli e usciva esclusivamente per questo. Non se ne serviva solo per aggiustare le posizioni di rami e ciocche cadenti, anche per creare ceste di vimini su misura, in quei formati difficili da trovare e che lui confezionava con grande perizia, un’arte che oggi quasi non esiste più. Eppure in diverse parti d’Italia ancora si intrecciano ceste, ma anche qui ci sono cestai di lunga tradizione. Mio nonno di solito li aggiustava, soprattutto quelli che perdevano i ramoscelli dalle loro postazioni e restavano in aria creando fastidio o facendo assottigliare la capienza del contenitore. I rami di salice erano adatti ad ogni lavoro, soprattutto per l’intreccio. Quando il nonno intrecciava una cesta, si sedeva comodo sulla scanno, sedile ricavato da un ceppo e con ramoscelli alla mano cominciava a lavorare. Prendeva un bel po’ di bastoncini rigidi e li fissava al centro formando una croce  creando così la base per lavorarci intorno. Poi cominciava il lavoro in altezza, tessendo tutto intorno la trama con i suoi “tortanelli”, come li chiamava. Mi colpiva la passione che ci metteva: non alzava lo sguardo dal lavoro e a volte non aveva cognizione di quello che gli accadeva a due passi. Tutto sommato erano piccole ceste  per sistemarci la frutta o utensili, piccoli lavori.  A me ne dava una piccola dove sistemavo fiori o frutti caduti dagli alberi. In fase di lavorazione, il nonno appoggiava l’intreccio avviato sulle ginocchia e faceva in modo che stesse frenato anche se a tratti lo girava tra le mani per agevolare i vari passaggi. Si fermava quando ne usciva un lavoro ben rifinito. L’arte di intrecciare i rami dovrebbe essere ripresa da chi la conosce bene per fare in modo che i giovani imparino vecchie tecniche sempre utili. In questo modo si conoscono gli alberi  e la loro fioritura, il tipo di legno, l’elasticità dei rami e per quali lavori. L’arte del fare andrebbe intrapresa in ogni caso, sia che si scelga un mestiere che una professione e il costruire insegna tante cose, persino a pensare.  L’arte del costruire è rilassante, il fare riposa la mente così come il pensare riposa il fisico. Per l’intreccio non servono rami veri e propri ma polloni, quei ramoscelli che crescono alla radice della pianta o da nodi di alberi e si mostrano più flessibili e teneri degli altri.
La voglia di fare e di creare può essere contagiosa. Ci sono in giro piccoli capolavori che vanno a ruba e sono un richiamo non solo per i turisti. E poi  c’è un ritorno alla natura che si avverte anche in casa preferendo il legno alla plastica con ceste e oggetti ricavati dai rami di alberi di varia provenienza. Sanno dei terreni dei diversi luoghi dove i polloni per l’intreccio sono cresciuti. Creare una scuola che tenga conto di queste arti antiche è un modo per non perdere le proprie radici, la tradizione dei padri e la conoscenza del territorio.

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Nuvole


Detto così pensiamo a qualcosa di inconsistente, insignificante. Lo diciamo a chi è distratto: “Cosa guardi, le nuvole?” Stanno lì per aria nelle loro forme varie, nella loro consistenza pesante o leggera e non sai se stiamo parlando di sogni o geografia, due parole che non sono poi agli antipodi. Parliamo della geografia dei sogni o dei sogni che fa la geografia? Un luogo geografico ideale per i sogni con le sue nuvole è Vico. Anche questo, detto così, può sembrare campanilismo, tanto  chi è di Vico ne parla bene. 


Ma avete osservato le nuvole degli altri paesi? O sono troppo grandi o indecifrabili e poi sconosciute che non possono piacerci e con le quali non riusciremmo nemmeno a sognare. Le  nuvole vicane e dintorni sono un’altra cosa! Sono a misura di territorio, si adattano ai tetti, al mare, alle altezze. L’altro giorno sulla Statale, tornando da Sorrento,  mi è comparso davanti il campanile di San Francesco che emergeva dal groppo verde della collina su cui spiccavano tre nuvole fatte ad opera d’arte,  e non avrei avuto i colori giusti per poterle dipingere. Avevano assunto una tale bellezza col rosa intenso dell’intonaco del campanile e il blu del mare, che i colori  riflettendosi al cielo le coloravano. Quelle tre nuvole avevano un lato grigio perla dai bordi  blu, il centro bianco panna e l’altro versante grigio intenso. Se San Pietro si fosse affacciato lo avrebbe preso per  il suo Paradiso. Ce n’erano poi altre, con colori più chiari o più scuri da farsi ammirare allo stesso modo delle altre, e c’era l’imbarazzo della scelta a quale versante dedicarsi. Un osservatorio unico è Moiano o ancora più su,  Santa Maria del Castello. Man mano che si sale gli spettacoli aumentano! Lì le nuvole viaggiano sulla testa a velocità sostenuta, non hai tempo di ammirarle che si scompongono e si ricreano come vuole la tua fantasia. Quale scienza può fare questo se non la creatività di cui siamo forniti? Grazie al mare e alla pioggia o qualche riflesso di arcobaleno o raggio di sole impertinente, da queste parti ci sono le nuvole migliori che si possano avere. Vuoi mettere l’intensità di un cappello che si appoggia al Faito e manda giù pioggia in un  raggio di pochi metri come un fungo che si libera delle spore, e cambia colore man mano che l’acqua scende e diventa leggera? Quale spettacolo può eguagliare quello di ammirare dalla costa il golfo mentre in testa passeggiano nuvole portate a spasso dal vento o illuminate da lampi che squarciano l’anima e che si lega a loro per qualche desiderio? A me piacciono quelle quando il cielo è ceruleo e le protagoniste pezzi di ovatta bianca, dalle sfumature di rosa e paglino, dalle forme bislacche che arrancano e vogliono tenersi a quel pezzo di cielo mentre il vento le incita a lasciare il cammino. Sono messe come un trofeo per l’aria e le osservi come se ti stessero portando lontano, ma non troppo, perché non lasceresti questo luogo nemmeno se le nuvole fossero nero pece o più intense di quelle sull’oceano. Eppure sulla tela sono difficili da trattare, vogliono pennellate precise, per niente appesantite, altrimenti vengono su goffe e posticce rendendo l’aria pesante. Sono le damigelle dei monti, dove si sistemano sugli alberi o sulle case, sui rivi e i cortili, i campanili nei vari casali, nei boschi e sulle torri. Fanno compagnia alle cime, colorano i tramonti, accompagnano l’alba, stazionano a mare e toccano la costa come signore a passeggio nel parco. Sanno nascondersi quando sono assonnate nelle giornate più  uggiose, fanno capannelli sulle varie frazioni e si lanciano al galoppo se l’aria lo permette. Le nuvole di questo posto sono creative, sono turiste nate, frenetiche e birichine. Ma sono ancora più belle se ti metti su un prato, appena le piogge lasciano posto al vento e al sole che le combinano e le colorano e ne osservi i movimenti. Quanti cavalli al pascolo, cammelli o elefanti passano sulla nostra testa e tu li vedi, come in un film, nella savana ricca di animali o qualche tigre che vuol cadere giù. Ho visto talvolta il lupo di Cappuccetto, ma anche lupi più spaventosi come quelli che sganciano bombe facendo  crollare palazzi e asili, scuole dove tanti bambini devono cercare riparo e muoiono per non averlo trovato. Questo di sicuro non è colpa delle nuvole, ma esse hanno privilegio di farci viaggiare e portarci da loro a toccare con mano lo scempio mentre qui comincia, anche se a stento, la primavera in paradiso. E si possono vedere anche scritte e locandine dove si dice di aver cura di questo paradiso e che non è vero che la guerra si fa per la pace, la guerra è guerra e dovremmo cominciare a evitarla anche solo tra le persone, tra i vicini, tra i parenti, tra fazioni, tra partiti. La guerra è diabolica e dobbiamo imparare a fare la pace. Come si farà mai? Facciamoci ispirare dalle nuvole che hanno segni e parole per noi se solo vogliamo leggerci dentro e tutto quello che di buono possono darci non è altro che quello che alberga di buono dentro di noi. Sono solo il nostro specchio e magari possiamo leggerci perfino la  “pace” in un arcobaleno e se questo non è il più bel sogno che si possa fare, ditemi voi cosa ci potranno dare di più le nostre nuvole? La geografia dei sogni è tutta vicana, sogni col potere di diventare realtà. Le nuvole, vere protagoniste di questo paesaggio, che hanno tanto da insegnarci scrivendo nei cieli i nostri desideri.

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San Giuseppe



Giuseppe è il papà di Gesù che tante volte abbiamo disegnato a Natale, messo nei nostri presepi, vestito nelle rappresentazioni varie. Non si sa molto di lui, non abbiamo notizie oltre quel poco che basta a presentarcelo. Lo abbiamo visto sempre nella capanna, simbolo di casa e di famiglia, col suo bastone, come un re accanto a Maria, nei suoi abiti colorati ricchi di drappi, con quella barba segno di saggezza. E tutto quello che abbiamo pensato di lui è che era un vero padre. La paternità non è semplice definirla, ma tutti sappiamo cos’è. Lo abbiamo appreso dai nostri, che forse al cospetto di Giuseppe possono sembrare da meno, soprattutto meno santi, ma non è così. Ogni padre racchiude in sé l’amore per i propri figli anche se 
non sa esprimerlo o deve impararlo proprio da loro
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San Giuseppe,  il padre per antonomasia ma anche paradossale  per la sua  paternità putativa: non ha concepito con Maria quel figlio. E prima ancora fu un fidanzato “nei guai”, come diceva Matteo. Sì, perché quando seppe che Maria attendeva un figlio, mise in dubbio la sua verginità, lungi da lui il pensiero che fosse opera dello Spirito. Voleva ripudiarla, cosa che fece in cuor suo pur non ammettendolo. Ma un angelo gli apparve in sogno e lo dissuase. Troppo semplice detto così, ma possiamo immaginare quello che provò, e che dovette superare. Intanto nessuno può incarnare il ruolo di padre se non Giuseppe. E quel gesto che molti possono contestare, è forse quello che gli conferisce maggiore credibilità. Che padre sarebbe stato oggi Giuseppe, o che uomo, che marito? Difficile saperlo. Eppure quel falegname è entrato nel nostro immaginario come il padre per eccellenza. Un padre buono, comprensivo, affettuoso, esemplare. La sua fu una vita di obbedienza, senza mai ribellarsi. E se i dubbi non  lo avessero attanagliato per molto tempo, prima di sposare Maria, sarebbe stato difficile credere al suo lato umano. Una paternità non sua ma accettata lo rende moderno, ancora più vero come padre. Oggi il caso di Giuseppe non è novità, ci sono esempi vari, ma di sicuro ci sarebbe bisogno di una paternità più sentita. I padri sono sempre a combattere con un ego troppo grande o troppo piccolo o troppo in formazione per accogliere i figli secondo i loro bisogni. La prole passa in secondo ordine rispetto ai loro bisogni e un figlio arriva anche troppo tardi o prestissimo, due tempi non consoni alla paternità. Chi accetta oggi di sposare una donna  con un figlio non suo?  Sarebbe sintomo di debolezza per i più, reprensibile per molti, per altri non si pone proprio la domanda. E se anche un padre oggi accettasse una paternità non sua, quella decisione rappresenterebbe sempre motivo di discussione e ripensamenti. Giuseppe ha fatto sua quella paternità, e l’ha esercitata meglio di un padre vero. Che rende un padre vero o cosa deve fare per essere tale? Deve crescere suo figlio  vedendo in lui l’uomo che sarà, educandolo e fornendogli esempi.  Un figlio chiede tutto: dall’affetto,  al consiglio, all’aiuto, alla presenza, all’abbraccio, al supporto.  La grandezza di Giuseppe è quella di aver preso sulle spalle quel figlio e non averlo mai ricusato. La paternità non è avere lo stesso gruppo sanguigno, i tratti somatici uguali, il carattere simile, appartenere allo stesso albero genealogico. La paternità è vestire un ruolo da rispettare e onorare sempre e non qualche volta. Quanti giovani padri oggi ripudiano i loro figli solo perché non sono pronti, non se lo aspettavano, non lo volevano, non era il momento. Spesso sono capaci di ritrattare anche l’amore pur di evitare un figlio. Molti rifuggono il ruolo per sentirsi eterni ragazzini. Il padre oggi è una figura latente e non si stenta a credere, come dice Papa Francesco, che se oggi Giuseppe avesse saputo di Maria che era in attesa di un figlio non suo, sicuramente avrebbe avuto bisogno dello psichiatra. Giuseppe rappresenta la fede silenziosa, il capire che l’ubbidienza è la prima regola per amare.  Il padre ha una funzione fondamentale, è quello che permette, secondo Lacan, la costruzione della soggettività del figlio, staccandolo dal rapporto incestuoso con la madre e ad andare oltre. Interagisce tra i due, si inserisce nel rapporto e lo modera, lo modella, lo lima. Il padre  fa emergere la soggettività dei vari componenti della famiglia mettendoli in relazione col mondo esterno. Giuseppe è il padre buono che sa ascoltare, che è paziente ed è presente. La difficoltà più grande di essere padre è quella di esserci sempre.

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Marzo

Marzo è il mio mese di nascita e ho imparato a volergli bene. Per quanto sia il mese dei primi venti di primavera, è sempre ambiguo, confuso, per niente amico. Di solito mi ammalo a marzo, nel senso che una tosse, un colpo di freddo se non la bronchite arrivano sempre in questo mese. E poi, portando più luce, tepori  e giornate più lunghe, ci si dimentica che l'inverno non è ancora andato via. A me piaceva quando a scuola l'insegnante spiegava gli aspetti di marzo come se stesse parlando di una persona: "E' il mese un pazzo, un po' fresco, un po' caldo. Si sente già la primavera e noi tutti vestiamo con abiti più leggeri.




A marzo il vero protagonista è il vento, quel mascalzone che porta da una parte all'altra i semi e li lascia cadere dove vuole. Arriva la festa del papà e di San Giuseppe e poi è un mese di trentuno giorni e non perdiamo di vista che porta l'ora legale!" A quel punto marzo mi diventava odioso! Come poteva permettersi di farmi dormire di meno quando la primavera mi porta sonno? E poi quella festa del papà e di San Giuseppe! E se non c'era un Giuseppe in famiglia? E il papà? A regalargli sempre cose utili come se non esistessero altro che cose utili! Le solite pantofole, pigiama, maglie intime, bottiglie di liquore, camicie. Ma chi osava scervellarsi più di tanto a scegliere un regalo più originale? Di solito si seguiva il consiglio materno che sapeva di cosa aveva bisogno. Quando glielo portavo, s'illuminava dicendo sempre che ne aveva proprio bisogno. Ma marzo per me è tutta un'altra storia: i fiori di mandorlo a festa che mi fanno ricordare le canzoni di Lucio Battisti, i colori nuovi della natura, quella leggera brezza che s'infiltra tra i rami e accarezza i prati, i narcisi sulle siepi e le api nelle prime giornate di sole. Marzo è scuotermi dal torpore dell'inverno, accompagnando con gli occhi i vestiti nuovi di colline e montagne. Marzo è silenzio sulla riva del mare dove già prevediamo il sole dell'estate e ancora i nuovi progetti da coltivare. Marzo è dare vita alle piccole cose, ai dettagli che diventano importanti. Ecco, un mese ricco di novità e cambiamenti. Marzo dei fiori e delle rondini, di quelle poche rimaste, degli aquiloni e dei pensieri freschi fatti di cose nuove. E' abbracciare la primavera anche se piove e fa freddo e vedere, tra una pioggerellina e l'altra "che picchia argentina sui tegoli vecchi" le foglioline avanzare a schiera sui rami.

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Vento

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Ti sento nel cortile:
la pioggia della notte
soccombe ai tuoi respiri.
Corri avvolgendo
i mulinelli alzati in volo.
Porta via dal mondo
i putridi vili,
l’orrore della guerra,
il male che in esso si aggira.
Tu, spazzino dell’etere,
non lasciare polveri
da sparo,
asciuga le lacrime delle madri
che hanno pagato la guerra
e semina tregua,
che cada ovunque.
Versa nel mare purificatore,
seppellisci nei suoi fondali
quello che non deve essere né visto
né ascoltato.
Sii generale
di armistizi e trattati
solo ricoprendo gli scheletri rami
a primavera
e invadendo suoli,
anche i più devastati,
con mille colori.
Fai nascere dal sangue
prati nuovi
su cui scrivere
le storie dei bambini di domani
che non ricordino più
i giocattoli nascosti dai cannoni.
Lava col tuo sibilo gli
orecchi assordati
dai tuoni delle bombe,
al loro posto
filastrocche mai sentite.
Vento che ti affanni nei secoli
a portare vita nuova
giura di recare un polline
mai conosciuto prima
e magari gettane
sui prati in fiore,
che veramente possano dire
oggi pace sia!



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La carica dei maggiorenni


Varcare la soglia dei diciotto anni è un momento indescrivibile, carico di emozioni e trepidazioni per entrare nel mondo degli adulti. Gli adulti! Se sapessero quale confusione regna in questo reparto, non vorrebbero mai entrarci. Le matricole di oggi sono certamente ragazzi svegli,  giudiziosi e capaci di grandi riflessioni. Sono cresciuti a pane e computer, in famiglie nuova generazione, complete di benessere e difficoltà, difensori dell’immagine, figli di Narciso, poco legati alle regole che si infrangono prima ancora proprio in seno alla famiglia. A casa i genitori si scambiano facilmente i ruoli, con mamme impegnate e papà permissivi, talvolta sfuggenti. Di questo nessuna colpa ai giovani, sono i grandi che non sono più i curatori della famiglia come una volta.





 Riescono appena a relazionarsi figuriamoci se si ha il tempo di parlare di temi importanti come la politica. Essa viene chiamata in causa quando le cose non funzionano. Per esempio quando si riscuote uno stipendio per niente soddisfacente, quando ci si arrovella per le tasse, quando un mutuo costa un accidente o quando una legge è contro gli interessi di molti cittadini. La politica è vista piuttosto un servizio da erogare che non una mentalità da costruire. Durante le elezioni ci si ricorda, memore delle difficoltà incontrate, e ci si vende al miglior offerente: al personaggio di turno che meglio incarna le aspirazioni di tutti. Così facendo cresciamo i ragazzi nell’approssimazione, mentre dovrebbero acquisire dei comportamenti desunti da stili di vita propositivi. Dovrebbero esercitarsi sin da piccoli,  per poter diventare come i castori, “costruttori di dighe”.  E pensare a quando noi, vecchia classe, abbiamo compiuto diciotto anni, è come ritornare alla preistoria: pieni di timori, sotto l’egida materna più che paterna, rispettosi, ligi al dovere, già pieni di progetti per l’avvenire in testa. Ma non eravamo migliori. Si era assuefatti agli stili e alle idee di famiglia e non si usciva da quel recinto. I ragazzi di oggi sono molto più aperti, pur amando la famiglia, si creano spazi e amicizie come se fossero mondi distinti e separati. Sono autonomi e sanno cosa vogliono. La famiglia è un contenitore dove le cose taciute diventano oscure e mai più comprese. Quello che si apprende discutendone in famiglia non lo si può fare in altri contesti. Maturare è questo: ascoltare, confrontarsi, capire  e decidere.  Tutto quello che avviene in famiglia è di grande rilevanza. I nostri giovani vivono la politica come quando si va ai grandi magazzini: al miglior offerente danno il voto, osservando poi cosa succede. Giunti dove siamo, impossibile capire cosa scegliere in un contesto poco leale. Scegliere per un bene che non sia personale, scegliere per ideali e non per vendersi, scegliere per progredire e non cadere in ritorni al passato, scegliere per costruire. E solo dopo aver conosciuto. Sono disorientati da quello che sentono e che vedono. Vanno a istinto, a quello che propinano  gli stessi parenti, amici, conoscenti.  La scuola e la famiglia dove devono formarsi, sono tra loro contraddittori. Non si vota per compiacere gli altri, né per timore di non essere più amico di, e nemmeno per non deludere. L’unico di cui tenere in considerazione è se stessi. Diamo peso a questo diritto che nel tempo ha perso valore. Le sorti della politica possono essere cambiate proprio grazie alla forza dei giovani in un paese anziano.
Il fallimento della società è dato da quella grande percentuale di giovani indecisi e   distanti dalla politica e in cui non credono. Ai loro occhi è torbida, non chiara e complicata e continuano a rilevare che ogni volta è un azzardo alla sperimentazione con gli uomini di turno. Ma ancor di più è preoccupante quella parte di giovani che ha scelto di non votare per non avere referenti in cui identificarsi. In questo caso votare comunque, scegliendo chi farà meno danni, adesso e in futuro. Diffidare di quei politici che perorano le cause solo di determinate categorie, perché rappresentano la maggioranza dell’elettorato. Diffidare di chi corrompe con agevolazioni  ad personam, diffidate di chi è entrato in politica per salvaguardare i propri interessi o di chi spera di avere in mano il comando prima ancora di essere eletto. Molti vogliono salvare solo se stessi, la maggioranza non vuol perdere privilegi, e altri non lasciano le poltrone nemmeno quando sono spudoratamente in fallo. Per muoversi nei meandri della politica bisogna chiedere, informarsi, farsi spiegare, sottolineare le cose e avvicinare solo chi parla una lingua chiara. Molti politici fanno leva proprio su chi va a votare per la prima volta, ritenendolo facile preda. Non si è persa la cattiva abitudine di chiedere il voto come quando si portano i confetti per invitare a un matrimonio, e se necessario promettendo l’inverosimile. Prima di votare avvicinarsi ai fatti salienti di storia,  approfondire la conoscenza  del proprio luogo, della vita dei genitori, di chi li ha preceduti e quelle che erano le loro aspettative. Ormai gli ideali di partito di una volta non esistono più. La vera rivoluzione sarebbe quella di cambiare il sistema di pensiero, di fare politica per ordinare e non scombinare i piani delle vite altrui, di semplificare le cose e non complicarle, di snellire e non incrementare.  Ma un conto è capire come stanno le cose, un altro rimboccarsi le maniche e partecipare. Ai giovani indecisi e a quelli che vorrebbero astenersi  dico che è meglio votare. I detentori del futuro devono votare sempre e comunque per esprimere quello che altri mai potranno fare per loro  e soprattutto per affermare un loro diritto oltre che dovere.

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